Una provocazione o una boutade di un acerrimo mangiamagistrati? Nulla di tutto questo.
Questa frase è stata pronunciata da Bernardo Petralia quando era direttore delle carceri italiane l’1° gennaio 2022 a “Repubblica” Il direttore delle carceri Petralia: “A ogni magistrato farebbe bene una settimana in carcere” – la Repubblica , da lì a pochi giorni venne sostituito nell’incarico che mantenne fino al 28 febbraio 2022
Ricordiamo anche Pasquale Saraceno che chiese espressamente di poter entrare in carcere in anonimato per alcuni mesi per poter svolgere pienamente le sue funzioni di giudice.
Chi era costui? Lo scoprirete nel prosieguo.
Peccato che dalle parole non si passi mai ai fatti concreti e nessuno si preoccupi di concretizzare l’entrata in carcere dei magistrati almeno per qualche giorno.
Certo che, se per un annacquato test psicoattitudinale c’è stata una levata di scudi, si può solo immaginare cosa accadrebbe, se per legge si stabilisca che ogni magistrato prima di esercitare la giurisdizione conosca direttamente il carcere.
Oggi il Presidente dell’ANM Giuseppe Santalucia farà una visita a Regina Coeli per poi partecipare ad un convegno, l’ennesimo, sulle condizioni delle nostre carceri.
Sarebbe interessante sapere cosa pensa Santalucia della proposta di far conoscere ai magistrati direttamente vivendola la condizione delle nostre carceri.
Magari qualcuno dei partecipanti al Convegno potrebbe chiederlo.
Si potrebbe iniziare in maniera soft, per almeno un giorno come è avvenuto in Belgio nel 2022.
La notizia è stata data dal quotidiano Le Figaro il 17 settembre 2022 ecco il link: Belgio: 55 magistrati in carcere per vivere la vita dei detenuti (lefigaro.fr) .
Le Figaro riprendeva il comunicato di Vincent Van Quickenborne, ministro della Giustizia del Governo belga: 55 magistrati belgi volontari (sia PM che giudici) hanno accettato di rimanere rinchiusi nella nuova prigione di Haren, un penitenziario che a regime sarà in grado di ospitare quasi 1.200 detenuti.
La loro permanenza in istituto era prevista dalle 9 di sabato fino alle 16 di domenica.
Il trattamento loro riservato era identico a quello dei detenuti, ivi compreso l’obbligo di uniformarsi alle istruzioni impartite dal personale penitenziario.
Gli era vietato usare il cellulare ma gli era consentito ricevere la visita dei familiari.
I magistrati seguivano il normale orario giornaliero previsto per i detenuti, consumavano gli stessi pasti e svolgono le stesse attività obbligatorie. Erano, tra l’altro, impiegati in cucina e in lavanderia. Alle 22 le luci dell’istituto si spegnevano.
Certo, i magistrati belgi non erano stipati in celle affollate, non gli mancava l’acqua calda per fare la doccia, non soddisfacevano i loro bisogni corporali in bagni alla turca esposti alla vista delle guardie o appena celati da un separé di fortuna, non facevano lunghe trafile per avere il permesso di vedere i loro familiari, non correvano il rischio di contrarre di malattie contagiose e, se avevano problemi di salute, il medico c’era subito, non temevano di essere picchiati e torturati.
Senza poi dimenticare il più formidabile dei benefit: potevano lasciare il carcere a semplice domanda, gli bastava dire che non sopportano più la clausura.
Più che giusto, ci mancherebbe altro.
Bisogna aver visto e i magistrati belgi hanno cominciato a dare un’occhiata.
Ci pare un segnale importante.
In Italia i ricordi di magistrati che vogliono entrare in carcere, non a parole e per una visitina di un paio di ore, ma concretamente per capire le reali condizioni dei nostri istituti di pena si perdono nel lontano 1948 e hanno un nome e cognome: Pasquale Saraceno.
Quasi nessuno ha sentito parlare di lui.
Un peccato e un ennesimo segno della pessima memoria del nostro Paese: perché Saraceno era il magistrato che Piero Calamandrei elevò a simbolo nel suo celeberrimo scritto “Bisogna vedere, bisogna starci, per rendersene conto” a proposito delle condizioni delle nostre carceri.
Saraceno, consigliere di Corte d’appello e amico personale di Calamandrei, venne ucciso il 12 agosto 1944 da un cecchino fascista nelle ore della liberazione di Firenze.
Quel giorno il giudice teneva per mano un bambino, suo figlio Pietro, che dovette assistere alla morte del padre il cui ultimo gesto fu di fargli da scudo col proprio corpo per proteggerlo da altri spari.
Quel bambino, Pietro Saraceno, divenuto a sua volta magistrato, fu uno dei più intelligenti e innovatori cultori della storia della magistratura italiana. Morì nel 1998.
Ma torniamo al padre.
Pasquale Saraceno aveva chiesto espressamente di poter entrare in carcere in anonimato per alcuni mesi per poter svolgere pienamente le sue funzioni di giudice.
Il suo scrupolo e la sua sensibilità vennero ricordati da Calamandrei con queste parole:
“Bisogna vedere, bisogna starci, per rendersene conto. Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione sulla porta della Corte d’appello, il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo egli si rendeva conto che avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi, e avrebbe potuto poi, dopo quella esperienza, adempiere con coscienza a quella sua funzione di giudice di sorveglianza, che potrebbe essere pienamente efficace solo se fosse fatta da chi avesse prima esperimentato quella realtà sulla quale doveva sorvegliare. Vedere! Questo è il punto essenziale”.
Chi volesse leggere il testo integrale dell’intervento del giurista fiorentino può trovarlo a questa fonte: Atti Parlamentari Camera dei deputati, Leg. I, Discussioni, Seduta pomeridiana del 27 ottobre 1948, intervento di Piero Calamandrei sullo stato di previsione della spesa del Ministero di grazia e giustizia, esercizio finanziario 1948-49, pp. 4174-4175.
Che retaggio ci ha lasciato Pasquale Saraceno, perché gli siamo tutti debitori?
Fu certamente un esempio, raro allora come oggi, di eroe civile, di uomo capace di ribellarsi alla brutalità dell’esistente per coerenza nei valori in cui credeva.
Ma fu molto di più: servì lo Stato democratico che ancora non c’era, incarnò la Costituzione che era di là da venire, testimoniò la pietas laica di chi, da giudice, poneva l’essere umano al centro della sua attività professionale.
Pasquale Saraceno guardava i detenuti e vedeva persone e, già solo per questo, fu in anticipo sul suo tempo e probabilmente anche sul nostro.

Di Saraceno conoscevo soltanto “La decisione sul fatto incerto nel processo penale”, opera geniale e sorprendente che ora so figlia di un uomo di pari spessore
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