Avvocato e favoreggiamento: il diritto di difesa e l’attività e le informazioni lecite tra difensore e indagato (di Riccardo Radi)

Il tema del confine tra lecito e illecito in materia di rapporti tra difensore e assistito è particolarmente interessante per chi svolge la professione.

Notiamo una netta divaricazione tra la giurisprudenza di merito e quella di legittimità ed è proprio di questo che parleremo in questo breve contributo.

La prima sentenza che esamineremo è della cassazione sezione 6 numero 48586/2019 che ha esaminato la questione della ravvisabilità del reato di favoreggiamento personale nei rapporti tra difensore e assistito (quale è quello che nel caso in esame intercorre tra gli indagati e la pretesa favorita), ritenendo che in tanto è configurabile il reato di cui all’art. 378 cod. pen. in quanto il difensore abbia travalicato la funzione affidatagli, di talché l’aiuto del difensore risulta strumentale non già alla corretta, scrupolosa e lecita difesa, ma alla elusione o deviazione delle investigazioni e, quindi, al turbamento della funzione giudiziaria rilevante ai sensi della citata norma penale (tra tante, Sez. 6, n. 7913 del 29/03/2000, Rv. 217188).

In concreto, nel caso in questione secondo l’ipotesi accusatoria, i predetti legali avrebbero aiutato la loro assistita N.N., indagata per il reato di corruzione, occultando presso il loro studio professionale dei files audio e video comprovanti la corruzione di A.A. da parte di M.S. con la mediazione della N.N., nonché adoperandosi nell’asportare dallo Studio … materiale utile alle indagini, così da sottrarlo alle perquisizioni degli inquirenti

La cassazione ha ricordato la linea di demarcazione tra regolare e puntuale espletamento dell’attività difensiva, superamento dei limiti legali sotto il profilo della correttezza deontologica e, infine, illecito penalmente rilevante non può essere fissata in modo rigido, sulla base di parametri assoluti, ma deve essere individuata caso per caso.

Anche se, alla luce delle incisive trasformazioni che ha subito nel corso degli anni l’esercizio dell’attività forense, gli interessi della difesa, spesso di indole particolarissima, possono non coincidere con quelli collegati ad una esatta e puntuale applicazione della legge, con riferimento alla responsabilità dell’imputato e alle previste conseguenze, si è comunque escluso che il patrocinante, per assolvere il suo compito, possa porre in essere condotte costituenti reato per la generalità dei soggetti.

Nella scelta dei metodi e degli strumenti cui il difensore ritiene di fare ricorso per la tutela degli interessi del proprio assistito, esiste quindi un limite oggettivo che non è consentito valicare impunemente e che è costituito dall’osservanza di quegli obblighi e di quei divieti, la cui violazione integra altrettanti illeciti penali.

Restringendo il campo di osservazione alla ipotesi contemplata dall’art. 378 cod. pen., la stessa pronuncia ora richiamata ha evidenziato che è soprattutto sul piano “soggettivo” che deve essere apprezzata la condotta del difensore, che ha il diritto-dovere, costituzionalmente garantito, di difendere gli interessi della parte assistita nel migliore modo possibile nei limiti del mandato e nell’osservanza della legge e dei principi deontologici e cioè di adoperarsi con ogni mezzo lecito a sottrarre il proprio assistito, colpevole o innocente che sia, alle conseguenze negative del procedimento a suo carico.

L’aiuto ad eludere le investigazioni o a sottrarsi alle ricerche dell’autorità va pertanto apprezzato, specie con riferimento alla particolare posizione del difensore, non in maniera freddamente “oggettiva” e nella sua formale ed astratta corrispondenza al modello legale di reato, ma come concreta ed effettiva espressione di una “solidarietà anomala” con la persona difesa, il che chiaramente esorbita dal compito istituzionale dell’avvocato.

Quindi per stabilire se la condotta realizzata in connessione all’esercizio del diritto di difesa venga ad integrare la previsione criminosa di cui all’art. 378 cod. pen. occorre anche far riferimento al contenuto della intenzionalità che muove il soggetto agente, ovvero la prospettiva che ha ispirato lo stesso difensore (in tal senso, cfr. anche Sez. 6, n. 24035 del 24/05/2011).

Pertanto, correttamente il Tribunale ha ritenuto rilevante per la particolare posizione degli indagati verificare la finalità della attività, agli stessi provvisoriamente addebitata.

Il Tribunale ha infatti stabilito che la mera ricezione di documenti, in mancanza di altri elementi indizianti, risultava finalizzata al fisiologico esercizio del diritto di difesa, indipendentemente dall’oggetto (rilevante o meno per le investigazioni), a differenza dell’altra condotta addebitata ai due legali, connotata da un’attività di vera e propria “sottrazione” di prove, con relativo occultamento presso il loro studio legale, che andava ben al di là delle loro legittime attività difensive.

Nel secondo caso che esamineremo, la Cassazione è stata chiamata a decidere se un avvocato incorre nel reato di favoreggiamento qualora informi il proprio assistito del rischio di applicazione di una misura cautelare nei suoi confronti e gli suggerisca di mentire all’autorità giudiziaria.

Il fatto

La Corte di appello confermava la sentenza di condanna emessa dal Tribunale con la quale è stato riconosciuto l’imputato responsabile del reato di favoreggiamento aggravato per aver aiutato ad eludere le investigazioni dell’Autorità giudiziaria fornendo informazioni sulle indagini, suggerendo di fornire false dichiarazioni alla stessa.

Norma in contestazione:

L’articolo 378 codice penale prevede:

1. Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce la pena di morte o l’ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell’autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti, è punito con la reclusione fino a quattro anni (1).

2. Quando il delitto commesso è quello previsto dall’art. 416-bis, si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non inferiore a due anni (2).

3. Se si tratta di delitti per i quali la legge stabilisce una pena diversa, ovvero di contravvenzioni, la pena è della multa fino a euro 516 (3).

4. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando la persona aiutata non è imputabile o risulta che non ha commesso il delitto.

(1) Comma così modificato dall’art. 10, comma 9, L. 237/2010.

(2) Comma aggiunto dall’art. 2, L. 646/1982.

(3) Multa così aumentata dall’art. 113 L. 689/1981.

Sentenza della Cassazione sezione VI, n. 37512 del 2021

L’imputato proponeva ricorso e con il terzo motivo deduceva l’inosservanza o erronea applicazione dell’art. 378 c.p., trattandosi di condotte del tutto compatibili con quelle del difensore, non involgendo la comunicazione a contenuto non informativo alcun profilo di rilevanza penale, avendo invece la Corte erroneamente dato rilievo alla istigazione al compimento di un fatto lecito, quale è quello del diritto a mentire dell’indagato.

La Suprema Corte accoglie il ricorso deducendo che le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata non possono essere condivise tenendo conto dei principi di diritto costantemente affermati da questa Corte in materia di favoreggiamento, non avendo il Giudice di merito neanche fatto buon governo dei pur enunciati principi di diritto sul profilo oggettivo e soggettivo del reato de quo.

In particolare, è stato affermato che non integra il delitto di favoreggiamento personale la condotta del difensore che, avendo ritualmente preso visione di atti processuali dai quali emergano gravi indizi di colpevolezza a carico del proprio assistito, lo informi della possibilità che nei suoi confronti possa essere applicata una misura cautelare (nella specie effettivamente disposta e non eseguita per la latitanza dell’indagato), atteso che la legittima acquisizione di notizie che possono interessare la posizione processuale dell’assistito ne rende legittima la rivelazione a quest’ultimo in virtù del rapporto di fiducia che intercorre tra professionista e cliente e che attiene al fisiologico esercizio del diritto di difesa.

Qualora, invece, l’acquisizione di notizie avvenga in maniera illegale – come nel caso di concorso nel delitto di rivelazione o di utilizzazione di segreti d’ufficio o nella fraudolenta presa visione o estrazione di copie di atti che devono rimanere segreti – si verifica una sorta di “solidarietà anomala” con l’imputato in virtù della quale l’aiuto del difensore è strumentale non già alla corretta, scrupolosa e lecita difesa ma alla elusione o deviazione delle investigazioni e, quindi, al turbamento della funzione giudiziaria rilevante ai sensi dell’art. 378 cod. pen. (Sez. 6, n. 7913 del 29/03/2000, Rv. 217188).

In tema si ricorda che non integra il delitto di favoreggiamento personale la condotta del difensore che, avendo fortuitamente acquisito la notizia dell’emissione nei confronti del proprio assistito di una misura cautelare, lo informi, consentendo così la sua latitanza, atteso che non esorbita dalla funzione del difensore partecipare al proprio assistito quanto possa aiutarlo a mantenere la propria libertà personale (Sez. 6, n. 20813 del 18/05/2010, Rv. 247349).

Nello specifico nella sentenza richiamata la Cassazione ha escluso il reato valorizzando le circostanze “fortuite” dell’acquisizione della notizia poi rivelata all’assistito: così escludendo il reato di favoreggiamento in una vicenda in cui il difensore aveva casualmente captato l’informazione, intravedendola sullo schermo di un computer della procura, che un addetto stava adoperando per compilare un certificato da lui richiesto.

Non si era trattato quindi di una informazione, pur indubbiamente segreta, che era stata “fraudolentemente carpita dal difensore”, vertendosi nell’ipotesi di un’acquisizione della notizia dovuta a un caso fortuito, causata forse dall’infelice posizionamento dello schermo o all’errore di interrogazione del cervello elettronico da parte dell’impiegato.

In una simile ipotesi (in quella cioè di un’acquisizione fortuita di un’informazione, analoga all’ipotesi del ritrovamento di un documento smarrito per distrazione) non esorbitava certamente dalla funzione dell’avvocato partecipare all’assistito quanto possa aiutarlo a mantenere la propria libertà personale, essendo anche questo e soprattutto questo, il fine proprio della difesa.

Infine, l’imputato è libero di mentire a fine difensivo e il giudice non è tenuto a prestare fede incondizionata alle sue dichiarazioni ma ad indagare, indipendentemente da esse, per accertare la verità. Pertanto, non integra gli estremi del reato di favoreggiamento personale il suggerimento dato all’imputato di rendere dichiarazioni mendaci al magistrato, mancando la idoneità a fuorviare l’attività giudiziaria (Sez. 1, n. 1040 del 11/11/1971 (dep. 1972), Rv. 120241).

Di conseguenza esula dalla condotta di favoreggiamento l’attività di consulenza fornita dal ricorrente agli indagati sulla base della conoscenza lecita degli atti redatti a loro carico e, specificamente, il suggerimento dato agli stessi in ordine alle dichiarazioni da fare alla A.G. rientrando nella facoltà degli stessi indagati quella di mentire.

Diritto di difesa e informazioni dal difensore all’accusato

La sentenza in commento affronta il difficile capitolo delle informazioni che il difensore può passare al proprio assistito finalizzate a frustrare le iniziative investigative del PM e, in generale, ogni altra iniziativa giudiziaria in danno dell’assistito.

Ebbene, la decisione della Suprema Corte riconosce (sul solco di quelle che l’hanno preceduta di cui appreso si dirà) al difensore il diritto-dovere di informare il proprio cliente di ogni potenziale risoluzione dannosa dei magistrati inquirenti e giudicanti purché l’informazione sia stata legittimamente acquisita.

Se l’informazione è stata appresa dal difensore legittimamente (eventualmente anche fortuitamente), il professionista (già nominato dall’accusato, evidentemente) può informare il proprio assistito assicurandone (come è suo preciso compito) la migliore difesa.

Al contrario, se l’avvocato è venuto a conoscenza della notizia in maniera non legittima – ovvero non nell’esercizio di quelle funzioni riconosciutegli dall’ordinamento per la migliore amministrazione della giustizia e la tutela dei diritti fondamentali del cittadino – il professionista che passerà l’informazione al proprio cliente compirà atti astrattamente riportabili nello schema del favoreggiamento.

Vediamo il testo della Sentenza n. 35327 emessa dalla VI^ Sezione della Corte di Cassazione 18 luglio – 22 agosto 2013: “…Non integra il delitto di favoreggiamento personale la condotta del difensore che, avendo “fortuitamente” acquisito la notizia dell’emissione nei confronti del proprio assistito di una misura cautelare, lo informi, consentendo così la sua latitanza, atteso che non esorbita dalla funzione del difensore partecipare al proprio assistito quanto possa aiutarlo a mantenere la propria libertà personale (nella specie, la Corte ha peraltro ritenuto corretta l’affermazione di responsabilità dell’imputato, sul rilievo che era risultato, in fatto, che questi non aveva affatto, avuta fortuita conoscenza dell’ordinanza, ma l’aveva avuta per il tramite di un operatore della polizia – separatamente giudicato – coinvolto nelle attività prodromiche all’esecuzione dell’ordinanza stessa, in ragione del legame di amicizia e di favori reciproci che intercorrevano tra quest’ultimo e il legale: così dovendosi escludere che l’informazione all’assistito fosse da ricondurre al legittimo esercizio del mandato del difensore)….”

Si tratta di una importante decisione che affronta la questione del rapporto tra difensore e assistito ai fini della possibile configurabilità del reato di favoreggiamento personale.

In proposito, è principio condiviso – recepito anche qui dalla Cassazione – quello secondo cui il reato di cui all’art. 378 del c.p., in tanto è configurabile in quanto il difensore abbia travalicato la funzione affidatagli, avendo acquisito o attraverso la consumazione di veri e propri reati (rivelazione di segreto di ufficio e quant’altro di simile) o fraudolentemente notizie la cui comunicazione al cliente sia idonea a intralciare le indagini.

Concludiamo la breve rassegna con una sentenza datata, cassazione sezione 6 numero 6989/1986 che nonostante il tempo trascorso già enunciava il principio del diritto di difesa e dell’effettiva attuazione dello stesso.

La cassazione premette che il diritto di difesa – anche in relazione al profilo specifico concernente il suo esercizio da parte del patrocinante – è tra quelli al quale l’ordinamento giuridico riconosce il più alto ambito di espansione onde consentire la effettiva attuazione del principio affermato nell’art. 24 comma secondo della Costituzione: come ogni diritto, però, esso trova un limite nel rispetto delle altre esigenze primarie, tra le quali v’è quella dello stato ad una corretta amministrazione della giustizia, sicché nella scelta dei metodi e degli strumenti cui il difensore ritiene di fare ricorso per la tutela degli interessi dell’imputato, esiste un limite oggettivo – costituito dall’inosservanza di quegli obblighi e di quei divieti espressamente indicati come illeciti penali – oltre il quale anche il comportamento del professionista non sfugge alla sanzione, eccettuati i casi espressamente previsti dalla legge.

Pertanto, risponde di favoreggiamento personale il difensore che, attivandosi per mettere in contatto tra loro persone titolari di interessi contrapposti all’imputato, si adoperi in tempi successivi per alterare i risultati delle indagini già svolte, esercitando in tal senso una seria azione di pressione psicologica sulla persona offesa.

La cassazione ha ritenuto che costituisse favoreggiamento personale il comportamento di un avvocato – pretore onorario nella stessa sede – che dopo un infortunio sul lavoro seguito da decesso, si era adoperato per mettere in contatto, nel proprio studio, il denunciante e la vedova del deceduto al fine di indurre il primo ad alleggerire le dichiarazioni già rese, e a non assumere altre iniziative, esercitando anche pressioni psicologiche in relazione sia alla posizione che avrebbero tenuto i Sindacati, sia quanto alla personale possibilità di intervenire concretamente sullo ulteriore sviluppo delle indagini.