L’opposizione come unico destino possibile dei penalisti associati? (di Vincenzo Giglio)

Diritto di Difesa, house organ dell’UCPI, ha pubblicato due giorni addietro “Destinati a navigare controcorrente” (qui il link per la lettura: https://dirittodidifesa.eu/destinati-a-navigare-controcorrente-di-vittorio-manes/), il primo editoriale del suo neodirettore Vittorio Manes, da poco subentrato a Francesco Petrelli, a sua volta successore di Gian Domenico Caiazza alla presidenza dell’UCPI.

Un titolo quantomai efficace al servizio di un’idea e di un programma chiarissimi: nelle condizioni date i penalisti associati italiani non possono che essere all’opposizione.

Manes individua così quelle condizioni: “il mainstream, la “retorica giustizialista”, le opinioni “veloci e frugali” con cui, sempre più, il problema “giustizia” viene affrontato, bagatellizzato e svilito, specie in campo penale […] i valori liberali […] sono, purtroppo, non solo minoritari, ma appaiono persino paradossali, in senso etimologico, giacché si scontrano con una opinione diffusa – con una doxa – sempre più schierata in direzione ostinatamente contraria […] il “garantismo” non risponde ai convincimenti diffusi, né all’orizzonte d’attesa dei consociati: i suoi principi appaiono sempre meno compresi, accettati, e […] spesso risultano controintuitivi o persino antilogici, tanto da non poter essere più considerati […] “premesse liberali” scontate in uno Stato di diritto. Basti pensare alla presunzione di innocenza, ossia ad un elementare principio di civiltà giuridica che è sempre più contestato nel dibattito pubblico, se non autenticamente rovesciato al semplice ricorrere di una iscrizione nel registro degli indagati: un accadimento ormai ubiquitario che dovrebbe considerarsi “atto neutro” […] e che invece grava come una condanna anticipata sull’indagato, specie quando all’apertura delle indagini fa eco […] la grancassa mediatica, dove di fatto l’in dubio pro reo finisce con l’essere sovvertito, a furor di popolo, nell’in dubio pro republica. La stessa idea di proporzionalità della pena appare poco congeniale alla communis opinio, atteso che la vox populi invoca semmai – specie al cospetto di reati odiosi – la simmetria della “legge del taglione” (“occhio per occhio, dente per dente”) ma non certo la proporzionalità o la mitezza del castigo, e tollera poco o nulla la stessa idea che la pena debba tendere a recuperare il reo, come testimonia l’inquietante proposta di revisione costituzionale volta ad emendare l’art. 27/3 Cost. Più in generale, è da tempo messo all’angolo il principio di extrema ratio, della pena in generale e del carcere in particolare: una idea sempre più riottosa a penetrare nel sedime delle convinzioni diffuse, visto che ormai si scontra con una narrazione che elegge la pena a risposta elettiva ad ogni problema o ogni irritazione sociale, trovando costante sostegno e ricezione acritica nell’agenda della politica“.

A questa complessiva e desolante condizione seguono nell’analisi di Manes effetti altrettanto desolanti: “I dati sui tassi di carcerizzazione dimostrano una progressiva e inarrestabile discesa agli inferi, una autentica catàbasi che si è consumata senza significative soluzioni di continuità negli ultimi anni. I numeri parlano chiaro: negli ultimi trent’anni la cifra dei detenuti – nonostante la significativa riduzione del numero di delitti commessi – è sostanzialmente raddoppiata […] Ne emerge un contesto dove ad essere messa in discussione non è solo la seconda parte dell’art. 27/3 Cost., ma – prima e più in alto – la sua prima parte, quel valore cardinale per uno Stato di diritto che è il principio di umanità della pena“.

Non manca infine la parte propositiva: “L’emergenza drammatica che stiamo vivendo, segnalata dall’intollerabile numero di suicidi, testimonia dolorosamente quanto siano a rischio questi valori, quanto esasperata sia la deriva, e conferma l’urgenza di affrontare fattivamente questi problemi […] Dal principio rieducativo, poi, dovrebbe essere ricavata un’autentica “presunzione di rieducabilità” […] valevole per ogni condannato, al di là del titolo di reato e dalla astratta gravità del reato commesso: senza spazi, dunque, per meccanismi ostativi o automatismi presuntivi che inibiscano l’accesso ai benefici penitenziari in ragione di specifiche tipologie delittuose, spesso inserite nel “catalogo terribile” dell’art. 4 bis ord. pen. in ragione di sollecitazioni politiche, mediatiche o elettorali del tutto destituite di ogni razionalità […] A monte, si impone però un analogo ripensamento sui criteri di controllo che dovrebbero – che devono – guidare il legislatore nel controllo sulla misura della sanzione, e nella stessa scelta di incriminazione, per cercare di frenare una overdose punitiva che ormai si manifesta in tutte le direzioni: numero esorbitante di reati (overcriminalization), numero abnorme di procedimenti penali aperti (overprosecution), conseguente eccessività delle pene inflitte, anche in termini di severità (oversentencing), con gli effetti accennati sulla penalità secondaria, ossia sui tassi di carcerizzazione (overcrowding). Qui, ancora, una recente posizione della Corte costituzionale (sentenza n. 46 del 2024) sembra aprire una nuova via, in seno ad una decisione che ha fulminato una delle tante “impennate punitive” della c.d. “legge spazzacorrotti” (l. n. 3 del 2019), esempio paradigmatico del più retrivo “populismo punitivo”, ossia il sensibile aumento della pena per il reato di appropriazione indebita (art. 646 c.p.), improvvisamente elevato, nel minimo edittale, da 15 giorni a due anni di reclusione (con un innalzamento, dunque, di ben “quarantotto volte”): scelta motivata facendo leva sulla asserita, fantomatica natura di “reato spia” che (anche) tale fattispecie avrebbe in relazione ai fenomeni corruttivi ed in generale ai reati contro la pubblica amministrazione. È proprio questa irragionevole “impennata punitiva” – manifestamente sproporzionata anche in comparazione con fattispecie analoghe – che ha condotto la Corte ad alcune affermazioni originali, e dense di ricadute in ordine al controllo sulle scelte di incriminazione, sul bilanciamento con i diritti fondamentali incisi e sulla complessiva razionalità dell’equilibrio che ogni opzione punitiva deve rispettare: ribadita “l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della propria politica criminale”, la Consulta precisa che “[d]iscrezionalità, tuttavia, non equivale ad arbitrio”, ed evidenzia che “[q]ualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore”, con la conseguenza che “i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità”, e rivendicando a sé – soprattutto – “il controllo sul rispetto di tali limiti”, controllo che deve farsi tanto più rigoroso “quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona”, “[…] il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari”.

Da queste innovative argomentazioni discende, appunto, la declaratoria di incostituzionalità della norma impugnata: con una scelta condivisibile nel merito, ma ancor più apprezzabile per il bagaglio metodologico che, oggi, ci consegna […] Un nuovo approccio, in definitiva, che dovrebbe rappresentare un monito ed un freno – munito di immediata “giustiziabilità costituzionale” – contro il dissennato dilagare dell’ipertrofia punitiva, contro la ormai conclamata epifania di un “diritto penale massimo” (N. Mazzacuva) e l’affermarsi di un “diritto penale totale” (F. Sgubbi); e soprattutto contro la conseguente erosione delle sfere di libertà individuali, giunta ormai a livelli intollerabili, ed incompatibili con gli equilibri di un diritto penale liberale, non solo nell’esperienza italiana; con le ricadute sui tassi di carcerizzazione che abbiamo, sinteticamente, evidenziato“.

Manes conclude così: “Questi, dunque, alcuni temi di incandescente attualità, e gli approdi più recenti del dibattito, che ad un tempo rappresenteranno oggetto delle nostre prime riflessioni. Vedremo dove la riflessione saprà condurci: consapevoli, sin d’ora, che ci attende una navigazione in mare aperto e che ci è imposta una rotta controcorrente, ma altrettanto pronti ad affrontare il viaggio, insieme, con gli strumenti della parola e del dialogo, dell’argomentazione e della critica“.

Il nuovo direttore di Diritto di Difesa inizia così il suo mandato con un programma di battaglia, concepito su una sequenza chiarissima: i principi fondamentali, le libertà e le garanzie essenziali dello Stato di diritto non sono più scontati, anzi sono messi sempre più in discussione o addirittura contestati e finanche disprezzati; l’avvocatura penalista ha la sua ragion d’essere nella difesa di quei principi e dunque non può che essere all’opposizione contro chiunque li metta a rischio.

Un programma che merita la più ampia condivisione ma che al tempo stesso genera più di una domanda.

La prima, scontata: è una e una sola l’anima dei penalisti associati o ce ne è più d’una e non tutte corrispondono all’idea di Manes? Tutte le Camere penali italiane e tutti i loro componenti sono pronti a schierarsi permanentemente ed effettivamente all’opposizione oppure ci sono distinguo e perplessità ed ambiguità?

La seconda, connessa alla prima: quanto peserà la robusta dose di consociativismo che, pur con tutte le eccezioni del caso, permea trasversalmente la società italiana? Siamo un Paese in cui i luoghi e le forme del potere si incrociano con molti ambiti: la politica, certo, ma anche l’accademia, le professioni, le associazioni, le commissioni di studio, l’editoria, i mass-media, perfino la convegnistica. Ognuno di questi macro o microcosmi può essere ugualmente occasione di opposizione, nel senso auspicato da Manes, oppure di consociazione.

La terza, connessa alle prime due ma che le precede entrambe: il programma del direttore di Diritto di Difesa postula necessariamente che l’avvocatura, in questo caso l’avvocatura penalista, sia non solo una categoria professionale ma anche una classe sociale portatrice di un interesse pubblico e capace di rappresentarlo e difenderlo e promuoverlo in modo coerente ed unitario; è questo l’avvocatura, è davvero una classe sociale, vuole e sa esserlo? Si potrebbe rispondere che la sua investitura trova un indiscutibile fondamento nell’inviolabilità del diritto di difesa sancita nella nostra Carta fondamentale. Ma basta questo? Oppure occorrono ulteriori segnali concreti e duraturi che inverino quell’investitura?

Ecco, queste sono le domande.

Le risposte le si avrà col tempo, attraverso la verifica sul campo della tenuta del manifesto delineato di Manes, al quale, comunque sia e sarà, va riconosciuto il merito di averci provato.