Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 33693/2024, udienza del 28 giugno 2024, ha analizzato con accuratezza gli attuali contorni normativi e giurisprudenziali dei permessi-premio ai detenuti ostativi e sottolineato l’imprescindibile dovere di valorizzazione del percorso rieducativo seguito da costoro.
Con la sentenza n. 253 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui esso non prevedeva che, alle persone detenute per i delitti di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, potessero essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter Ord. pen., allorché fossero stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; e, in via consequenziale, nella parte in cui non prevedeva che alle persone detenute per i delitti ivi contemplati, ma diversi da quelli sopra indicati, potessero essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter Ord. pen. allorché fossero stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
A seguito di tale intervento, quindi, la situazione della persona detenuta per reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, Ord. pen., che non avesse intrapreso un percorso di collaborazione, doveva ritenersi oggetto – in tema di permesso premio – di una presunzione relativa di perdurante pericolosità, vincibile soltanto con l’acquisizione di elementi capaci di escludere tanto l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, quanto il pericolo che questi legami potessero essere riannodati.
La giurisprudenza di legittimità aveva, inoltre, affermato l’illegittimità della decisione che avesse dichiarato l’inammissibilità della richiesta di permesso premio da parte di tale categoria di persone detenute per difetto della specifica allegazione di elementi di prova dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo del loro ripristino, essendo a tal fine sufficiente l’allegazione di elementi fattuali (quali, ad esempio, l’assenza di procedimenti posteriori alla carcerazione, il mancato sequestro di missive o la partecipazione fattiva all’opera rieducativa) che, anche solo in chiave logica, fossero idonei a contrastare la presunzione di perdurante pericolosità sancita dalla legge, potendo, eventualmente, il giudice completare l’istruttoria anche d’ufficio (v. Sez. 1, n. 33743 del 14/07/2021, Rv. 281764 – 01). Ciò anche tenuto conto del passaggio della sentenza n. 253 del 2019 in cui la Corte costituzionale aveva chiarito che l’istante ha l’onere di indicare la «prospettazione di massima» delle circostanze suffraganti la sua richiesta, spettando poi al Tribunale la decisione finale, alla stregua dell’esame della documentazione e degli atti.
Dopo la modifica dell’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord. pen. ad opera del dl. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199, il permesso premio può ora essere concesso, anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter, ai detenuti e agli internati per delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, per i delitti di cui agli artt. 416-bis e 416-ter cod. pen., per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, per i delitti di cui all’art. 12, commi 1 e 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, e per i delitti di cui all’art. 291-quater, d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, e all’art. 74, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, purché gli stessi dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento e alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile. Al fine della concessione dei benefici, il giudice accerta, altresì, la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa.
Rispetto al quadro normativo e giurisprudenziale delineatosi successivamente alla richiamata pronuncia della Corte costituzionale, dunque, i requisiti per l’accesso al permesso premio si sono ulteriormente arricchiti nel senso che è ora necessario l’avvenuto adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, salvo che l’interessato dimostri l’assoluta impossibilità di tale adempimento.
Viceversa, il legislatore non ritiene necessaria «la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa», la cui esistenza il giudice è, comunque, chiamato ad accertare e che, dunque, può comunque assumere rilievo a fini decisori.
Su un piano differente da quello dei requisiti per l’accesso al beneficio si colloca, poi, il giudizio sulla presunzione relativa di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ovvero di pericolo di un loro ripristino; presunzione che il legislatore configura a partire dalla mancata collaborazione con la giustizia del detenuto.
In tal caso, gli elementi valutabili ai fini dell’eventuale superamento della presunzione, che devono essere specificamente allegati dall’interessato, sono costituiti dalle «circostanze personali e ambientali», dalle «ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione», dalla «revisione critica della condotta criminosa» e da «ogni altra informazione disponibile».
Quest’ultima clausola, peraltro, consente di attribuire rilevanza anche a ulteriori indicatori quali – oltre alle ricordate «iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa» – la «regolare condotta carceraria», la «partecipazione del detenuto al percorso rieducativo» e la «dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza»; indicatori che, tuttavia, per espressa previsione normativa, non possono consentire, da soli, di superare la presunzione in parola, secondo quanto si evince dal dato testuale, che evidenzia la necessità di allegare, rispetto ad essi, elementi «diversi e ulteriori».
Dunque, ancora una volta, il legislatore ha confermato l’indicazione, già enunciata dalla giurisprudenza di legittimità, per cui il richiedente deve semplicemente allegare gli elementi di prova in grado di dimostrare l’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata o del pericolo di un loro ripristino, ferma restando la possibilità (rectius la doverosità) degli eventuali approfondimenti istruttori da parte dello stesso giudice nell’esercizio dei poteri officiosi conferitigli, in via generale, dall’art. 678 cod. proc. pen. (in argomento v. Sez. 1, n. 48719 del 15/10/2019, Rv. 277793 – 01, secondo cui, nel procedimento di sorveglianza, non sussiste un onere probatorio a carico del soggetto che invochi un provvedimento favorevole, ma soltanto un onere di allegazione, consistente nella prospettazione e indicazione dei fatti sui quali la richiesta si fonda, incombendo poi sul giudice il compito di procedere, anche d’ufficio, ai relativi accertamenti).
E nulla disponendo la norma novellata in ordine ai criteri del ragionamento probatorio e dei meccanismi di natura inferenziale che ne stanno alla base, deve ritenersi, ancora una volta, che gli elementi valutabili possano anche essere di natura logica, soprattutto per quanto concerne la dimostrazione di fatti negativi, come l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata (così la già citata Sez. 1, n. 33743 del 14/07/2021, Rv. 281764 – 01), dimostrabili soltanto attraverso un ragionamento controfattuale.
Consegue alla richiamata ricostruzione normativa che con l’entrata in vigore della nuova disciplina, le condizioni di accesso al permesso premio sono divenute più gravose rispetto a quelle sussistenti dopo l’intervento della Corte costituzionale, essendosi, da un lato, prevista la necessità di ulteriori presupposti di ammissibilità della domanda (ovvero «l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento e alleghino elementi specifici») ed essendo stato codificato, dall’altro lato, un criterio misto per il giudizio sulla presunzione relativa conseguente alla mancata collaborazione; criterio che, accanto alla individuazione di taluni indicatori valutabili, contempla anche la regola legale della insufficienza di alcuni di essi (ovvero la «regolare condotta carceraria», la «partecipazione del detenuto al percorso rieducativo» e la «mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza»).
A fronte della introduzione di una disciplina, comunque, più rigorosa per l’accesso al beneficio de quo, la cui immediata applicabilità alle procedure pendenti costituisce piana applicazione del principio tempus regit actum più volte affermata dalla giurisprudenza (ex plurimis, Sez. 1, n. 38278 del 20/04/2023, Rv. 285203 – 01), deve ribadirsi, sulla scorta di un consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale, ricordato dalla stessa pronuncia rescindente, che «non è tuttavia consentito al legislatore disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio» (così Corte costituzionale, sentenza n. 32 del 2020). In una ipotesi siffatta, invero, l’intervento normativo si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e del finalismo rieducativo della pena (artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.), poiché «negare, a chi si trovi nella posizione di quel condannato, la concessione del beneficio, equivarrebbe a disconoscere la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio (sentenza n. 253 del 2019), quale strumento idoneo a consentirne un suo iniziale reinserimento nella società, in vista dell’eventuale concessione di misure alternative alla detenzione, in assenza di gravi comportamenti che dimostrino la non meritevolezza del beneficio nel caso concreto (sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, sentenze n. 137 del 1999 e n. 445 del 1997)» (così, ancora, Corte costituzionale, sentenza n. 32 del 2020).
