Testimonianza: criteri per la verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni (di Riccardo Radi)

La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 10600/2024 ci permette di soffermarci sulla valutazione della prova testimoniale e i criteri da adottare da parte del giudicante per verificarne l’attendibilità.

La Suprema Corte ha indicato che in tema di valutazione della prova testimoniale, non sono necessari riscontri esterni, dovendo il giudice limitarsi a verificare l’intrinseca attendibilità delle dichiarazioni, avuto riguardo alla loro logicità, coerenza e analiticità, nonché all’assenza di contraddizioni rispetto ad altre deposizioni o ad altri elementi concretamente accertati con caratteri di certezza – sulla base della presunzione che, fino a prova contraria, il teste, ove sia in posizione di terzietà rispetto alle parti, riferisce di solito fatti obiettivamente veri (principio di affidabilità) e mente solo in presenza di un sufficiente interesse a farlo (principio di normalità), specialmente nel caso in cui dalla veridicità del dichiarato possano scaturire conseguenze pregiudizievoli per sé o per altri (principio di responsabilità).

La Cassazione premette che in tema di valutazione della prova testimoniale, sia il legislatore del 1930, sia il legislatore repubblicano hanno dedicato scarsissima attenzione alla definizione del valore processuale delle singole fonti di prova, rifiutando il sistema della prova legale a favore di un sistema fondato sul c.d. libero convincimento del giudice, principio che ha trovato esplicita formulazione negli artt. 192, comma 1, 189 e 193 cod. proc. pen.

Ogniqualvolta il legislatore ha posto dei limiti al principio del libero convincimento del giudice, ciò ha fatto non tanto imponendogli un risultato conoscitivo quanto, piuttosto, proibendogliene uno, considerato potenzialmente errato.

Si può quindi affermare che il legislatore in talune ipotesi ha autorizzato il giudice a ritenere provato un determinato fatto solo perché rappresentatogli da un unico mezzo di prova, e purché non sussistano ragioni che consiglino di svalutarne il valore.

Tale è appunto l’ipotesi della testimonianza che, come si afferma, “fa prova sino a prova contraria“.

Il fondamento di tale asserto è rinvenibile non solo nella riconosciuta generale capacità a testimoniare, ma soprattutto in un complesso di regole di esperienze ritenute astrattamente valide ed affidabili.

La prima di tali regole è quella della normale terzietà del teste; la seconda è invece, desumibile dal riconoscimento anche alla persona offesa della possibilità di testimoniare dato che, evidentemente, essa non viene considerata come portatrice di un interesse di per sé inquinante.

Ciò è possibile in forza di un ulteriore presunzione, e cioè che, di solito, chi comunica a terzi un fatto, dice la verità (principio di affidabilità, sul quale si fonda la normale vita di relazione) e che mente solo se a tanto abbia sufficiente interesse (principio di normalità), e ciò specialmente se dalla veridicità del dichiarato possano scaturire conseguenze pregiudizievoli per sé o per altri (principio di responsabilità).

Tali considerazioni spiegano allora perché la presunzione di attendibilità della testimonianza sia solamente generica e “Juris tantum”, in quanto suscettibile di prova contraria, sottoposta al prudente apprezzamento del giudice all’esito della verifica che questi avrà effettuato della stessa.

Verifica che, non necessitando di elementi di riscontro esterni, potrà essere limitata all’esame dell’attendibilità intrinseca della deposizione.

Necessario e sufficiente sarà perciò che, in omaggio ai su riferiti principi di affidabilità, normalità e responsabilità, la deposizione sia resa da persona realmente terza rispetto alle parti, della quale non possa affermarsi alcun apprezzabile interesse a mentire e che sia stata resa edotta delle responsabilità conseguenti all’ipotesi di un eventuale mendacio. In omaggio ai criteri c.d. della linearità e della completezza, ciò che deve essere verificato è che la deposizione sia internamente logica e coerente, priva di contraddizioni e che non sia in inspiegabile contrasto con altre deposizioni testimoniali parimenti attendibili o con elementi “aliunde” accertati con i caratteri della certezza.

La testimonianza deve essere, inoltre, dotata di adeguata capacità dimostrativa del fatto da provare e questa sarà tanto maggiore quanto meglio il teste sia stato in grado di rappresentare il fatto e quanto più l’oggetto della deposizione sia “significativo” di ciò che con la testimonianza si intende provare. Infine, giova sicuramente all’attendibilità della testimonianza la circostanza che il fatto sia analiticamente esposto, attesa la regola di esperienza che insegna che la menzogna è genericamente lacunosa ed incompleta, per l’impossibilità di attribuire ad un fatto inventato la ricchezza di particolari che sono propri, invece, degli accadimenti reali.

Se così è, allora appare altresì chiaro che la garanzia della legittimità della verifica appena descritta è costituita dal contraddittorio delle parti nell’assunzione della prova: quanto più è pieno il contraddittorio, tanto più completa ed affidabile potrà ritenersi la suddetta verifica.