Rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo (di Riccardo Radi)

Si segnala il primo caso di applicazione dell’articolo 628 bis cpp introdotto dalla riforma Cartabia.

La Cassazione sezione 3 con la sentenza numero 20026 depositata il 21 maggio 2024 ha stabilito in accoglimento della richiesta ex articolo 628 bis Cpp, che la sentenza della Corte di appello di Milano deve essere annullata senza rinvio limitatamente alla determinazione della pena, che deve essere ridotta di un terzo, laddove è la stessa disposizione stabilire che – accertata l’effettiva incidenza della violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sulla sentenza o sul decreto penale di condanna – se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto o comunque risulta superfluo il rinvio, la Corte di cassazione assume i provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione, disponendo, soltanto ove occorra, la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna, mentre l’interesse ad essere giudicato con il rito abbreviato, costantemente espresso dal richiedente sia innanzi alla Corte di appello sia in sede convenzionale, può trovare effettiva e compiuta soddisfazione, nei termini indicati dalla stessa Corte Edu, con la riduzione di un terzo della pena ad opera del collegio di legittimità.

Nel caso esaminato il ricorrente non aveva potuto essere giudicato con il rito abbreviato sulla base di un orientamento giurisprudenziale poi superato che era costato all’Italia una condanna dalla Corte di Strasburgo.

L’orientamento era stato poi superato dalla sentenza 52274, Sezioni unite penali del 07-12-2016 che ha previsto: “Disposta la restituzione nel termine per appellare la sentenza contumaciale di primo grado, ai sensi dell’articolo 175, comma 2, Cpp., nel testo vigente prima della entrata in vigore della l. n. 67/14, applicabile ai procedimenti in corso a norma dell’articolo 15 bis della legge citata, l’imputato, il quale non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento, può chiedere al giudice di appello di essere ammesso a un rito alternativo”.

L’introduzione dell’art. 628-bis c.p.p., rubricato “Richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dei Protocolli addizionali” prevede appunto un rimedio processuale che consenta la riapertura dei procedimenti penali “viziati” da violazioni convenzionali accertate dalla Corte di Strasburgo.

Ricordiamo l’interessante sentenza della cassazione sezione 5 numero 39801/2023 chiamata a decidere sull’applicabilità dell’articolo 628-bis cpp in tema di procedimenti di sorveglianza.

In questo caso la cassazione ha ritenuto che: “deve affermarsi il principio di diritto secondo il quale la richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della CEDU o dei Protocolli addizionali ai sensi dell’art. 628-bis cod. proc. pen. può avere ad oggetto la sentenza penale di condanna o il decreto penale di condanna, sicché il rimedio è inapplicabile con riferimento ad un provvedimento di competenza del Tribunale di sorveglianza, cui l’interessato può sottoporre la questione, con una nuova domanda”.

Per arrivare a questa affermazione la cassazione ha sviluppato il seguente ragionamento che è interessante per i richiami fatti sull’argomento.

Il problema dell’individuazione di uno strumento processuale finalizzato alla “riapertura” del procedimento penale definito irrevocabilmente, così da poter dare seguito alla sentenza della Corte EDU che abbia accertato una violazione della Convenzione, è risalente.

Ad esso ha cercato di fornire soluzione la Corte costituzionale con la sentenza n. 113 del 2011, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen. (dedicato alla revisione), nella parte in cui non prevedeva tra i relativi casi quello finalizzato a conseguire la riapertura del processo necessaria per conformarsi ad una sentenza della Corte EDU.

Ne è seguita un’attenta elaborazione dottrinale ed anche una nuova sentenza del giudice delle leggi (n. 210 del 2013) che ha osservato come, nei casi in cui non era necessaria la riapertura del processo di cognizione, ma occorreva piuttosto incidere sul titolo esecutivo, il rimedio esperibile fosse il procedimento di esecuzione.

Le difficoltà pratiche, la farraginosità della procedura di revisione, le incertezze in ordine alle violazioni convenzionali rilevanti hanno portato il legislatore a cercare di porre mano alla materia, attraverso un disegno di legge (S-23 del 23 marzo 2018) che si è poi arenato e che, al pari di quelli che avevano preceduto la ricordata sentenza della Corte costituzionale n. 113/2011 (in particolare, S-3168 del 24 marzo 1998 e S-1997 del 18 settembre 2007), si poneva l’obiettivo di prevedere un rimedio alle accertate violazioni della Convenzione che avevano portato ad un “processo iniquo”.

Si è giunti così alla legge-delega n. 134 del 2021, in attuazione della quale (in particolare, in attuazione dell’art. 1, comma 13, lett. o), è stata emanata la nuova disposizione codicistica, invocata dal V.

La nuova norma viene collocata in un nuovo Titolo III-bis del Libro IX sulle impugnazioni, rubricato «Rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo».

La norma è rubricata come «Richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dei Protocolli addizionali».

La denominazione, la collocazione topografica (la norma è collocata tra le disposizioni in materia di ricorso per cassazione e quelle relative al giudizio di revisione), la circostanza che l’istituto riguardi una sentenza o decreto penale irrevocabili, cui sia seguito l’accoglimento da parte della Corte europea del relativo ricorso (ovvero la cancellazione dello stesso dal ruolo in ragione del riconoscimento della violazione da parte dello Stato), sono elementi che portano senza dubbio a qualificare il rimedio previsto dall’art. 628-bis cod. proc. pen. quale mezzo di impugnazione straordinario.

Il comma 1 dell’art. 628-bis cod. proc. pen. prevede che «il condannato e la persona sottoposta a misura di sicurezza possono richiedere alla Corte di cassazione di revocare la sentenza penale o il decreto penale di condanna pronunciati nei loro confronti, di disporre la riapertura del procedimento o, comunque, di adottare i provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, quando hanno proposto ricorso per l’accertamento di una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o dai Protocolli addizionali alla Convenzione e la Corte europea ha accolto il ricorso con decisione definitiva, oppure ha disposto la cancellazione dal ruolo del ricorso ai sensi dell’articolo 37 della Convenzione a seguito del riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato».

Il comma 5, significativamente, aggiunge: «Fuori dei casi di inammissibilità, la Corte di cassazione accoglie la richiesta quando la violazione accertata dalla Corte europea, per natura e gravità, ha avuto una incidenza effettiva sulla sentenza o sul decreto penale di condanna pronunciati nei confronti del richiedente.

Se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto o comunque risulta superfluo il rinvio, la Corte assume i provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione, disponendo, ove occorra, la revoca della sentenza o del decreto penale di condanna.

Altrimenti trasmette gli atti al giudice dell’esecuzione o dispone la riapertura del processo nel grado e nella fase in cui si procedeva al momento in cui si è verificata la violazione e stabilisce se e in quale parte conservano efficacia gli atti compiuti nel processo in precedenza svoltosi».

Il comma 6 precisa che «la prescrizione riprende il suo corso dalla pronuncia della Corte di cassazione che dispone la riapertura del processo davanti al giudice di primo grado»; ed il comma 8 aggiunge che «le disposizioni del presente articolo si applicano anche quando la violazione accertata dalla Corte europea riguarda il diritto dell’imputato di partecipare al processo».

Ebbene, la circostanza che la natura “aperta” del rimedio elaborato dal legislatore abbia indotto quest’ultimo a prevedere, nel primo comma, un’ampia possibilità per la Corte di adottare «i provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo», non consente però di dimenticare che, secondo quanto lo stesso primo comma indica e il quinto comma ulteriormente rafforza e precisa, oggetto dell’intervento della Corte deve essere esclusivamente la sentenza o il decreto penale di condanna.

Su di essi, in quanto provvedimenti che hanno comportato la formazione del giudicato all’esito di un procedimento o di un processo penale contraddistinto da violazioni accertate dalla Corte europea, la Corte di cassazione può incidere, revocandoli laddove necessario; laddove ciò non sia invece necessario, e la violazione abbia carattere processuale, la Corte potrà riaprire il processo “viziato”, eliminando gli effetti pregiudizievoli derivanti dall’accertata violazione; laddove la questione non comporti la rimozione del giudicato, la devolverà al giudice dell’esecuzione. In altri termini, la violazione convenzionale ha prodotto una “condanna ingiusta”, cioè un provvedimento irrevocabile al quale si è pervenuti in violazione di uno dei diritti fondamentali assicurati dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo o dai Protocolli addizionali alla medesima.

Colui che abbia subito tale ingiusta condanna e la conseguente sanzione penale (o misura di sicurezza) – e lui soltanto – e che non abbia a disposizione altro rimedio, può proporre una richiesta che, diversamente dall’istanza di revisione, non è finalizzata esclusivamente all’immediato proscioglimento. Infatti, la violazione del diritto fondamentale potrebbe risolversi mediante la riapertura del processo (si pensi al caso, espressamente menzionato dal comma 8, nel quale l’accertata violazione riguardi la garanzia della partecipazione al processo, ovvero a possibili violazioni convenzionali che abbiano inciso sull’assunzione della prova), cui dunque la Corte di cassazione può provvedere, con la salvaguardia degli atti non viziati (ultima parte del comma 5) e con nuovo decorso dei termini di prescrizione dalla ripresa del processo (comma 6).

Oppure potrebbe essere necessario rimediare alla violazione trasmettendo gli atti al giudice dell’esecuzione (si pensi, sempre a titolo di esempio, ai casi nei quali la violazione convenzionale abbia inciso sul titolo ovvero sulla specie o sulla quantità della pena irrogata). In ogni caso, attraverso il provvedimento reso a seguito della procedura attivata ai sensi dell’art. 628-bis cod. proc. pen., la Corte di cassazione rimuove gli effetti di una sentenza di condanna o di un decreto penale che sarebbero altrimenti intangibili. Se, invece, il provvedimento asseritamente viziato (cioè, il provvedimento sulla cui adozione abbia avuto effettiva incidenza l’accertata violazione convenzionale) sia impugnabile ovvero vi sia la possibilità di una sua emissione ex novo, appare evidente come il rimedio previsto dall’art. 628-bis cod. proc. pen., per la sua natura di extrema ratio, non sia (ancora) utilmente esperibile.

Le considerazioni appena svolte rendono palese che il rimedio richiesto non si attagli al caso di specie: come è noto, i provvedimenti adottati dalla magistratura di sorveglianza sono caratterizzati, come ha correttamente osservato il Procuratore generale, «dall’essere adottati “rebus sic stantibus”, così da dare luogo al c.d. “giudicato aperto”».

Il c.d. «giudicato esecutivo», infatti, non si configura come giudicato in senso stretto, quanto piuttosto come una preclusione processuale destinata a non operare nel caso in cui sopravvengano nuovi elementi non valutati nella precedente decisione della magistratura di sorveglianza (Sez. U, n. 34091 del 28/04/2011, S., Rv. 250350).

Al rigetto o alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso per cassazione presentato avverso l’ordinanza che ha rigettato la precedente istanza di liberazione condizionale non conseguono dunque preclusioni, dal momento che una nuova istanza sarebbe fondata su presupposti diversi, e cioè sulla rimozione, da parte del legislatore, della presunzione assoluta sulla cui base è stato emesso il precedente provvedimento reiettivo.

Meritano dunque condivisione le conclusioni rassegnate dal Procuratore generale, laddove ha scritto che «l’effetto pregiudizievole della violazione, costituito dalla (dichiarata) inammissibilità, non necessita di “provvedimenti idonei” da parte della Corte di cassazione ai sensi dell’invocato art. 628 bis c.p.p., perché è già stato rimosso dal Legislatore.

Il “provvedimento idoneo”, assunto dalla Corte, cui è precluso il merito della vicenda, non potrebbe che consistere nell’investire nuovamente il tribunale di sorveglianza de L’Aquila».

Del resto, lo stesso ricorrente, nel primo motivo, ha affermato (a pagina 23) di poter ora procedere, all’indomani degli interventi legislativi sopra richiamati, ad una nuova richiesta di liberazione condizionale.

Richiesta che, naturalmente, va presentata al competente Tribunale di sorveglianza.

Nemmeno può giustificare un intervento della Corte di cassazione quello che il ricorrente qualifica come secondo motivo, con il quale sollecita la Corte a valutare se le condizioni poste dalla legge consentano un effettivo riesame della sua posizione nel senso indicato dalla Corte EDU. La legge, come si è detto, ha eliminato presunzioni assolute.

La stessa Corte di Strasburgo, nella sentenza pronunciata all’esito del ricorso presentato dal V., aveva auspicato, come si è detto in premessa, «una riforma del regime della reclusione dell’ergastolo che garantisca la possibilità di riesame della pena; cosa che permetterebbe alle autorità di determinare se, nel corso dell’esecuzione della pena, vi è stata un’evoluzione del detenuto e se è progredito nel percorso di cambiamento».

Nel far ciò, come pure si è ricordato, la Corte ha ammesso che lo Stato potesse pretendere la dimostrazione della rottura con l’ambiente criminale di provenienza, dimostrazione svincolata da automatismi e da presunzioni assolute e tuttavia necessaria.

Del resto, è lo stesso ricorrente a ricordare di essere stato ammesso, alla luce della nuova normativa (oltre che dei principi sanciti, in materia di presunzione di pericolosità per delitti ostativi con riferimento alla materia dei permessi-premio, dalla sentenza n. 253/2019 della Corte costituzionale), ad un permesso-premio, all’esito di una valutazione espressa, da parte del Tribunale di sorveglianza, degli elementi richiesti dal nuovo art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen.

Per chiudere sul punto, è appena il caso di osservare come la norma invocata sia chiara nel momento in cui collega «il condannato o la persona sottoposta a misura di sicurezza», quali soggetti legittimati a proporre la richiesta ex art. 628-bis cod. proc. pen., al provvedimento i cui effetti sono suscettibili di essere rimossi («la sentenza penale o il decreto penale di condanna pronunciati nei loro confronti»).

Le Sezioni Unite sono state chiamate a risolvere un contrasto interpretativo in materia di ricorso straordinario per errore materiale o di fatto (art. 625-bis cod. proc. pen.), in particolare con riguardo alla possibilità di consentire detto rimedio avverso la sentenza con la quale la Corte di cassazione dichiari inammissibile o rigetti il ricorso del condannato contro la decisione negativa pronunciata dalla Corte di appello in sede di revisione (Sez. U, n. 13199 del 21/07/2016, dep. 2017, Nunziata).

La norma di riferimento (art. 625-bis cod. proc. pen.) stabilisce il ricorso straordinario in favore «del condannato» e dunque, interrogandosi sul significato da attribuire alla parola (questione centrale per risolvere il devoluto contrasto), la Corte ha osservato che il termine può essere inteso «in senso storico – nel senso che “condannato” è “colui che fu condannato”» oppure «come espressivo di uno status – lo status di condannato, appunto, in una sorta di accettazione del principio di semel “condannato”, semper “condannato”».

Proseguendo nel ragionamento, le Sezioni Unite si sono chieste «se per “condannato” si debba comprendere chi diventi tale a seguito di una decisione che operi la trasformazione della precedente condizione giuridica di imputato ovvero se possa riferirsi anche a colui che lo è già».

Il contrasto è stato risolto in favore dell’orientamento meno rigoroso (ritenendo ammissibile la richiesta ex art. 625-bis cod. proc. pen., nel caso di specie poi rigettata, in favore del condannato per la correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza che rigetti o dichiari inammissibile il ricorso contro la decisione negativa emessa in sede di revisione), facendo espresso riferimento alla prevalenza del principio del favor innocentiae (su cui si fonda l’istituto della revisione) rispetto al giudicato e precisando come il provvedimento della cui impugnabilità si discuteva avesse comunque attitudine «a stabilizzare e a ribadire il giudicato di condanna».

Dunque, nemmeno nella più ampia prospettiva fatta propria nell’occasione dalle Sezioni Unite è stato possibile interpretare il termine «condannato» nel senso amplissimo di «persona già condannata». Il termine segnala, invece, la necessità che sia sopraggiunta l’irrevocabilità della decisione rispetto alla quale si invoca il rimedio straordinario o di diversa successiva decisione idonea a stabilizzare il giudicato della prima, e che di queste si discuta.

Considerazioni analoghe possono essere svolte con riguardo al nuovo istituto, laddove peraltro è la stessa norma a individuare l’oggetto della procedura nella sentenza o nel decreto penale, e non in altri provvedimenti; e nell’indicare quali soggetti legittimati a promuovere la richiesta la persona condannata o sottoposta a misura di sicurezza, cioè coloro che sono stati colpiti da sanzione penale in virtù di un provvedimento irrevocabile.

Né si potrebbe in alcun modo ritenere che il provvedimento del Tribunale di sorveglianza sia in qualche modo chiamato a “stabilizzare” il giudicato formatosi con riguardo alla sentenza in corso di esecuzione, per parafrasare le Sezioni Unite: al contrario, è evidente che quello pronunciato dal Tribunale di sorveglianza è un provvedimento destinato ad innestarsi nell’esecuzione della sanzione già definitivamente irrogata per un fatto definitivamente accertato.

Conclusivamente, deve affermarsi il principio di diritto secondo il quale la richiesta per l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli delle decisioni adottate in violazione della CEDU o dei Protocolli addizionali ai sensi dell’art. 628-bis cod. proc. pen. può avere ad oggetto la sentenza penale di condanna o il decreto penale di condanna, sicché il rimedio è inapplicabile con riferimento ad un provvedimento di competenza del Tribunale di sorveglianza, cui l’interessato può sottoporre la questione, con una nuova domanda.