Inammissibilità del ricorso: le “linee guida” della Corte di cassazione (di Riccardo Radi)

Quando un ricorso è inidoneo a instaurare il rapporto processuale innanzi alla corte di cassazione? Per gli avvocati è una domanda da un milione di dollari.

Vediamo se la cassazione sezione 2 con la sentenza numero 3088 depositata il 24 gennaio 2024 risponde in maniera chiara al quesito.

La Suprema Corte premette che nel caso esaminato deve escludersi che si sia in presenza di un ricorso radicalmente inammissibile, come tale inidoneo a instaurare il rapporto processuale innanzi alla Corte di cassazione, con conseguente definitività della sentenza impugnata alla data della sua adozione (cfr., Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D. Rv. 217266 – 01).

Si è evidenziato che, anche sotto questo non certo irrilevante profilo, la qualificazione del ricorso come inammissibile perché, ad esempio, “manifestamente” infondato, finisce con l’assumere una decisiva rilevanza e, per questa ragione, la giurisprudenza della cassazione ha fornito delle linee direttive per chiarire quando si possa ritenere essersi in presenza di una infondatezza “manifesta” e, perciò, di un ricorso inidoneo a fondare un valido rapporto processuale in sede di impugnazione (cfr., in tal senso, Sez. 2, 19.12.2017 n. 9486).

Si è chiarito, infatti, che il ricorso deve ritenersi inammissibile quando sia attinto da una diagnosi di manifesta infondatezza che, nel vigore del codice di rito previgente, si era ritenuta sussistente – ex art. 524, u.c., “… non solo quando sia palesemente erroneo in diritto, ma anche quando affermi, sul fatto, sullo svolgimento del processo, sulla sentenza impugnata, censure o critiche sostanzialmente vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali.

Tale è il caso, in particolare, del motivo di ricorso che attribuisca alla motivazione della decisione impugnata un contenuto letterale, logico e critico radicalmente diverso dal contenuto reale” (cfr., in tal senso, Sez. 2, n. 1828 del 21/03/1973, dep. 1974, Rv. 126313).

Quando, inoltre, “… il motivo di ricorso per cassazione con cui si propone ancora una volta una questione già costantemente decisa dal Supremo collegio in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente ...” (Sez. 2, n. 10871 del 04/07/1975, Rv. 131225 e, in particolare, sotto il vigore del codice previgente, Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L. che, in motivazione, chiarirono che l’attributo “manifesta” evoca “… la significazione di palese inconsistenza delle censure” e che la manifesta infondatezza“… si traduce nella proposizione di censure caratterizzate da evidenti errori di diritto nell’interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso, il più delle volte contrastata da una giurisprudenza costante e senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l’opposta tesi, ovvero invocando una norma inesistente nell’ordinamento, solo per indicare le più frequenti ipotesi di applicazione dell’art. 606, comma 3, secondo periodo.

Fino a profilare – sul piano funzionale – come costante la pretestuosità del gravame, non importa se conosciuta o no dallo stesso ricorrente”.

La giurisprudenza ha affermato che il giudice di legittimità, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso, non è chiamato ad una delibazione del tutto discrezionale quanto alla infondatezza (mera o manifesta) dei motivi, ma è tenuto ad operare una valutazione che tenga conto dei motivi che deducano inosservanza od erronea applicazione di leggi e la circostanza che essi risultino, o meno, caratterizzati da evidenti errori di diritto nell’interpretazione della norma posta a sostegno del ricorso; il che, come pure si è detto, accade, ad esempio, nei casi in cui: – si invochi una norma inesistente nell’ordinamento – si pretenda di disconoscere l’esistenza o il senso assolutamente univoco di una determinata disposizione di legge; – si riproponga una questione già costantemente decisa dalla giurisprudenza di legittimità in senso opposto a quello sostenuto dal ricorrente, senza addurre motivi nuovi o diversi per sostenere l’opposta tesi; per altro verso, qualora, con riferimento ai motivi che deducano vizi di motivazione valorizzando la circostanza che essi muovano, o meno, sul fatto, sullo svolgimento del processo o sulla sentenza impugnata, censure o critiche sostanzialmente vuote di significato in quanto manifestamente contrastate dagli atti processuali il che accade, ad esempio, nel caso in cui il motivo di ricorso attribuisca alla motivazione della  decisione impugnata un contenuto letterale, logico e critico radicalmente diverso da quello reale.

Tanto premesso, va rilevato, infatti, che il presente ricorso non può ritenersi inammissibile con riguardo al dedotto vizio di motivazione concernente il diniego del riconoscimento della ipotesi attenuata già contemplata dal capoverso dell’art. 648 cod. pen.: la Corte d’appello, infatti, ha escluso l’invocata attenuante facendo riferimento al valore complessivo del carico sottratto alla ditta proprietaria ed allo spedizioniere e di cui, dalla stessa ricostruzione in fatto restituita dalle due sentenze di merito, soltanto una minima parte era stata rinvenuta presso il vivaio dell’odierno ricorrente.

Ne consegue che la doglianza difensiva non può di certo ritenersi “manifestamente” infondata. Tanto basta per ritenere che, con la proposizione del ricorso, si sia instaurato il rapporto processuale e, correlativamente, il termine di prescrizione abbia continuato a correre sino ad essere, a tutt’oggi, spirato, pur tenendo conto dei 34 di sospensione legati a differimenti dovuti ad impedimenti dell’imputato o del suo difensore.

Va anche opportunamente ribadito che l’impugnazione della sentenza esclusivamente sul punto riguardante il riconoscimento di una circostanza attenuante e il trattamento sanzionatorio, non impedendo che il relativo capo concernente la definizione del reato acquisti autorità di cosa giudicata, non esime il giudice del gravame dal compito di rilevare eventuali cause di estinzione del reato (cfr., Sez. 2, n. 50642 del 16/10/2014, Rv. 261716 – 01; conf., per il caso di impugnazione relativamente alla pena, anche Sez. 1, n. 45994 del 17/11/2011, Rv. 251405 01; Sez. 3, n. 6983 del 18/12/2007, Rv. 239274 – 01; cfr., in generale, Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Toscani, Rv. 216239 – 01 secondo cui poiché la cosa giudicata si forma sui capi della sentenza – nel senso che la decisione acquista il carattere dell’irrevocabilità soltanto quando sono divenute irretrattabili tutte le questioni necessarie per il proscioglimento o per la condanna dell’imputato rispetto a uno dei reati attribuitigli -, e non sui punti di essa, che possono essere unicamente oggetto della preclusione correlata all’effetto devolutivo del gravame e al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni, in caso di condanna la mancata impugnazione della ritenuta responsabilità dell’imputato fa sorgere la preclusione su tale punto, ma non basta a far acquistare alla relativa statuizione l’autorità di cosa giudicata, quando per quello stesso capo l’impugnante abbia devoluto al giudice l’indagine riguardante la sussistenza di circostanze e la quantificazione della pena, sicché la “res iudicata” si forma solo quando tali punti siano stati definiti e le relative decisioni non siano censurate con ulteriori mezzi di gravame; ne consegue, dunque, che l’eventuale causa di estinzione del reato deve essere rilevata finché il giudizio non sia esaurito integralmente in ordine al capo di sentenza concernente la definizione del reato al quale la causa stessa si riferisce).

Tutto chiaro?

Francamente per il sottoscritto non tanto ma io sono limitato come dice spesso il mio coautore.