L’errore giudiziario e i suoi tanti possibili padri (di Vincenzo Giglio)

Io sono persuaso non solo che l’errore giudiziario sia frequente anzi che raro; ma perfino che una dose di errore si trovi in ogni giudizio umano”: così pensava e scriveva Francesco Carnelutti (Il problema carcerario, in Jus, 1956, 1).

Un’opinione disturbante se si considera che il “giusto processo” e il metodo dialettico che ne costituisce la caratteristica identitaria più forte sono quanto di meglio abbiamo saputo trovare per cercare la verità necessaria alla risoluzione di conflitti privati o pubblici.

Certo è che il nostro ordinamento penale mostra una notevole ritrosia riguardo agli errori giudiziari: sì, li menziona esplicitamente e per ciò stesso ne riconosce l’esistenza (artt. 24, comma 3, Cost e 643 cod. proc. pen.) ma rimane quantomai vago quando deve spiegare cosa siano e come si manifestino.

L’ambito dell’errore è infatti delimitato in modo assai angusto dall’art. 630 cod. proc. pen. e dal ristretto elenco delle condizioni ivi indicate che consentono l’istanza di revisione.

È interessante notare che nessuna delle cause di revisione è concepita in modo da poterne desumere un errore nel senso comunemente inteso.

Si contemplano infatti: una contraddizione esterna al giudizio (inconciliabilità dei fatti posti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna con i fatti stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile); una conseguenza prodotta dal venir meno successivo di un presupposto esterno (reato ritenuto sussistente in virtù di una sentenza civile o amministrativa successivamente revocata); la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove idonee, da sole o in aggiunta a quelle preesistenti, a giustificare il proscioglimento del condannato; l’esistenza di reati che abbiano avuto un’efficacia causale rispetto alla sentenza di condanna.

Nessuna di queste condizioni riporta dunque ad un errore interno al processo ed imputabile, direttamente o indirettamente, a chi ha la responsabilità del giudizio in primo luogo e agli altri comprimari che, nella logica del giusto processo, concorrono in modo corale alla produzione del suo effetto da intendersi nella giusta sentenza che affermi la più corretta e plausibile verità processuale.

Certo, si potrebbe sostenere che questa regolamentazione è giustificata da due fattori: il procedimento penale e la sua scansione in fasi e gradi sono concepiti in modo da agevolare l’emersione e la correzione degli errori giudiziari nel senso inteso da Carnelutti; l’esigenza di certezza e di stabilità delle decisioni giudiziarie impone che ci sia un limite alla possibilità di contestarle ed esige per ciò stesso che gli errori in fatto e in diritto non rilevati nelle sedi appropriate siano per così dire messi a tacere in nome di quell’esigenza.

Tutto vero ma resta comunque sul tavolo un elenco di casi di revisione che appare decisamente impari rispetto alle aberrazioni constatabili con cadenza non certo rara.

Una disparità, questa, destinata a diventare sempre più stridente.

L’elenco di cui si parla, mai mutato dal varo del codice di rito, fu concepito per una società più semplice di quella odierna, in un tempo in cui la complessità dei casi devoluti all’autorità giudiziaria era di gran lunga inferiore a quella contemporanea e ai giudici non era ordinariamente richiesto di pronunciarsi, tanto per fare qualche esempio, su disastri ambientali di vaste dimensioni, su colpe riconducibili ai gestori di imprese multinazionali, su mafie planetarie, su responsabilità professionali, su movimenti migratori di massa e così via.

I giudizi penali contemporanei hanno sempre più spesso ad oggetto temi probatori sofisticati che richiedono confidenza con saperi avanzati e capacità di apprezzarne il senso.

L’equilibrio interno ai processi è mutato e l’accusa pubblica ha da decenni conquistato una centralità e un’influenza che spingono ai margini la difesa e la costringono ad agire solo di rimessa.

Le investigazioni preliminari sono spesso determinanti per il futuro esito del giudizio e si avvalgono ormai fisiologicamente di strumenti tecnologici avanzati. Assume pertanto un ruolo decisivo la professionalità degli investigatori sul campo e la loro capacità di muoversi entro e non oltre i limiti normativi.

Accanto a questi aspetti, propri della modernità, continuano a manifestarsi le insidie valide in ogni tempo: i pregiudizi, l’incompetenza, i bias cognitivi, i vizi della memoria, l’elevata fallacia delle prove dichiarative, la riluttanza umana ad abbandonare le convinzioni di partenza, le aspettative popolari rafforzate e talvolta drogate dai gestori dell’informazione.

Ognuno di questi fattori, in conclusione, può condurre all’errore giudiziario.

È necessaria una riflessione capillare e, ove occorra, una controinformazione.

Terzultima Fermata proverà a fare la sua parte.