Beniamino Zuncheddu e Stato di diritto: due vittime della stessa tragedia (di Riccardo Radi)

Come è stato possibile? Come è potuto accadere che un uomo qualunque di un luogo qualunque in un tempo qualunque si veda rubare la vita da innocente, entrando in carcere da giovane e uscendone da vecchio?

Ieri sera uscivo dal palazzo della Corte di appello di Roma dove si era appena messo il sigillo al più grande errore giudiziario della storia italiana ed ero amareggiato e intristito ed anche infastidito nel vedere i preparativi per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Quel voler far apparire tutto pulito e la ricerca spasmodica dell’ordine apparente con la pulizia raffazzonata della strada e le piante messe in bella mostra sulla scalinata per accogliere i pensosi caratteristi e figuranti della nostra giustizia.

Sono triste, sì, il tardivo riconoscimento di un errore così eclatante – tardivo perfino nel tempo, ben quattro anni, impiegato per l’ultimo atto – mette fine alla tragedia ma non all’orrore per lo sciupio di una vita.

E poi c’è la consapevolezza, quella di chi sa che questa storia e le tante altre che le sono compagne non insegneranno nulla a nessuno e verranno masticate e digerite e dimenticate in pochi giorni.

So che la giustizia non chiede scusa, non è tra i suoi compiti.

So che un dispositivo è un atto che non contempla critiche ed accuse.

So che un giudizio esaurisce in se stesso e nel suo epilogo il suo scopo funzionale.

Eppure, scioccamente, ho aspettato lo stesso, rimanendo ovviamente deluso, che qualcuno urlasse lo sdegno per una condanna a vita – a vita, per la miseria – frutto di un processo che di giusto e di equo non ha avuto nulla: indagini condotte all’insegna di un pregiudizio cieco, verdetti che hanno ignorato ogni evidenza contraria alla tesi d’accusa, logica e razionalità calpestate in ogni fase.

Eppure, mi dico ancora oggi, la storia di Beniamino Zuncheddu  è di quelle che sarebbe utile diffondere capillarmente perché consente, o meglio impone, di riflettere sui più importanti temi della giustizia penale di oggi e di sempre: l’irriducibile umanità del giudizio a dispetto di chi si danna per dimostrarne la razionalità; l’influenza che vi possono esercitare le componenti emotive di chiunque vi abbia un ruolo qualificato (giudici, parti, testi, esperti); il dubbio e la difficoltà di riconoscerne l’esistenza ed accettarne le conseguenze processuali; la forza magnetica del giudicato  e del convincimento di cui è frutto e la ritrosia a rimettere in discussione l’uno e l’altro.

Ognuno di questi aspetti è presente nella vicenda di Zuncheddu, con un’ulteriore e drammatica complicazione: quest’uomo è stato in carcere per 33 anni sulla base di una testimonianza che presentava delle incongruenze sin dall’inizio e che non sono state valutate.

Il 22 marzo del 2022 scrivevamo “Beniamino Zuncheddu: L’errore giudiziario che farà storia”, non perché siamo preveggenti ma semplicemente perché il dubbio traspariva dalla lettura delle carte processuali.

Quindi, oggi mi aspetterei che in almeno una delle inutili passerelle che saranno messe in scena in tutti i distretti giudiziari d’Italia si alzino una voce e un monito: mai più un’altra tragedia come quella di Zuncheddu, mai più altri furti di vite in danno di innocenti e mai più, aggiungo, quattro anni per riconoscere un errore evidente fin dall’avvio del giudizio di revisione.