Coltivazione finalizzata alla produzione di sostanze stupefacenti. Parte II: il percorso della giurisprudenza di merito (di Carlo Alberto Zaina)

Come anticipato, il principio sancito dalla sentenza delle SSUU, n. 12348/20 è frutto di un’articolata opera interpretativa che muove da un’epoca lontana nel tempo e da una disamina che ha visto protagonista la magistratura di merito.

La sensibilità al tema specifico manifestata da Giudici Monocratici o da GUP deriva da quell’insegnamento contenuto nella nota sentenza n. 28605/2008 delle SS.UU, che valorizzava il potere-dovere del giudice di operare una valutazione in concreto dell’offensività della condotta coltivativa.

Va detto, peraltro, che alcuni passaggi di questa sentenza – come ad esempio la negazione di un’effettiva distinzione fra coltivazione agraria e coltivazione domestica (da cui derivare radicali conseguenze sul piano della valutazione dell’illiceità della condotta) con omologazione di entrambe le forme di coltura – ho trovato forti (e giuste resistenze).

Si richiama – ad esempio – GUP Milano 19 giugno 2014 che ha ritenuto l’infondatezza della contestazione di coltivazione illecita in senso tecnico-agrario[1], verso l’imputato, in ragione del numero delle piante (3) e del luogo ove le stesse erano rinvenute.

La ricordata sentenza giungeva addirittura a stabilire che la cosiddetta coltivazione domestica appare ricadente nella nozione della detenzione, che a, differenza della coltivazione imprenditoriale, non è di rilevanza penale se destinata ad uso esclusivamente personale (Cass. Pen.  Sez. 6, Sentenza n. 42650/2007).

La importante delega, così operata, purtroppo, è stato troppo spesso trascurata dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza (sia di merito, che di legittimità), che non hanno tenuto conto che “spetta al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto”.

La portata innovativa del principio in parola è indubbia.

Essa esprime, in sé, una propria aperta dissonanza dal rigorismo negativo che ha permeato la decisione ricordata.

In dottrina la vexata quaestio è stata affrontata da AMATO.

L’autore ha posto la coltivazione in intima correlazione con quelle condotte successive concernenti la vera e propria produzione, le quali, peraltro, rimangono distinte dalla coltivazione.

È stata, così, sostenuta l’assorbenza della condotta coltivativa – e del relativo giudizio penale (qualunque sia la valutazione operata – rispetto alla successiva condotta detentiva del prodotto ricavato e prodotto.

Seguendo un filo temporale si può muovere dalla pronunzia del GM di Ferrara, del 20.3.2013, (Balboni+1) che è risultata la sentenza capostipite del movimento giurisprudenziale orientato a riconoscere la possibile non illiceità di forme di coltivazione, connotate, seppur in forma ancora acerba, da requisiti quali quello del limitato numero di piante messe a dimora, del modico contenuto di principio attivo ottenibile, della rudimentalità della coltivazione e della destinazione del prodotto al soddisfacimento del fabbisogno del coltivatore-consumatore.

La sentenza si connota per la ricchezza della pluralità dei temi affrontati e, soprattutto, per un’aperta contestazione e presa di distanza rispetto all’indicazione di SSUU 26805/2008.

Tale motivata scelta legittima, a parere di chi scrive la trascrizione di gran parte del segmento motivo della stessa[2], onde comprendere come taluni principi, per i quali gran parte della dottrina e della giurisprudenza hanno espresso sorpresa, fossero già stati enucleati pacificamente oltre 7 anni prima.

Altra sentenza rilevante è quella – di cui si è già fatto in precedenza menzione – emessa dal GUP di Cremona il 10.10,13[3].

Sulla premessa dell’individuazione del bene protetto sul piano penale dal Dpr 309/90 che viene ritenuto quello di evitare che le sostanze stupefacenti siano cedute a terzi e fatte circolare accrescendone cosi la diffusione, passaggi salienti della stessa appaiono, il giudice si interroga sull’effettiva lesività della condotta coltivativa attuata nella specie.

In buona sostanza il dilemma sollevato dal GUP intercorre fra un giudizio di lesione del bene che si intende proteggere o al contrario se l’azione giudicata sia, invece, circoscrivibile all’interno di una detenzione ad uso personale sia pure con le modalità dell’auto-produzione, senza rivolgersi e senza alimentare il narcotraffico e, comunque, con una nulla o minima offensività del bene tutelato.

Per la sentenza, in questo caso, soccorre l’esame della condotta, in base ai dati di fatto che emergono dagli atti, e, soprattutto, sulla scorta dell’assenza di elementi che indichino una destinazione della marijuana terzi e sul numero di piantine esiguo[4].

Si tratta di canoni rilevanti, soprattutto, in quanto posti in intima relazione con il giudizio di offensività della condotta.

Sulla medesima linea il Gup di Lecco sent. 25.3.2014, in relazione ad una piantagione di 8 vegetali, rilevava in relazione al caso di specie “…che si trattava senza alcun dubbio di coltivazione domestica e che deve concludersi che non vi sono elementi sufficienti per affermare che la condotta ascritta all’imputato sia stata in concreto offensiva”.

Dunque, in tempo non sospetto, venivano individuati due temi fondamentali, che – a distanza di anni – verranno ripresi dalle SSUU e cioè il carattere di coltivazione domestica – ripudiato nel 2008 – e il parametro dell’offensività[5] della condotta.

Ed ancora il GUP di Avellino (sent. 77/2014, ud. 26 marzo 2014), assolvendo due imputati accusati di coltivazione di 1 pianta[6], si sofferma attentamente sui casi di esclusione dell’offensività, ravvisabili allorquando le piante non abbiano ancora completato il ciclo di maturazione e non abbiano ancora prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza del principio attivo della sostanza stupefacente (Cass., sez. IV, 28.10.2008/14.1.2009 n. 1222, Nicoletti) ovvero, allorquando siano prive di (o, in altre pronunce, dotate di modesta) efficacia drogante (di recente, Cass. pen., sez. VI, 2.5.2013 n. 22110, Capuano, che ha escluso l’offensività della coltivazione di tre piantine di marijuana; Cass. pen., sez. IV, 20.9.2013 n. 43184, Carioti; Cass. pen., sez. IV, 17.2.2011 n. 351, Marino, che ha escluso l’offensività della coltivazione di una sola pianta di cannabis contenente un principio attivo di 16 mg.).

Significativa, inoltre, della spiccata sensibilità manifestata rispetto al problema del parallelismo fra coltivazione di piante di cannabis e detenzione di stupefacenti ad uso personale, risulta, poi, il passaggio relativo alla possibilità che risulti ingiusta la diversificazione delle due condotte “…va rilevato che la concreta fattispecie sembra evidenziare la potenziale irragionevolezza del differente trattamento della coltivazione e della detenzione (entrambe) “ad uso esclusivamente personale”, potendo la contestazione della fattispecie dipendere dal casuale momento della ‘scoperta’ del fatto…”.

Nel contesto giurisprudenziale che si sta ripercorrendo, meritevole di menzione appare anche la sentenza 22/2014 del GUP di Trento (8.5.2014) che valorizza la destinazione del prodotto, ottenuto con la coltivazione, alla soddisfazione del fabbisogno personale dell’agente.

Nella specie, poi, la destinazione in questione appariva oltremodo qualificata, perché essa era caratterizzata “dalla necessità di utilizzo per una cura sintomatica della patologia da cui l’imputato era affetto”.

Il principio sancito, nel provvedimento in questione, è quello che è onere del giudicante di stabilire se, in presenza delle particolari caratteristiche del fatto, la coltivazione assuma i connotati di pericolosità concreta, che la giurisprudenza di rito in punto ad offensività.

L’esiguo numero di piante – 3[7] – il fine terapeutico (qualificato), unitamente al richiamo alla sent. 360/95 della Consulta, (la quale afferma la punibilità della coltivazione anche in caso di semplice destinazione a consumo personale), solo in riferimento all’attività coltivativa in senso tecnico, cioè che risulti tale da arricchire ed incrementare la complessiva provvista di stupefacente sul mercato, costituiscono osservazioni particolarmente significative.

Analogamente GUP Lucca 4.4.2014 n. 201/14[8], in relazione ad una coltivazione di tre piante, pone in evidenza sia il carattere minimale della piantagione, sia la destinazione al consumo personale, quali elementi che escludono la punibilità, sotto il profilo dell’assenza di incremento del mercato della droga.

Ed allo stesso modo GUP Pisa 2.4.2014 n. 168, riguardo alla coltivazione di 4 piante di marijuana ed alla detenzione di 39 rami secchi di infiorescenza di marijuana, aventi un quantitativo totale di principio attivo pari a 4,64 grammi.         

Questo percorso ermeneutico è rimasto inalterato nel corso del tempo, non subendo arresti di segno contrario.

Anzi, anche in epoca successiva a quella sin qui esaminata si sono segnalate decisioni che hanno arricchito l’indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato.

In questo senso GUP Belluno, 16.2.2018 n. 122 che, in relazione ad una coltivazione di 8 piante, ha posto l’accento sull’assenza di offensività della condotta[9], desunto dalle modalità di attuazione della stessa – definita “artigianale” – e sull’inidoneità del prodotto ottenuto ad influire in concreto – ove per ipotesi posto in commercio – sul mercato illecito.

A propria volta il G.M di Bologna 4.5.2018 n. 2103, evidenzia positivamente, ai fini del giudizio di offensività, sia la rudimentalità della struttura coltivativa, sia la destinazione al consumo personale, sia il limitato numero di piante.

Su altri differenti profili si sofferma il GUP di Trento 15.3.2018 n. 1015/17, che ha affrontato il problema di una piantagione di 23 esemplari, funzionale alla produzione di cannabis terapeutica.

Senza volere aprire un capitolo che merita un’eventuale trattazione a sé stante, per le importanti implicazioni che le condotte di automedicazione ed autodiagnosi comportano, sia sufficiente ai fini della presente trattazione rilevare le ragioni in base alle quali la condotta coltivativa è stata scriminata dal giudice.

In primo luogo è apparsa pacifica la circostanza che l’imputato era affetto da patologie che rendevano necessario l’uso terapeutico della cannabis.

Una volta valutata questa circostanza che sostanzialmente costituisce l ‘incipit della condotta, il GUP si è soffermato sul dilemma che l’imputato ha dovuto affrontare nel momento in cui doveva reperire la sostanza da usare medicalmente.

La scelta che si prospettava all’imputato era, infatti, quella di rivolgersi o al mercato illegale, con pronto reperimento del prodotto, ma con evidenti elevati rischi di natura penale, oppure quella di seguire la trafila del SSN.

In questo ultimo caso l’interessato ha dimostrato di doversi scontrare con l’assenza di sicurezza in ordine alla possibilità di fruire in modo tempestivamente ragionevole dei medicinali prescritti, attesa la scarsa quantità disponibile degli stessi e per il basso numero di farmacie che vendono medicinale a base di cannabis.

Sicché il principio della continuità terapeutica avrebbe subito una palese lesione.

Dunque la coltivazione, come si legge in sentenza, ha costituito “l’unica modalità di accesso al THC con finalità terapeutiche”, venendo esclusa in radice qualsiasi ipotesi di immissione del prodotto su di un mercato di destinazione illegale, cioè al di fuori della sfera di disponibilità dell’imputato.

Questo rilievo – anche se strettamente collegato alla specificità del caso – ribadisce l’inserimento a pieno titolo del consumo personale, fra i requisiti essenziali da utilizzare per formulare il giudizio di offensività.

Viene, in questo modo, superata, quella posizione assunta da SSUU 26805/2008, che devalorizzava, inopinatamente, il rapporto di immediatezza intercorrente fra coltivatore/assuntore e prodotto della coltivazione, privilegiando in maniera del tutto astratta (ed illogica) la potenziale attitudine all’immissione sul mercato del raccolto.

Il principio affermato, nel caso specifico, per il suo carattere generale, quindi, non può venire circoscritto all’episodio giustificato dai riconosciuti fini terapeutici, posto che, una volta provata la destinazione al consumo personale dell’agente, il rapporto di collegamento diretto con il prodotto è, a propria volta, sicuro.

Il percorso giurisprudenziale si è recentemente con la sentenza del G.M. di Rimini, 4.10.2022 n. 1627, che in relazione alla coltivazione di due piante ha posto la propria attenzione sulle modalità della coltivazione[10], e sulla rudimentale attività di coltivazione, avente ad oggetto un numero irrisorio di piante, unitamente all’assenza di ulteriori elementi sintomatici dello svolgimento di attività di cessione a terzi di sostanza stupefacente.

Per completare in modo esaustivo il quadro della giurisprudenza di merito ritengo opportuno citare alcune pronunzie che hanno risolto la questione della coltivazione, attraverso il ricorso all’istituto della particolare tenuità previsto dell’art. 131 bis c.p.[11].

In questi casi, è evidente che la prospettiva utilizzata dal giudicante – pur pervenendo ad una sentenza di proscioglimento (anche se taluno parla di assoluzione) che risulta, comunque, favorevole all’imputato – si risolve in un giudizio di illiceità dell’attività coltivativa.

Il giudizio di responsabilità penale, che dovrebbe, pertanto, comportare la condanna del coltivatore, viene, invece, così, escluso, perché, ove sia possibile la previa riqualificazione della condotta nell’ipotesi di cui al co. 5 dell’art. 73 (lieve entità), che comporta un limite massimo di pena di 4 anni di reclusione, interviene una valutazione di limitatissima offensività dell’azione coltivativa.

Un primo esempio meritevole di citazione è la sentenza 260/2016 del GUP di Fermo (27.10.2016) relativamente a 50 piante (che presentavano diversi livelli di crescita e maturazione).

Nella specie è stato ritenuto che, pur trattandosi di quantitativo di sostanza al di sopra dei minimi di legge, il prodotto – in totale 13 gr. di THC su un peso lordo di 500 gr. – si manifestava come “contenuto”.

Oltre a questo carattere, il giudice evidenziava la “occasionalità” del fatto, anche se il riferimento all’assenza di danno non pare corretto, perché in tal caso avrebbe, ad avviso di chi scrive, dovuto prevalere una prognosi di non offensività ed una pronunzia assolutoria di merito.

Un’analoga soluzione è stata adottata dal Tribunale di Roma sent. 5746/18 ud. 20.4.2018, in relazione alla coltivazione di 3 piante.

Nell’occasione, il giudice ha aderito al principio dettato da SSUU 26805/08 che stabiliva come la coltivazione dovesse essere ritenuta illecita, “quale che sia il principio attivo ricavabile”.

È stata, così, ritenuta penalmente rilevante la condotta dell’imputato, perché il giudicante ha valutato che la fattispecie ponesse in pericolo il bene giuridico della salute.

Al contempo, però, l’azione ritenuta illecita è stata riqualificata nella previsione del co. 5 dell’art. 73, condizione necessaria per l’ulteriore passaggio logico funzionale all’applicazione dell’art. 131 bis c.p.

È stato apprezzato il carattere non professionale della coltivazione e la circostanza di “minime ricadute in termini di danno od allarme sociale”.


[1]Presupposti, invece, rilevanti nel senso illecito venivano individuati nella presenza di alcune disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti.

[2]. Per le medesime ragioni e verosimile che anche l’eventuale produzione derivante dalle piantine sarebbe stata destinata ad uso personale.

        Al riguardo si ritiene non condivisibile l’orientamento fatto proprio dalla Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008 Rv. 239920) per il quale la coltivazione sarebbe sempre penalmente rilevante a prescindere dall’uso (esclusivamente personale o meno) cui i1 prodotto fosse destinato. Secondo le Sezioni Unite non sarebbe possibile far rientrare la c.d. “coltivazione domestica” nella “detenzione” (come pur aveva ritenuto un diverso orientamento -minoritario – di legittimità: cfr., tra le altre Cass. Sez. 6, n. 42650 del 20/09/2007 Rv. 238153), con la conseguenza che la stessa coltivazione domestica non potrebbe risultare scriminata dall’eventuale destinazione all’uso esclusivamente personale (ai sensi degli artt. 73 co. 1-bis e 75 dpr 309/1990). Come noto, la Suprema Corte ha affermato che la coltivazione integra sempre (a condizione che risulti rispettato il principio di offensività) il reato contestato, perché vi è un significativo scarto temporale tra la coltivazione e l’uso e perché ogni tipo di coltivazione in sostanza determina un aumento della quantità di stupefacente esistente e dà luogo ad un processo produttivo astrattamente capace di “autoalimentarsi” attraverso la riproduzione dei vegetali.

        Tali argomentazioni, pur astrattamente condivisibili, non paiono tuttavia aderenti alla realtà che nei palazzi di giustizia si sperimenta quotidianamente. Come hanno già sottolineato diverse pronunce di merito, le quantità di stupefacenti in circolazione nella società italiana sono senz’altro enormi, sicché quattro piantine coltivate in un appartamento da due giovani – di cui non risulta un collegamento con qualche rete criminale -non possono aumentare in misura in qualche modo apprezzabile la citata quantità. Anzi, I ‘assuntore abituale di stupefacenti – ove si rivolga ai traffici di strada per soddisfare il proprio bisogno – determina un aumento della domanda complessiva e quindi, in un mercato in cui l’approvvigionamento avviene di fatto senza limite e la domanda induce ed alimenta l’offerta, un aumento della quantità di sostanza che circola nella collettività. Paradossalmente perciò il consumatore che non si rivolga ai traffici legati alla criminalità organizzata ma produca in proprio la sostanza stupefacente per il proprio consumo personale evita di contribuire all’incremento dei citati traffici.

        Un discorso analogo vale quanto al paventato pericolo che la coltivazione domestica possa dar luogo ad un processo capace di “autoalimentarsi” attraverso la riproduzione dei vegetali; anche tale obiezione risulta infatti inappropriata avendo riguardo agli spazi limitati di un appartamento di città, alla difficoltà che delle piante riescano a riprodursi in vaso, senza sole, ecc.

        Alla luce di tali considerazioni, si ritiene corretta l’assimilazione della “coltivazione domestica” – strutturalmente e finalisticamente diversa dalla coltivazione di tipo imprenditoriale o comunque su vasta scala -alla semplice detenzione.

        Né il dato letterale depone necessariamente in senso opposto: la stessa espressione “coltivazione” di cui all’art. 73 dpr 309/1990 sembra infatti designare un’attività che presenti certe caratteristiche dimensionali minime e non si attaglia agevolmente alla fattispecie di quattro piantine cresciute in vaso all’interno di un appartamento.

        Una interpretazione restrittiva del termine “coltivazione” pare poi necessaria alla luce del principio di offensività del reato (che trova il suo fondamento negli artt. 13 e 27 Cost.): una volta che si individui il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice nella salute pubblica, nell’ordine pubblico e nella sicurezza pubblica, non si può ritenere che soddisfi il requisite di tipicità una condotta che per il numero delle piante, per il luogo di detenzione delle stesse (un luogo chiuso, inaccessibile a terzi), per la destinazione al consumo personale (e quindi la non diffusione dello stupefacente) e del tutto inidonea ad offendere anche solo in termini di pericolo quei beni  (in tal senso Cass. Sez. 4, n. 25674 del 17/02/2011 Rv. 250721).

        Non si può da ultimo trascurare un altro data essenziale: la coltivazione in ogni caso dovrebbe avere ad oggetto sostanze stupefacenti; tale caratteristica non può desumersi dalla semplice tipologia di specie botanica coltivata, in quanto altrimenti si finirebbe per punire la semplice volontà dell’agente; pur trattandosi di reato di pericolo (in cui la soglia di rilevanza è anticipata in ragione dell’importanza dei beni giuridici tutelati) perché il reato sussista è necessario comunque che le piante presentino una quantità di principio attivo sufficiente ad esplicare un’efficacia drogante. Nel caso di specie nessun accertamento risulta essere stato effettuato, a parte il semplice narcotest. E la semplice specie botanica nulla garantisce al riguardo: la quantità di principio attivo notoriamente dipende da fattori quali l’età della pianta, le modalità (idonee o meno) di coltivazione, l’adeguata esposizione alla. luce, ecc. I pochi elementi noti al riguardo (piantine ancora giovani; coltivatori inesperti; crescita in un appartamento) sono tutti concordi in senso opposto rispetto a quello della sussistenza del citato requisito”.

[3]È significativo che lo stesso giudice – dott. Salvini – già come GUP a Milano aveva con sentenza 13.10.2012 sancito i medesimi principi.

[4]Quello della esiguità del numero delle piante risulta un criterio assai utilizzato. V. ad es. Trib. Monza 14.4.2014 che afferma “…Con riguardo all’ulteriore condotta in contestazione di avere coltivato una pianta di marijuana, dagli atti risulta che nell’abitazione di P.G. fu trovata in un vaso una piantina alta circa 30 cm. di marijuana, da cui sono stati ricavati grammi 4,2 netti di sostanza con un principio attivo del 2,7 %. L’imputato ha ammesso di avere piantato nel mese di aprile precedente all’arresto una piantina di marijuana e di avere ricavato dalla crescita della stessa la sostanza che poi gli è stata complessivamente sequestrata. Tale affermazione trova riscontro nel fatto che la sostanza rinvenuta in casa era in parte già essiccata e pronta al consumo e in parte no (vedi reperti 2 e 3 del referto di analisi). Alla luce di ciò, ii fatto deve essere certamente qualificato come coltivazione domestica ad uso personale, non emergendo dagli atti di indagine indizi di alcun genere per ritenere che si sia trattato di una coltivazione finalizzata alla produzione di sostanza per la successiva cessione a terzi. Sul punto questo giudice ritiene di aderire all’orientamento più recente della Suprema Corte e della giurisprudenza di merito (3) secondo i quali occorre accertare l’offensività in concreto della condotta e cioè la effettiva idoneità dell’attività di coltivazione a ledere il bene giuridico protetto dalla nonna incriminatrice e, cioè, ii bene della salute di terzi a cui la sostanza stupefacente prodotta sia destinata o ceduta, cosi accrescendone la circolazione e diffusione. Nel caso di specie non vi sono elementi per sostenere una destinazione a terzi della marijuana: e stata coltivata una sola pianta, detenuta in casa, senza approntamento di alcun dispositivo (ad esempio serra con apposite lampade) che ne accelerasse l’accrescimento o incrementasse la produzione, ne è state rinvenuto alcun oggetto che potesse far ritenere che quella sostanza sarebbe stata poi smerciata ad altri. In ragione di ciò, in mancanza di prova univoca della concreta offensività penale della condotta di coltivazione contestata all’imputato, lo stesso deve essere assolto anche da quest’accusa perché il fatto non sussiste”.

[5]Prosegue la sentenza affermando relativamente all’offensività “In materia deve rilevarsi come la stessa Corte Suprema di Cassazione, a fronte di iniziali affermazioni secondo cui la coltivazione era penalmente rilevante in sé ed in quanto tale potenzialmente diffusiva della droga, più di recente ha reiteratamente posto l’accento sulla necessità di accertare la offensività in concreto della condotta e cioè la effettiva idoneità della attività di coltivazione a produrre sostanza per il consumo (cfr. Sez. 6, Sentenza n.22110 del 02/05/2013 Rv. 255733; Sez. 4, Sentenza n.1222 del 28/10/2008 Rv. 242371; Sez.6, Sentenza n.22459 del 15/03/2013 Rv. 255732; Sez.3, Sentenza n.23082 del 09/05/2013 R.256174).

        Conf. Corte Appello Cagliari 9.7.2014

[6]Per una vicenda analoga si veda Corte App. Trieste 8.4.2015 n. 524 “…La coltivazione di una piantina di. canapa indiana, dell’altezza di circa 1 metro e contenente principio attivo pari all’11%, pare assolutamente inidonea a ledere il bene giuridico tutelato dalla norma, non potendosi ricavare dalla predetta piantina un quantitativo apprezzabile dii sostanza, tare da agevolarne la diffusone sul mercato.”. Contro Trib. Lecco n° 585/2011 R.G. del 07-05-2012 che ha condannato per la coltivazione di una pianta alla pena di mesi 8 di reclusione, poi ridotta a mesi 4 in grado di appello.

[7]Anche Il Tribunale monocratico di Roma, con la sentenza 2.3.2015, ravvisava nel numero di tre piante un quantitativo indubbiamente idoneo ad escludere la offensività della condotta coltivativa.

[8]In sentenza si afferma che è evidente che la minuscola attività di coltivazione (se cosi dobbiamo proprio chiamarla, per lo meno in senso naturalistico), costituita solo da tre piante di cannabis e da una specie di serra che, per le sue dimensioni non   poteva   comunque   ospitarne   di   più,   non era concretamente tale da determinare, neppure in astratto, una produzione di sostanze stupefacenti potenzialmente idonea ad incrementare il mercato (tanto è vero che il P.M. ha comunque contestato il 5° comma dell’art.73 DPR 309/90); in  più,  se  si considera la  indubbia  destinazione  della  sostanza  all’uso  personale, è evidente  che il rischio   di  incrementare il mercato della  droga   era,  in  questo  specifico caso, inesistente anche e soprattutto dal punto di vista concreto.

[9]“…La difesa ha sostenuto la tesi della mancanza, nella condotta di coltivazione, della capacità di minacciare la salute pubblica attraverso una ulteriore diffusione dello stupefacente da coltivazione domestica. E in effetti si deve convenire che la condotta dell’imputato non ha alcun aspetto tecnico – agricolo ma più prettamente artigianale ed amatoriale. Il problema da affrontare è quello della offensività della condotta che normalmente è stata intesa come intimamente connessa alla capacità della coltivazione di produrre sostanza con buon principio attivo… Nel caso concreto l’offensività della condotta dell’imputato con riferimento a tale ultimo requisito è del tutto inesistente: la quantità di piante coltivate e di prodotto coltivato non ha la capacità di influire sul mercato illecito del traffico di stupefacenti. Tale interpretazione delle norme è peraltro costituzionalmente orientata in quanto anche la Corte Costituzionale ha affermato che accanto alla offensività generale che costituisce il limite della discrezionalità del legislatore, il Giudice deve valutare l’offensività della condotta specifica che deve essere in grado di porre in pericolo il bene giuridico tutelato (cost 360/95) cioè nel caso concreto la diffusione del traffico di stupefacenti.

[10] Le modalità della coltivazione – realizzata mediante l’uso di una serra costituita da una tenda di altezza pari a 230 cm e larghezza pari a 50 cm – e l’oggetto della stessa – trattandosi di sole due piantine – inducono a ritenere che si trattasse di una produzione di ridotta entità e di carattere rudimentale verosimilmente diretta a soddisfare le esigenze dei soli imputati…..Nel caso di specie, la rudimenta1e attività di coltivazione, avente ad oggetto un numero irrisorio di piante, unitamente all’assenza di ulteriori elementi sintomatici dello svolgimento di attività di cessione a terzi di sostanza stupefacente, non consente di affermare inequivocabilmente che il prodotto della stessa fosse destinato all’immissione nel mercato illecito in luogo che al mero uso personale.

[11]Il testo della norma recita:

        Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

        L’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.

        L’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede:

        1) per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione, commessi in occasione o a causa di manifestazioni sportive;

        2) per i delitti previsti dagli articoli 336, 337 e 341 bis, quando il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni, nonché per il delitto previsto dall’articolo 343;

        3) per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis, 391 bis, 423, 423 bis, 558 bis, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583, secondo comma, 583 bis, 593 ter, 600 bis, 600 ter, primo comma, 609 bis, 609 quater, 609 quinquies, 609 undecies, 612 bis, 612 ter, 613 bis, 628, terzo comma, 629, 644, 648 bis, 648 ter;

      4) per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 19, quinto comma, della legge 22 maggio 1978, n. 194, dall’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, salvo che per i delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo, e dagli articoli 184 e 185 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58(1).

        Il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

        Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest’ultimo caso ai fini dell’applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all’articolo 69.

        La disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante.