Testimonianza: il paradosso di una prova indispensabile ma ad alta fallibilità (di Vincenzo Giglio)

Si potrebbe – e forse dovrebbe – discutere se abbia ancora un senso e se l’abbia mai avuto il peso preponderante, assolutamente centrale, che le dichiarazioni testimoniali continuano ad avere nel processo penale e nel suo mosaico probatorio.

La storica diffidenza verso la testimonianza

Un interrogativo assai vecchio se è vero che se lo ponevano i legislatori di migliaia di anni fa.

Lo ricorda, ad esempio, Luisella De Cataldo Neuburger nel suo scritto “La psicologia della testimonianza dal codice di Manu ai giorni nostri (passando per la Santa Inquisizione)“, in Psichiatria, Psicologia e Diritto, Anno I – n. 1, aprile 2009 (consultabile a questo link):

Il tema della testimonianza è sempre stato presente, fondamentale e ineludibile nella storia dell’uomo dai tempi più remoti ai giorni nostri. E la ragione è chiara: da sempre il fare giustizia è stata un’esigenza imprescindibile di ogni aggregazione umana e, dal remoto momento in cui il giudizio ha smesso di essere emanazione divina, lo strumento per dirimere le questioni è stato quello della testimonianza anche se, ab immemorabili, si è avuta la certezza della sua intrinseca inaffidabilità. Non c’è stata codificazione, a partire dal codice di Manu ai giorni nostri, che non abbia dovuto prendere atto della labilità della memoria, della possibilità, sempre in agguato, della menzogna, delle inevitabili differenze del ricordo di uno stesso fatto da parte di persone diverse e così via. Se così non fosse stato, sarebbero inspiegabili disposizioni che troviamo nell’Antico Testamento: «un solo testimonio non sarà sufficiente contro nessuno, qualunque sia il peccato o il delitto, ma tutto sarà stabilito sulla base di due o tre testimoni» (Deuteronomio, XIX, 15), nel Vangelo secondo Giovanni (VIII, 17) “D’altronde nella vostra legge è scritto che la testimonianza di due uomini è vera» e Matteo (XXVIII, 16): «Ma, se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni ». Nel Codice attribuito a Manu, (l’equivalente indiano di Noè) una raccolta di leggi di ispirazione Hindu che rappresenta il più antico sistema organico di leggi, pervenutoci in una redazione metrica del 100 d.C. che contiene precise e numerose norme sulla testimonianza non erano ammessi a testimoniare i re, i teologi, gli asceti, gli attori, gli artigiani; veniva riconosciuta la piena capacità testimoniale solo ai capi di famiglia con figli maschi e a coloro che abitavano nello stesso quartiere. Del tutto singolari appaiono le esclusioni previste dal libro VIII legge 67:“non un uomo soggetto altrui, non uno di cattiva fama, o colui che esercita una professione crudele, non colui che si dedica ad occupazioni proibite, non un vecchio, non un fanciullo, non un uomo appartenente ad una classe mista, non colui i cui organi sono indeboliti” E dopo aver prescritto che i testimoni devono sempre essere più di uno, indica altre cause di esclusione: “non un disgraziato oppresso dalle sciagure, non un ubriaco, non un pazzo, non un uomo che soffra la fame e il freddo, non uno spossato dalla fatica, non un innamorato, non un collerico, non un ladro“.

Un’antica e mai sopita diffidenza, dunque, che tiene in allarme ancora oggi e che induce il legislatore e i pratici ad adottare ogni possibile accorgimento per tenere a bada qualcosa che va, se così si può dire, maneggiato con cura.

D’altro canto, è altrettanto vero che, pur in questa nostra civiltà così fortemente informatizzata e digitalizzata, gli esseri umani e le loro parole continuano – fortunatamente, è il caso di aggiungere – ad occupare il centro della scena e questo li rende protagonisti di ogni contesto sociale, ivi compreso il palcoscenico giudiziario.

Si comprende così perché oggi come in passato nelle aule di giustizia non si può fare a meno delle parole, di chi le pronuncia, delle ragioni per cui le pronuncia.

Perché, se così non fosse, tutte le alternative immaginabili sarebbero la negazione dell’umanesimo e questo non è certo un approdo auspicabile.

La problematicità della testimonianza e delle prove dichiarative in generale: le trappole della memoria

Nel 1998 Gherardo Colombo, ex PM della Procura di Milano e componente del pool che si occupò delle indagini del cosiddetto filone “Mani Pulite”, pubblicò per Feltrinelli un libro dall’eloquente titolo “Il vizio della memoria”.

L’intenzione dell’Autore era in quel caso di denunciare il vizio, tipicamente italiano, di rimuovere deliberatamente il ricordo degli episodi di malcostume sociale, rinunciando così alla possibilità di impedirne la ripetizione e gli effetti corruttivi.

Quello stesso titolo torna qui utile per evidenziare una caratteristica sempre latente delle prove dichiarative nel processo penale.

Il riferimento è al fenomeno delle cosiddette “trappole della memoria”, un’espressione coniata da Raffaele Greco, in “Prova testimoniale e fallacia della memoria”, Rivista della Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, 2006, n. 4, pag. 159 e ss.

Pur nella consapevolezza che i meccanismi mnemonici sono difficilmente riconducibili a classificazioni costanti e di valore universale, si può comunque approssimativamente osservare che gli individui tendono ad acquisire la conoscenza dei fatti attraverso percezioni sensoriali che vengono memorizzate e conservate per un periodo di tempo di durata variabile e possono poi essere richiamate attraverso un processo riproduttivo spontaneo o innescato da agenti esterni.

È nell’esperienza di ognuno che ciascuno di questi momenti – la percezione, la memorizzazione, la riproduzione del ricordo – può subire interferenze e disturbi di vario genere.

La percezione può, ad esempio, essere falsata da limiti degli organi sensoriali o dalle caratteristiche personali e dall’esperienza del percettore.

La memorizzazione viene ordinariamente compiuta secondo automatismi che dipendono a loro volta dal grado di attenzione e di coinvolgimento che il soggetto interessato riserva al fatto caduto nella sua percezione, dalle stesse caratteristiche di tale fatto e dagli schemi e concetti astratti di classificazione utilizzati nel processo mnemonico. Così, ad esempio, se nell’episodio percepito è presente un cosiddetto elemento forte, cioè un dato di rilevante impatto emotivo, è piuttosto frequente che la memorizzazione tenda a concentrarsi su di esso e trascuri gli elementi di contorno (sebbene, per converso, sia altrettanto possibile che un evento dotato di elevata capacità traumatizzante possa essere rimosso dalla memoria come misura di difesa dell’equilibrio interiore di chi lo ha subito). Così come risulta più facile memorizzare un evento che riproduca uno schema o un concetto che il percettore già conosce e più difficile, invece, trattenere il ricordo di qualcosa che è estraneo alle sue conoscenze ed esperienze.

Anche la riproduzione del ricordo, infine, può essere inquinata in vario modo soprattutto se si tiene conto di alcune ricorrenti tendenze nel processo rievocativo di un fatto come, ad esempio, richiamare alla mente solo alcuni dei dati che lo hanno caratterizzato escludendo gli altri ovvero ricostruirlo non in modo genuino ma filtrato dalle esperienze di vita maturate nel periodo intercorso tra il fatto e il momento del ricordo.

Non solo: il processo di recupero delle informazioni memorizzate può essere influenzato secondo che il ricordo avvenga spontaneamente ovvero sia indotto o guidato come in effetti avviene nel caso del testimone.

È chiaro che in questo secondo caso il rischio di alterazione del ricordo aumenta per le possibili interferenze dovute al soggetto che sollecita la memoria o all’interazione tra questi e chi deve rievocare.

Possono dunque influire negativamente domande suggestive o fuorvianti da parte dell’esaminatore o l’uso eccessivo o improprio che questi fa delle proprie personali conoscenze. Ma possono influire anche l’eventuale predisposizione dell’esaminato a compiacere l’interrogante dicendogli ciò che ritiene gli sia più gradito o il timore che l’esaminato prova venendo a contatto con un contesto formale e istituzionale che non gli è familiare e con cui non è avvezzo a confrontarsi.

Senza poi contare il particolare rilievo assunto dalla cultura del dichiarante e dalla sua capacità espositiva, fattori questi che, ove carenti, sono anch’essi in grado di influenzare negativamente le informazioni veicolate dalla memoria.

La normazione ordinaria: strumenti per fronteggiare la problematicità delle prove dichiarative in generale ed assicurarne la migliore valorizzazione

Il legislatore, di certo consapevole delle potenzialità critiche delle prove dichiarative, ha inteso porvi rimedio attraverso un consistente pacchetto di norme procedurali, tutte accomunate dalla loro finalizzazione alla creazione di filtri in grado di eliminare o quantomeno attenuare i rischi connessi a tali prove.

Questi filtri sono sia preventivi, cioè azionabili prima che la dichiarazione si manifesti e volti quindi ad impedire che essa si manifesti in modo distorto, che successivi, cioè azionabili dopo che la dichiarazione è stata resa e volti quindi ad evidenziare e rendere inoffensive le sue parti inquinate oppure a recuperare ciò che la dichiarazione ha omesso ed avrebbe dovuto invece contenere.

Si possono citare a questo riguardo, ed a solo scopo compilativo, le seguenti disposizioni codicistiche:

  • l’art. 188 il quale vieta, anche quando vi sia il consenso dell’interessato, l’uso di metodi o tecniche capaci di influire sulla libertà di determinazione del dichiarante o di alterare la sua capacità di ricordare e valutare i fatti;
  • l’art. 189 che, riferendosi alle prove non disciplinate dalla legge (le cosiddette prove atipiche), le ammette solo se non pregiudichino la libertà morale delle persone;
  • l’art. 192 che, riferendosi in generale al tema della valutazione della prova, sancisce la necessità che gli elementi indiziari siano gravi, precisi e concordanti, così estendendo queste aggettivazioni agli elementi di fatto da cui gli indizi sono desunti;
  • l’art. 194 il quale, precisando l’oggetto e i limiti della testimonianza, elenca una serie di prescrizioni che servono ad impedire dichiarazioni vaghe, generiche, incontrollabili, non pertinenti ai fatti oggetto di prova, fondate su apprezzamenti soggettivi;
  • l’art. 196 che conferisce ad ogni persona la capacità di testimoniare ma consente, a fini valutativi delle dichiarazioni rese, la verifica dell’idoneità fisica e mentale del dichiarante in relazione alla sua veste testimoniale;
  • l’art. 198 che obbliga il teste a dire la verità;
  • l’art. 207 che istituisce una specifica procedura azionabile allorché il teste sia sospettato di falsità o reticenza;
  • l’art. 472 che impone il dibattimento a porte chiuse allorché l’assunzione di una prova possa pregiudicare la riservatezza o la sicurezza del teste;
  • l’art. 497 che assoggetta i testimoni all’obbligo del giuramento ed alla conseguente assunzione di responsabilità;
  • l’art. 499 il quale prescrive che l’esame testimoniale sia condotto su fatti specifici ed eviti domande tali da nuocere alla sincerità delle risposte o domande suggestive ed attribuisce al presidente vaste facoltà allo scopo di tutelare il rispetto del dichiarante, la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni;
  • l’art. 500 il quale consente le contestazioni nell’esame testimoniale allorché si profilino contraddizioni tra le dichiarazioni dibattimentali e quelle precedentemente rese e l’acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni istruttorie allorché risulti che il teste sia stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o altre utilità perché non deponga o deponga il falso;
  • l’art. 504 che consente di formulare opposizioni nel corso dell’esame dei testimoni;
  • l’art. 506 che consente al presidente di intervenire nell’assunzione della prova testimoniale facendo egli stesso domande integrative rispetto a quelle delle parti.

A questo sintetico elenco vanno ovviamente aggiunte le norme del Codice penale che sanzionano le varie fattispecie incriminatrici previste per i casi in cui le prove dichiarative non rispondano al dovuto canone di correttezza e verità per l’illecito comportamento dello stesso dichiarante o per l’influsso, altrettanto illecito, di forze esterne.

Si può allora affermare che il legislatore ha dotato l’ordinamento di un pacchetto di norme che, su un piano astratto, appaiono in grado di assicurare adeguati standard nell’assunzione e nel successivo utilizzo della prova dichiarativa.

È ovviamente discutibile se al piano astratto si accompagni anche quello sostanziale, se cioè le norme citate siano davvero in grado di preservare e valorizzare la capacità delle prove dichiarative di essere ciò che dovrebbero essere, cioè contributi reali alla conoscenza della verità, squarci di luce su spazi che altrimenti rimarrebbero bui.

Gli indirizzi giurisprudenziali

Una valutazione complessiva della giurisprudenza di legittimità consente di affermare la larga prevalenza di un atteggiamento conservativo riguardo alla prova testimoniale, nel senso di considerare la sua salvaguardia come opzione prioritaria e la sua smentita come opzione residuale.

Si fornisce di seguito una rapida selezione di massime in grado di confermare questo assunto.

…Dichiarazioni della persona offesa

a) Cassazione penale, Sez. 2^, 8999/2024, udienza del 23 gennaio 2024

L’esame della prova dichiarativa di chi non è coinvolto nel fatto, anche quando è raccolta in via unilaterale nel corso delle indagini si perfeziona attraverso i seguenti passaggi valutativi: (a) la valutazione della attendibilità “intrinseca” del dichiarante; (b) la valutazione della attendibilità “estrinseca” del dichiarato, ovvero della compatibilità del narrato con i dati di contesto; (c) la complessiva valutazione della “credibilità” dei contenuti accusatori della testimonianza, da effettuare attraverso la valutazione sia della compatibilità degli stessi con gli altri elementi di prova raccolti, sia della loro resistenza agli argomenti antagonisti proposti dalla difesa. Si ricorda inoltre che è ius receptum che le dichiarazioni della persona offesa – comprese quelle ricognitive – per essere ritenute credibili non necessitano di “riscontri esterni” individualizzanti, sebbene, per essere poste a fondamento della decisione, debbano essere sottoposte ad un rigoroso vaglio di attendibilità che si esprime anche con la valutazione della loro compatibilità con gli elementi di contesto (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214 – 01).

b) Cassazione penale, Sez. 2^, 11072/2024, udienza del 7 dicembre 2023

Le censure rivolte alle valutazioni di attendibilità delle testimonianze delle persone offese, espresse dai giudici di merito, sono inammissibili, perché volte a prospettare una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione che esule dai poteri della Corte di cassazione, trattandosi, invece, di valutazione riservata, in via esclusiva, al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. Un., 30/4/1997, n. 6402, riv. 207944), per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento.

…Irrilevanza della violazione del divieto di porre domande suggestive

Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 14912/2024, udienza del 18 gennaio 2024

In materia di esame testimoniale, la violazione del divieto di porre domande suggestive non comporta né l’inutilizzabilità, né la nullità della deposizione, non essendo prevista una tale sanzione dall’art. 499, comma 3, c.p.p., né potendo la stessa essere desunta dalle previsioni contenute nell’art. 178 c.p.p. (ex multis Sez. 3, n. 49993 del 16/09/2019, Rv. 277399). Ne consegue che la violazione del citato divieto, in mancanza di una sanzione processuale, rileva soltanto sul piano della valutazione della genuinità della prova – può essere dunque valutata in questa sede soltanto nell’ottica del vizio di motivazione – che può risultare compromessa esclusivamente se inficia l’intera dichiarazione e non semplicemente la singola risposta fornita, ben potendo il giudizio di piena attendibilità del teste essere fondato sulle risposte alle altre domande (ex multis Sez. 3, n. 42568 del 25/06/2019, Rv. 277988). Inoltre, la giurisprudenza consolidata afferma che il ricorrente che lamenta violazione di legge è tenuto a specificare come la suggestività influenzi il significato probatorio.

…Insindacabilità della valutazione del giudice di merito

Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 4579/2024, udienza del 24 novembre 2023

Non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti.

…Ammissibilità della valutazione frazionata delle dichiarazioni testimoniali

Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 13658/2024, udienza del 13 febbraio 2024

È legittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni (sia confessorie, sia accusatorie sia delle chiamate in correità e, per quanto qui interessa, delle dichiarazioni testimoniali) quando le parti del narrato ritenute veritiere reggano alla verifica giudiziale del riscontro, ove necessaria, e non sussista interferenza fattuale e logica – ossia un rapporto di causalità necessaria o di imprescindibile antecedenza logica – con quelle giudicate inattendibili, tale da minare la credibilità complessiva e la plausibilità dell’intero racconto.

Conclusione

Giunti alla fine di queste breve rassegna, si può solo prendere atto che, in un giudizio così denso di parole e segni come quello penale, la testimonianza, in quanto anch’essa intessuta delle stesse materie prime, continua ad avere una sua indiscutibilità centralità.

C’è poi, indiscutibilmente, un’ulteriore assonanza: la testimonianza e il giudizio condividono la loro profonda connessione con gli esseri umani che li producono e con la loro fallibilità.

E questo è quanto.