Le intercettazioni concesse destano stupore ma perché attendere un’interrogazione per saperne di più e informare i cittadini? I vizi di conoscenza e di memoria del nostro legislatore (Vincenzo Giglio)

Si apprende che il 13 novembre 2025, nella seduta n. 565 della Camera dei deputati, l’on. Enrico Costa (Forza Italia) ha presentato l’interrogazione a risposta scritta n. 4-06342,

Per sapere – premesso che:

tra le principali funzioni del giudice per le indagini preliminari rilevano quelle a tutela del diritto alla libertà personale, e specialmente quelle relative all’applicazione, revoca, modifica o sostituzione di misure cautelari e alle convalide di arresto o fermo entro 48 ore dalla richiesta del pubblico ministero;

a tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni e dei diritti patrimoniali, il giudice per le indagini preliminari autorizza le intercettazioni, dispone il sequestro preventivo delle cose pertinenti al reato, convalida il sequestro d’urgenza, decide sulla restituzione delle cose sequestrate, dispone la trasformazione del sequestro probatorio in conservativo o preventivo;

sempre tra le funzioni del giudice per le indagini preliminari c’è poi quella di far rispettare i termini di durata massima delle indagini preliminari, disponendo le eventuali proroghe;

al giudice per le indagini preliminari spetta anche il compito di assicurare il rispetto del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, controllando le decisioni del pubblico ministero di archiviazione, autorizzando l’archiviazione con un decreto motivato, e decidendo sull’opposizione all’archiviazione eventualmente promossa dalla persona offesa –:

quale sia il tasso percentuale di accoglimento e rigetto delle richieste dei pubblici ministeri ai giudici per le indagini preliminari suddivise per tipologie, in relazione a:

a) richieste di autorizzazione allo svolgimento di intercettazioni, nonché proroga delle stesse;

b) richieste di proroga dei termini delle indagini preliminari;

c) richieste di applicazione, revoca, modifica o sostituzione di misure cautelari e convalide di arresto o fermo;

d) richieste di archiviazione, anche a seguito di opposizione della persona offesa.

La consultazione della relativa scheda nell’apposita sezione del sito web della Camera dei deputati segnala che la procedura è in corso.

Vari media, tuttavia, tra questi Il Dubbio con un articolo pubblicato ieri 17 novembre 2025 a firma di Errico Novi, consultabile a questo link, informano che i dati richiesti sono già disponibili e che raccontano una storia di sostanziale corrispondenza tra le richieste di autorizzazione alle intercettazioni dei PM e i provvedimenti dei GIP.

Così commenta la notizia dal suo profilo X l’Avvocato Gian Domenico Caiazza, già presidente dell’UCPI ed oggi tra i più importanti attivisti a favore del sì alla separazione delle carriere:

Ecco i dati ufficiali del Ministero, in risposta ad una interrogazione di Enrico Costa: i GIP accolgono le richieste dei Pubblici Ministeri di intercettazioni nel 94% dei casi, di proroga delle intercettazioni nel 99% dei casi; di proroga delle indagini preliminari nell’85% dei casi. Aggiungo che i GUP accolgono le richieste del PM di rinvio a giudizio nell’oltre il 90% dei casi, come è a tutti noto. Ancora nessuna notizia sulla percentuale di accoglimento delle richieste di misure cautelari, ma si accettano scommesse. Insomma, è il famoso “giudice terzo” voluto dall’art. 111 della Costituzione, giusto?”.

Al di là dell’opinione che si può avere sul significato di questo dato e dell’influenza che potrebbe avere sull’esito della campagna referendaria per la separazione delle carriere, una cosa è certa ed è il favore che bisogna avere per ogni iniziativa che favorisce la conoscenza, in questo caso di tipo numerico-statistico.

Purtroppo, il suo contrario, cioè il difetto di conoscenza, caratterizza in più di un caso la legislazione italiana e la proposta di legge costituzionale di riforma dell’ordinamento giudiziario e di istituzione dell’Alta Corte disciplinare non fa eccezione.

Alla fine di questo post è allegato il dossier con la documentazione raccolta dai servizi studio dei dipartimenti Giustizia e Istituzioni della Camera dei deputati: vi si trovano analisi della normativa interna anche in retrospettiva storica così come la sua comparazione con le legislazioni di alcuni Stati stranieri, ma non si trova un numero neanche a cercarlo col lanternino: così è quando si parla di progressione in carriera dei magistrati, così è anche quando si espone il vigente sistema della responsabilità disciplinare dei magistrati.

Inutile dire, poi, che il dossier non contiene alcun dato come quelli oggetto dell’interrogazione dell’On. Costa.

Eppure, una legge di riforma costituzionale giustificata dall’esigenza di evitare connubi impropri tra PM e giudici avrebbe avuto la necessità fisiologica di sapere cosa decidono i secondi sulle richieste dei primi, soprattutto quando le decisioni impattano sulla libertà e la segretezza delle comunicazioni così come sulla libertà personale dei cittadini.

Al difetto di conoscenza si associa poi il difetto di memoria e sta qui il focus di questo post.

È stato sicuramente utile, tornando al citato dossier, il richiamo del dibattito che animò l’Assemblea costituente allorchè fu discusso l’assetto del Titolo V della Costituzione.

Eppure, ancora una volta, ci sono stati ben più recenti periodi della storia repubblicana la cui osservazione avrebbe offerto al legislatore costituente di oggi elementi di riflessione di notevolissimo interesse per comprendere cosa ne sia stato nel tempo dell’autonomia e dell’indipendenza dei giudici, a quali pressioni e torsioni sia stata sottoposta, se i giudici abbiano saputo resistere, quali responsabilità ne sono derivate, quali effetti di lungo termine si siano consolidati.

Si parla dell’esperienza giudiziaria milanese che fu complessivamente designata come Tangentopoli o Mani pulite.

Nel 2022, in occasione del trentennale dal suo avvio, c’è stata una fioritura di pubblicazioni, rievocazioni e testimonianze di chi ne fu parte attiva.

Si propongono due di queste ultime, reputandole di particolare interesse poiché provenienti da due giudici che presero parte professionalmente a quell’esperienza, sia pure con ben diversa ampiezza di impegno, come si vedrà qui di seguito.

Il primo di essi è Guido Salvini.

La sua testimonianza, riportata integralmente, è in realtà un articolo a sua firma, A trent’anni da Mani pulite, vi spiego cosa accadeva a Milano, pubblicato da Il Dubbio, nell’edizione dell’8 dicembre 2021 e consultabile a questo link.

Ecco il testo integrale dell’articolo (i neretti sono quelli dell’edizione originaria; le sottolineature sono mie):

«Ho appena letto un ampio articolo di Fabrizio Cicchitto nel trentennale di Mani pulite e quindi dell’origine del giustizialismo e, per alcuni, dell’idea di un socialismo per via giudiziaria. L’autore fa un breve accenno al ruolo svolto a Milano dall’ufficio Gip. Anche allora, negli anni ’90, vi prestavo servizio e quindi posso dare un contributo raccontando meglio una storia che pochi conoscono. È solo un aspetto tra i tanti di un fenomeno giudiziario con molte angolazioni, ma non è secondario, vale la pena di ricordarlo e posso narrarlo in prima persona. Cicchitto parla di un unico Gip che accentrò, indebitamente, tutti i filoni di quell’indagine rivolta pressoché all’intero mondo politico e imprenditoriale. Non sbaglia e spiego meglio cosa è successo. L’ufficio Gip in quel momento era un passaggio decisivo perché era chiamato ad accogliere o respingere la richiesta di cattura presentate dal Pool e poi le istanze di scarcerazione o di arresti domiciliari, un meccanismo da cui in pratica dipendeva il funzionamento e lo sviluppo di quell’inchiesta “sistemica”. Era comodo per la Procura avere un unico Gip già sperimentato, per alcuni già “direzionato”, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio Gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo creare “difficoltà” alle indagini o comunque costringere chi le conduceva a confrontarsi con punti di vista diversi. Così il Pool escogitò un semplice ma efficace trucco costituendo, a partire dall’arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un “registro” che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall’essere gestite dal Pool. Il numero con cui iscrivevano qualsiasi novità che riguardasse tangenti in tutti i settori della Pubblica amministrazione era sempre lo stesso, l’865592, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Invece le regole nella sostanza volevano che ad ogni notizia di reato fosse attribuito un numero e ad ogni numero seguisse la competenza di un Gip non individuabile a priori. Ma questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell’unico Gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool. Un paio di anni dopo, nel 1994, vale la pena di ricordarlo, Ghitti divenne consigliere del Csm: un’elezione e un prestigioso incarico propiziati quasi esclusivamente dall’essere stato appunto il “Gip di Mani pulite”. I principi dell’Ufficio furono quindi sovvertiti radicalmente e non si trattava di regole puramente organizzative o statistiche ma che dovevano presiedere al principio del giudice naturale e cioè che il giudice fosse del tutto indipendente e non fosse scelto da altri, soprattutto non dalla Procura. Ci fu anche un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per “sbaglio”. Si trattava di quello relativo ad alcune presunte tangenti, peraltro romane, pagate nella Asst l’Azienda dei Telefoni, una storia che nulla aveva a che fare ovviamente con il Trivulzio. Ma portava scritto sulla copertina quel famoso numero. Nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere su alcune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al Gip Ghitti, evitando così che non solo io, questo non è affatto importante, ma che qualsiasi altro Gip dell’ufficio “interferisse” nella macchina di Mani pulite. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell’ufficio Gip. Feci loro notare con una nota documentata la situazione del tutto illegittima che si era creata. Le mie osservazioni furono semplicemente cestinate. Non era il tempo di seguire le strada giusta ma di adeguarsi al mainstream. È andata così. Conservo ancora a distanza di tanti anni una cartellina con quegli atti e la lettera che avevo inviato al capo Ufficio. Del tutto inutile. L’ufficio Gip si inchinò e fece una triste figura».

La seconda testimonianza è quella di Italo Ghitti, collega di Salvini e più volte citato nell’articolo appena trascritto.

Fu intervistato nel 2002 dal cronista Luigi Ferrarella ed accettò di rievocare la stagione di Mani Pulite, il ruolo che vi ebbe e i suoi rapporti con il pool dei PM della Procura milanese (L. Ferrarella, Arresti necessari per impedire i depistaggi, Il Corriere della Sera, 16 febbraio 2002, a questo link).

Segue anche in questo caso il testo integrale dell’intervista (i neretti sono di Ferrarella):

Italo Ghitti, come giudice delle indagini preliminari di Mani pulite dal 1992 al 1994 (quando lasciò e fu eletto al Csm) era lei ad avere le chiavi del carcere di Tangentopoli: ne ha mai abusato?

«Dico di no».

Mai un dubbio?

«Credo di aver mantenuto la paura di sbagliare. Anche se posso aver commesso errori».

Ne dica almeno uno.

«Ho sempre avuto l’idea di salvaguardare il processo: forse oggi non lo rifarei più».

In che senso?

«Faccio un esempio: ho negato almeno 90 arresti chiesti dai pm. Ma, salvo pochi casi, non lo si è mai saputo: forse oggi diffonderei io la notizia».

Perché?
«Anche per ridimensionare le cavalcate delle valchirie al quarto piano» (quello dei pm, ndr). Ma soprattutto per evitare l’accusa d’essere giudice appiattito sui pm».

Alt: non fu suo il bigliettino che al pm Di Pietro spiegava come riformulare l’accusa a un indagato? Ancora oggi, i fautori della separazione delle carriere tra pm e giudici vivono di rendita su questo episodio.

«In quel bigliettino io esponevo al pm le ragioni giuridiche per cui non gli davo un arresto (il manager Maddaloni, ndr)».

Per questo si scrivono le ordinanze formali di rigetto, non i bigliettini.

«Non lo feci perché, nelle more, mi arrivò una lettera di Di Pietro con scritto “ecco perché Maddaloni deve andare dentro”, e allegato un anonimo. Non sapevo più che farne: me lo mangiavo? Se avessi fatto l’ordinanza formale di rigetto, avrei dovuto depositare agli atti anche quell’anonimo».

Forse avrebbe dovuto. Non lo fece per tutelare il pm?

«No, per salvaguardare il processo. Era il 4 gennaio 1994, primo giorno in cui Cusani sarebbe comparso da libero in tribunale: immagina cosa sarebbe accaduto?».

Cosa risponde a chi le ricorda i dc Adamoli, Generoso o Darida, arrestati, assolti e risarciti per «ingiusta detenzione»?

«Che il problema sta tutto nella differenza tra indizi e prove. Per arrestare ci vogliono i gravi indizi: e vengono dall’accusa, senza contradditorio con la difesa fino all’udienza di convalida. Per condannare ci vogliono prove. E non sempre i gravi indizi sono sviluppati in prove: in uno dei processi che cita, neppure fu convocato il teste d’accusa».

Non c’erano soluzioni alternative alla cattura?

«No. Gli arresti avvenivano soprattutto all’inizio di ogni nuova indagine, quando massimo era il pericolo di inquinamento delle prove, che cessava o si attenuava solo dopo le ammissioni dell’indagato. Un pericolo che ho verificato più di una volta, di fronte a patti tra indagati per ridimensionare responsabilità o addossarle ad altri».

Tipo?
«Inchiesta Aem: ci fu un accordo tra amministratori per scaricare su un solo indagato, Lizzeri, tutte le responsabilità dei soldi alla Dc, che invece erano per lo più di un altro, Prada».

Questo resta il vero dubbio su Mani pulite: e cioè che i vostri indagati, specie nelle grandi aziende, attraverso le loro politiche difensive possano avervi di volta in volta saziato con porzioni di verità per proteggere il resto. O per combattere, tramite voi, guerre per bande.

«Guerre per bande, non so. Da parte mia vi era la certezza che gli imprenditori non dicessero tutto e fossero loro a scegliere il campo nel quale ammettere responsabilità. D’altro canto, li interrogavamo su fatti specifici e senza disporre di altri elementi, non si poteva fare diversamente. Per le grandi imprese che scelsero di cooperare, aggiungo che vi fu non solo la sensazione, ma persino la certezza che avessero fatto una specifica scelta dei terreni da offrire agli inquirenti: basta leggere l’interrogatorio nel febbraio ’94 di Mosconi (il top manager Fiat che raccontò di riunioni a Vaduz per distruggere carte bancarie, ndr)».

Potevate smarcarvi?

«Io come gip non facevo indagini, ma avvertii più di una volta Di Pietro che probabilmente bisognava compiere verifiche ulteriori rispetto alle ammissioni degli indagati».

Un caso?

«Lo stesso Mario Chiesa, visto che l’ammontare dei contratti appariva ben superiore a quello per il quale venivano ammesse tangenti. O il caso Pacini Battaglia: prospettai a Di Pietro l’opportunità di verificare direttamente la documentazione proveniente dalla sua banca».

I pm rispondono: il mulino delle confessioni lavorava a pieno regime, può essere sfuggito qualcosa.

«In realtà si sarebbe dovuto sviluppare un lavoro investigativo diverso da quello praticato, cercare elementi oggettivi di riscontro che prescindessero o avvalorassero le pur molteplici ammissioni».

E perché non fu fatto?

«Uno degli elementi più nocivi per il consolidarsi della prassi di fermarsi alle ammissioni venne dalla Cassazione, che proprio in quegli anni affermò il valore della “convergenza del molteplice”, solo più tardi abbandonato».

Via libera.

«Ma questo appiattirsi ha comportato una oggettiva incapacità di adeguare il metodo di indagine ai fatti di corruzione che emergevano. Incapacità divenuta palese di fronte ai cosiddetti “uomini della Siberia”».

Allora lei, a chi vi accusa di non aver incalzato anche il Pci-Pds, non risponde con la medesima tesi dei pm del pool, secondo i quali la differenza con gli altri partiti l’avrebbero fatta la minore voracità dell’apparato «rosso», la rocciosa fibra degli indagati, e l’amnistia del 1989.

«No, la penso diversamente. Posso dire che non c’è stata una scelta di tenere fuori dalle indagini un qualche partito politico. Ma dico anche che c’è stata l’incapacità di adeguare il metodo delle ammissioni, che non avrebbe mai potuto funzionare con gli “uomini della Siberia”».

La storia di Mani pulite avrebbe potuto essere diversa?

«La storia di Mani pulite non ha esaurito e non esaurisce la storia: qualcuno si sarà anche potuto salvare da accuse di corruzione, ma magari ha dovuto lasciare la sede di partito, vendere il giornale, chiudere l’azienda… E di fatto, il tempo ha evidenziato come, al di là dei fatti penalmente rilevanti, vi fossero altre realtà che adottavano praticamente lo stesso metodo dei partiti più coinvolti».

Chi vi osannava, oggi vi crocifigge: quando si è rotto l’incantesimo?

«Per me la fine del consenso a Mani pulite ha due date precise. La prima: 3 settembre 1993, arresto del giudice Diego Curtò, la gente comincia a pensare che la corruzione non è solo tra i partiti ma può esistere persino tra i magistrati. La seconda: 4 ottobre 1993, richiesta di archiviazione per il tesoriere pds (lo scomparso Marcello Stefanini, ndr), la gente comincia a pensare che allora non c’è imparzialità».

A torto o a ragione?

«Non lo so dire. Ho già esposto la mia idea».

Lei, però, è stato il primo ad abbandonare la scialuppa di Mani pulite.

«Ricordo anche l’ora in cui decisi di terminare il lavoro, cercando soluzioni alternative (la candidatura al Csm, ndr): le 15.57 dell’8 marzo 1993».

Fu il giorno in cui Dell’Utri, avendo appreso da una «fuga di notizie» del Tg5 che per lui il pool aveva chiesto l’arresto, si presentò davanti al giudice competente. Lei che c’entra?

«Mi resi conto che non riponevo più fiducia nella correttezza di alcuni pm, perché in quella circostanza ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pubblici ministeri».

Cosa o chi glielo fece ritenere?

«No, basta. Su questo non voglio dire di più»”.

Si è appena letto il resoconto di un segmento centrale ed essenziale di Mani Pulite.

Lo hanno descritto due protagonisti che operarono come giudici e ci hanno raccontato, sia pure con diversità di accenti e di giustificazioni, una storia di centralizzazione del controllo giurisdizionale sulla più importante inchiesta italiana dei primi anni Novanta.

Centralizzazione, dice Salvini, che fu fortemente voluta dai PM del pool cui era gradito confrontarsi con un GIP unico e già “sperimentato” e per nulla ostacolata da chi aveva il potere ed il dovere di intervenire per correggerla ma non lo fece.

Fatti storici, si dirà, che nulla hanno da dire sulla ben diversa realtà contemporanea.

Sarà ma, se così fosse, non si comprenderebbe come mai il direttivo della Camera penale di Milano alla fine di marzo 2024 abbia indirizzato una lettera aperta al Procuratore della Repubblica di quella città, denunciando prassi assai simili – e tra queste il fascicolo contenitore – a quelle che trent’anni prima resero possibile che un solo giudice trattasse le migliaia di richieste dei PM del pool (si rinvia per un nostro approfondimento a questo link).

È tempo di concludere.

Il senso di questo post è che gli atti legislativi, dai più semplici ai più complessi, devono nutrirsi di conoscenza e di memoria perché solo se dispongono di queste due virtù possono essere funzionali ai loro scopi e chiari e comprensibili per i cittadini.

Se lungo il suo percorso la proposta governativa sulla separazione delle carriere fosse stata alimentata da dati come quelli portati alla luce dall’interrogazione dell’On. Costa e dalla memoria delle tante prassi disinvolte che, sperimentate qualche decennio fa, hanno, a quanto pare, lasciato robuste tracce nell’attualità, oggi, probabilmente, chi si oppone alla riforma avrebbe meno argomenti per sostenere la sua posizione e chi invece la sostiene sarebbe compreso con maggiore facilità.

3 commenti

  1. Io ho la risposta di Nordio a Costa: è impressionante l’appiattimento del GIP al P.M…..

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