L’abuso del processo come possibile causa dell’ingiustizia subita da Beniamino Zuncheddu (di Vincenzo Giglio)

È ancora viva l’eco della conclusione ad opera della Corte di appello romana del giudizio di revisione che ha sia pure tardivamente rimediato all’errore giudiziario di cui è stato vittima Beniamino Zuncheddu che ha trascorso in carcere 33 anni da innocente.

Ne ha parlato oggi stesso Riccardo Radi in un suo bel post (a questo link per la lettura) e prendo a prestito il suo incipit: “Come è stato possibile? Come è potuto accadere che un uomo qualunque di un luogo qualunque in un tempo qualunque si veda rubare la vita da innocente, entrando in carcere da giovane e uscendone da vecchio?“.

Domande legittime quelle di Radi che meritano, anzi esigono, una risposta che di certo non potrà limitarsi alla presa d’atto dell’esistenza di strumenti rimediali cui attribuire il valore di anticorpi di sistema.

Non è soltanto la dimensione smisurata e per questo irreparabile dei danni subiti dalla vittima che spinge ad andare oltre.

È anche e soprattutto la constatazione che la condanna di Zuncheddu, per quanto fin qui emerso dalle cronache del giudizio di revisione, è stata resa possibile da una serie impressionante di manchevolezze che, manifestatesi fin dall’inizio delle indagini, sono riuscite a produrre i loro frutti avvelenati senza che funzionasse in senso impeditivo alcuno dei momenti di verifica e controllo disseminati lungo il percorso procedimentale dal codice di rito.

In altre parole, qui non si parla di un singolo errore ma di una negligenza che trascende l’operato del singolo individuo e del singolo ufficio e diventa colpa di sistema.

Da qui la necessità di una risposta.

Mi aiuta nella sua ricerca una recentissima riflessione di Filippo Giunchedi, Franco Cordero e l’abuso del processo, pubblicata in Archivio Penale, 23 gennaio 2024 (consultabile a questo link).

È particolarmente pertinente il paragrafo 2 dello scritto, intitolato “I comportamenti abusivi dei soggetti pubblici“.

Ne riporto i passaggi che mi sono sembrati più significativi.

L’originaria impostazione corderiana secondo cui i soli soggetti pubblici – giudice e p.m. – possono generare comportamenti di abuso del processo – superata, oltre che da altri studiosi, dallo stesso Autore – trae fondamento dal fatto che l’abuso costituisce una conseguenza della posizione attiva relativa ad un comportamento doveroso, come quello del giudice chiamato a decidere una controversia o quello del p.m. in ordine alle determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale […]

Nonostante l’attività del p.m. sia quella che consente maggiori possibilità di dar luogo a situazioni di abuso, anche il giudice – seppur in un ambito più circoscritto – può trovarsi in ipotesi ove rischia di optare per soluzioni che sviano dalla ratio della norma che è chiamato ad applicare nel caso concreto. Infatti, muovendo dal presupposto che i principi del giusto processo enucleati all’art. 111 Cost., costituenti una «norma-bandiera», integrano la legalità processuale, la discrezionalità del giudice nell’optare tra le diverse applicazioni che la legge gli consente, trova un limite nel fatto che alcune di queste potrebbero risultare, anche se conformi al dettato legislativo, integratrici di condotte abusive in quanto, nella fattispecie concreta, contrarie alla finalità che la norma si propone […]

Questa impostazione non esclude che l’abuso del giudice sia riconducibile esclusivamente a comportamenti abnormi, in quanto altre deviazioni funzionali dell’attività giurisdizionale, benché conformi al modello tipico, tendono a riverberarsi sul corredo costituzionale dello stesso, soprattutto sul piano della sua imparzialità o dell’ingiustizia del provvedimento adottato. Quindi, sulla base delle considerazioni effettuate, non appare peregrino sostenere che certe condotte del giudice ricalchino lo schema dell’atto abusivo. Sotto questo profilo, assume rilievo il più raffinato richiamo all’abuso della discrezionalità, ben radicato nei modelli processuali angloamericani.

Differente è, come ovvio, la posizione del p.m., considerato che proprio lo schema dialettico della contesa genera l’occasione per comportamenti abusivi nell’ottica del processo-play piuttosto che in quella del processo-game, ove l’abuso si concretizza nel rifiuto ad aderire all’etica del gioco. l’abuso si concretizza nel rifiuto ad aderire all’etica del gioco.

Le perplessità nell’attribuire al rappresentante della pubblica accusa la possibilità di tenere condotte di abuso trovano causa nella funzione che l’ordinamento gli assegna. Egli, infatti, a mente dell’art. 73, co. 1, R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, «veglia alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia»; attribuzioni che dovrebbero escludere comportamenti abusivi.

Purtroppo, la malcelata prassi legata a distorsioni di queste finalità rilascia una serie di esempi circa comportamenti di abuso del p.m., il quale, a fronte di un obbligo di svolgere indagini complete così da adottare responsabilmente le iniziative in ordine all’esercizio dell’azione penale, concentra gli sforzi sul raggiungimento di determinati obiettivi mediante strumenti che assolvono a tutt’altra funzione. È il caso dell’utilizzo strumentale delle misure cautelari, tanto personali che reali, per spingere l’accusato a offrire contributi gnoseologici in prospettiva auto ed etero-accusatoria […]

Il ricorso alla misura cautelare costituisce anche il passpartout per consentire al p.m. di accedere a procedimenti speciali che riducono sensibilmente le garanzie nella fase delle indagini e nel controllo sull’esercizio dell’azione penale come si verifica per i giudizi direttissimo e immediato “custodiale”,

in riferimento al quale è stato affermato senza infingimenti che costituisca una soluzione finalizzata a costringere l’imputato a reagire mediante l’opzione per il rito abbreviato, assottigliando le chances di una difesa attiva mediante il diritto alla prova.

La prassi delle “imputazioni gonfiate” costituisce, a sua volta, il modo per giovarsi abusivamente del regime riservato a determinate fattispecie, quali la custodia cautelare in carcere per talune categorie di reati o per poter svolgere attività di captazione; iniziative altrimenti precluse per addebiti differenti.

Non trascurabili gli effetti prodotti da prassi devianti – in parte “immunizzate” dalla nuova disciplina prevista per il controllo dei tempi delle indagini imposte dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 – legate all’iscrizione “a catena” di nuove ipotesi di reato in modo da protrarre ad libitum le indagini in spregio ai limiti cronologici posti dal legislatore.

Sempre con riguardo al promovimento dell’azione penale – che, come emerge da questo breve excursus, costituisce uno dei punti nevralgici del sistema, gravido di implicazioni sul piano dell’abuso del processo –, il suo esercizio apparente, raramente contrastato dal giudice mediante l’impulso previsto dall’art. 421-bis c.p.p., implica il rinvio a giudizio in vista della condanna.

Aspetto questo che pare accentuarsi con l’adozione della regola di valutazione costituita dalla «ragionevole previsione di condanna» introdotta con l’art. 23, co. 1, lett. l), D.Lgs. n. 150 del 2022 se non sarà accompagnata da un radicale mutamento culturale che superi questa mera lustra esterna“.

Le considerazioni di Giunchedi offrono una chiave di lettura o almeno un’espressione da prendere in considerazione per definire ciò che ha determinato l’infame destino di Beniamino Zuncheddu.

È l’abuso del processo cui si può aggiungere come sua specificazione l’abuso della discrezionalità connaturale alla funzione giudiziaria.

È abusiva la condotta del pubblico ministero che fa indagini per raggiungere un obiettivo predeterminato piuttosto che alla ricerca della verità e che chiede misure cautelari per servirsene come strumento di pressione nei confronti dell’indagato.

Lo è altrettanto la condotta del giudice che, facendosi scudo dell’ossequio formale ad una norma, la interpreta e applica in modo da tradirne lo scopo e da ledere i principi del giusto processo, oppure che abusa del suo potere discrezionale per propiziare certi esiti piuttosto che altri.

Non deve sfuggire che molti degli esempi concreti proposti da Giunchedi non hanno alcun contraltare nell’ordinamento disciplinare della magistratura sicché, se tenuti, non provocheranno alcun riflesso negativo nei confronti del loro autore.

Ed è per anche per questo che a coloro che chiedono chi pagherà per l’ingiustizia subita da Zuncheddu è facile rispondere che pagheranno non singoli individui ma lo Stato, cioè l’intera collettività.