La Cassazione e il rasoio di Occam (di Vincenzo Giglio)

La storia di oggi è l’ennesimo caso in cui la Corte di cassazione riesce a complicare il semplice.

Molti sanno che già nel quattordicesimo secolo Guglielmo di Occam elaborò un principio che fu poi definito come rasoio di Occam. In parole poverissime, significa che a parità di condizioni, bisogna sempre preferire la spiegazione più semplice.

Ho poi sentito dire – ma non ricordo da chi e quando – che chi deve risolvere un problema e non lo fa, è egli stesso parte del problema.

Posso adesso iniziare la storia.

Nel 2018 tra le disposizioni di attuazione del codice di procedura penale è stato inserito il nuovo articolo 165-bis.

Il suo secondo comma dispone testualmente che «Nel caso di ricorso per cassazione, a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, è inserita in separato fascicolo allegato al ricorso, qualora non già contenuta negli atti trasmessi, copia degli atti specificamente indicati da chi ha proposto l’impugnazione ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lettera e), del codice; della loro mancanza è fatta attestazione».

Credo si possa essere d’accordo che questa è una regola chiara che delinea una sequenza altrettanto chiara: se il ricorrente per cassazione deduce il vizio di mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione e indica a tal fine specifici atti del processo, la cancelleria del giudice la cui decisione è impugnata è tenuta a verificare se tra gli atti trasmessi alla Suprema Corte vi siano quelli indicati dal ricorrente medesimo; se ne accerta la mancanza, è tenuta a reperirli e inserirli in un fascicolo da allegare al ricorso; se non riesce a trovarli, la cancelleria deve attestare la circostanza.

In termini ancora più semplici: il ricorrente indica gli atti, la cancelleria li procura e li trasmette oppure, se non li trova, attesta di non averli trovati.

Ma quello che è semplice per l’uomo comune, non lo è più quando ci mette le mani la Corte di cassazione.

Ecco cosa dice la settima sezione nella sentenza n. 1122/2020:

«Quando viene invocato un atto che contiene un elemento di prova. il principio della “autosufficienza del ricorso” deve essere rispettato anche nel processo penale, sicché è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi, dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto. Tale interpretazione deve essere aggiornata dopo l’entrata in vigore dell’art. 165-bis comma 2 disp. att. cod. proc. pen., che prevede che copia degli atti “specificamente indicati da chi ha proposto l’impugnazione ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) del codice” è inserita a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato in separato fascicolo da allegare al ricorso e che, nel caso in cui tali atti siano mancanti, ne sia fatta attestazione. Sebbene la materiale allegazione con la formazione di un separato fascicolo sia devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, resta in capo al ricorrente l’onere di indicare nel ricorso gli atti da inserire nel fascicolo, che ne consenta la pronta individuazione da parte della cancelleria, organo amministrativo al quale non può essere delegato il compito di identificazione degli atti attraverso la lettura e l’interpretazione del ricorso. È così sempre necessario il rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione da parte del ricorrente degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione delegata alla Cancelleria […]. Ciò non è stato fatto dal ricorrente, né alla Corte può essere demandata la ricerca e l’interpretazione della prova dichiarativa così evocata, ovvero – per altro verso – l’allegazione in blocco della trascrizione degli atti processuali, postulandone la lettura da parte della Suprema Corte».

Il lettore si chiederà cosa ha stimolato questo fiume di parole.

C’era un ricorso fondato su un unico motivo in cui si affermava che la decisione impugnata era doppiamente viziata per violazione di legge e travisamento di prova. Questi vizi erano riferiti ad un unico atto, cioè il verbale della deposizione di una teste. Il ricorrente aveva specificamente indicato a quale prova si riferisse e nel testo del ricorso aveva inserito lo stralcio della deposizione che, secondo lui, era stato malamente interpretato.

Una situazione semplice, vero?

No, non per la Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso affermando che spettava al ricorrente indicare specificamente l’atto alla cancelleria e/o trascrivere integralmente la copia della deposizione nell’atto di impugnazione.

Perché? Perché alla Corte non spetta cercare da sola l’atto menzionato né il problema può essere risolto allegando integralmente tutti gli atti processuali e pretendere che li legga.

Una pronuncia isolata? Niente affatto.

Appena due settimane fa la prima sezione penale della Corte (sentenza n. 29137/2022), ha ribadito che «anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 165 bis disp. att. c.p.p., introdotto dall’art. 7, comma 1, d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, trova applicazione il principio di autosufficienza del ricorso, che si traduce nell’onere di puntuale indicazione, da parte del ricorrente, degli atti che si assumono travisati e dei quali si ritiene necessaria l’allegazione, materialmente devoluta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato».

Si capiscono meglio adesso i richiami al rasoio di Occam e all’essere parte di un problema.

Il rasoio ci sta benissimo perché lo scopo più verosimile di decisioni come queste non è interpretare correttamente una norma ma incrementare la cosiddetta giurisprudenza difensiva che permette alla Cassazione di dichiarare inammissibile un sempre maggior numero di ricorsi.

Chiunque capirebbe infatti che non si può far pagare al ricorrente la mancata evasione di un adempimento di cancelleria che, quantomeno nel caso risolto nel 2020, non aveva bisogno di alcuna specificazione esplicativa da parte del difensore.

Se stanno così le cose, alla Cassazione basterebbero due soli passaggi per rispettare il rasoio di Occam: abbiamo troppo lavoro > dobbiamo aumentare le cause di inammissibilità per venirne fuori.

E invece, come si è letto, i passaggi sono aumentati di molto fino a includere perfino l’incolpevole art. 165-bis che certo non può essere usato come grimaldello per aumentare le inammissibilità.

Ma ci sta benissimo anche l’esser parte di un problema. Perché nell’architettura del nostro ordinamento la Cassazione è stata immaginata non per scansarsi dai problemi ma per risolverli.