Inadempimento professionale di avvocati e commercialisti: ravvisabile allorché la prestazione svolta risulti ex ante inadeguata al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente (di Vincenzo Giglio)

Cassazione civile, Sez. 1^, ordinanza n. 17002/2024, camera di consiglio del 7 maggio 2024, pubblicazione del 20 giugno 2024, si è pronunciata su un interessante caso di inadempimento professionale imputato ad un avvocato al quale era stato chiesto di studiare e valutare le soluzioni concretamente praticabili per ovviare alla crisi finanziaria di una società e consentirle di accedere alla più opportuna procedura concorsuale.

Vicenda giudiziaria e ricorso per cassazione

G.L. ha chiesto di essere ammesso allo stato passivo del Fallimento LF SRL per il credito al compenso asseritamente maturato, pari ad €. 300.000,00, in ragione delle prestazioni professionali svolte dallo stesso in favore della società poi fallita in esecuzione dell’incarico ricevuto da quest’ultima avente ad oggetto lo studio e la valutazione delle possibili soluzioni alla crisi finanziaria della società e la predisposizione di tutta la documentazione che la normativa fallimentare prevede per accedere alla procedura concorsuale a tal fine individuata. Il giudice delegato, con decreto del 2/2/2016, ha rigettato la domanda di ammissione per “inadempimento contrattuale tale da elidere completamente il diritto al compenso”.

 G.L. ha, quindi, proposto opposizione allo stato passivo che il tribunale, con il decreto in epigrafe, ha rigettato.

Il tribunale, in particolare, dopo aver rilevato, in fatto, che:

– L.F. SRL, con scrittura privata del 9/1/2013, ha conferito all’opponente, unitamente all’avv. A.C., l’incarico di svolgere “tutta l’attività necessaria allo studio e alla valutazione delle possibili soluzioni alla crisi finanziaria della società e conseguentemente la predisposizione di tutta la documentazione che la vigente normativa fallimentare prevede al fine di addivenire ad un accordo di ristrutturazione dei debiti ovvero la stesura del ricorso ai sensi degli artt. 160 e ss. L.F. e di tutti gli altri adempimenti connessi al fine di accedere alla idonea procedura concorsuale individuata”, pattuendo, a fronte della prestazione professionale richiesta, il corrispettivo di €. 300.000,00, da suddividere in parti uguali tra i due professionisti;

– tale incarico, “estremamente ampio, prevedeva che l’Avv. G.L. di concerto con l’Avvocato A.C., individuassero e suggerissero alla società cliente lo strumento della vigente normativa fallimentare più idoneo a risolvere i suoi problemi eseguendo tutto quanto necessario dal punto di vista documentale al fine di accedere alla procedura concorsuale individuata”, predisponendo “un piano finalizzato alla risoluzione della propria crisi finanziaria”;

– “il compito del professionista era … quello di scegliere la procedura concorsuale idonea e di procedere alla stesura del ricorso e di tutti gli altri adempimenti connessi al fine di accedere alla procedura prescelta”;

– G.L., in esecuzione dell’incarico, orientava inizialmente il proprio lavoro “alla ricerca di un accordo di ristrutturazione dei debiti”, esaminando, quindi, i contratti sottoscritti, gli impegni e le obbligazioni della società;

– in seguito, verificata la non fattibilità di tale ipotesi, G.L., di concerto con A.C., ha provveduto ad analizzare, in funzione del deposito di una domanda di concordato in bianco, “le componenti patrimoniali attive e passive allo scopo di determinare con esattezza fonti ed impegni allo scopo di verificare la sostenibilità di un piano industriale pluriennale”;

– in data 10/5/2013, è stato consegnato e depositato un “concordato pieno” che, però, non è andato a buon fine;

– il tribunale, infatti, con decreto del 19.27/9/2013, ha riscontrato “la non utilità e la potenziale dannosità per la massa” del piano in continuità predisposto dal professionista; ha ritenuto che, in ragione delle “gravissime lacune del piano” di concordato in continuità predisposto dall’opponente, l’incarico conferito allo stesso sia rimasto inadempiuto.

 La relazione predisposta dal professionista, infatti, ha proseguito il decreto, non ha in alcun modo assolto alle fondamentali funzioni cui, a norma dell’art. 161, comma 3°, L.F., è deputata: – intanto, non era stata operata “l’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività di impresa nonché delle stesse risorse finanziarie delle relative modalità di copertura”;

– inoltre, “le informazioni ed i dati appaiono assumere il carattere di mero intento più che una reale ed effettiva situazione economico-patrimoniale strutturata su dati reali”, al punto che “il miglior soddisfacimento dei creditori non era in alcun modo ricavabile”;

– il piano, infine, prevedeva un termine di esecuzione di dieci anni, e cioè un termine pacificamente ritenuto incompatibile con l’interesse dei creditori.

Il giudizio estremamente severo con il quale il tribunale si è espresso, lì dove ha ritenuto che “il piano non fosse idoneo a soddisfare i requisiti minimi per essere considerato tale e per essere posto a base di una proposta di ristrutturazione dei debiti” in quanto “carente sotto ogni profilo logico, giuridico ed economico”, costituisce, ha proseguito il decreto, la “dimostrazione piena dell’inadempimento del professionista che non ha assolto ai propri compiti di verifica e non ha predisposto una relazione idonea ad offrire ai creditori ed al Tribunale informazioni credibili in assoluta inosservanza del disposto di cui all’art. 186 bis L.F.”.

In definitiva, ha concluso il tribunale, l’attività dell’opponente “non ha in alcun modo permesso l’ammissione del debitore al concordato”, che è conseguita, piuttosto, solo quando, a seguito della revoca dell’incarico da parte della società committente e la nomina da parte della stessa di altri professionisti, questi ultimi, svolgendo ex novo tutta l’attività di studio, di analisi dei debiti, ecc., hanno predisposto una proposta di concordato meramente liquidatorio con una previsione di soddisfacimento dei crediti nel termine di tre anni.

Il tribunale, pertanto, ha ritenuto che l’opponente aveva svolto la sua prestazione “in maniera non conforme al modello legale, con evidente negligenza, predisponendo un piano in spregio alle più basilari indicazioni della legge fallimentare in ordine al concordato con continuità, alla luce del quale la soddisfazione dei creditori non sarebbe mai potuta avvenire in tempi ragionevolmente contenuti”, e che, a fronte di tale inadempimento, il credito vantato dal professionista al conseguente compenso doveva essere, per l’effetto, escluso dallo stato passivo della società committente.

G.L., con ricorso notificato il 27/12/2017, ha chiesto, per otto motivi, la cassazione del decreto, comunicato, come da relazione in atti, in data 27/11/2017.

Il Fallimento ha resistito con controricorso e depositato memoria.

Decisione della Corte di cassazione

La Suprema Corte ha di recente affermato (Cass. n. 35489 del 2023) che:

– l’eccezione d’inadempimento non è subordinata alla presenza degli stessi presupposti richiesti per la risoluzione del contratto in quanto la gravità (e, a fortiori, la dannosità) dell’inadempimento è un requisito specificamente previsto dalla legge per la risoluzione dello stesso (e per l’azione di risarcimento dei danni conseguentemente arrecati) e trova ragione nella radicale definitività di tale rimedio, e cioè lo scioglimento del rapporto contrattuale, mentre l’eccezione d’inadempimento, che può essere dedotta anche in caso di adempimento solo inesatto, si limita a consentire alla parte che la solleva il legittimo rifiuto di adempiere in favore dell’altro contraente che già non ha adempiuto (o ha adempiuto inesattamente) la propria obbligazione (cfr. Cass. n. 12719 del 2021);

– il curatore del fallimento della società committente è legittimato a sollevare, nel giudizio di verifica conseguente alla domanda di ammissione del credito vantato dal professionista al compenso asseritamente maturato, l’eccezione d’inadempimento, secondo i canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale, con il (solo) onere di contestare, in relazione alle circostanze del caso, la non corretta (e cioè negligente) esecuzione, ad opera del contraente in bonis, della prestazione o l’incompleto adempimento da parte dello stesso, restando, per contro, a carico di quest’ultimo (al di fuori di una obbligazione di risultato, pari al successo pieno della procedura) l’onere di dimostrare l’esattezza del suo adempimento per la rispondenza della sua condotta al modello professionale e deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è intervenuto con la propria opera ovvero l’imputazione a fattori esogeni, imprevisti e imprevedibili, dell’evoluzione negativa della procedura, culminata nella sua cessazione (anticipata o non approvata giudizialmente) e nel conseguente fallimento (Cass. SU n. 42093 del 2021; Cass. n. 35489 del 2023);

– il credito del professionista incaricato dal debitore di predisporre gli atti per accedere alla procedura di concordato preventivo, può essere, di conseguenza, escluso dal concorso nel successivo e consecutivo fallimento, ove, sulla base delle prove raccolte il giudizio, si accerti, com’è accaduto nel caso in esame, l’inadempimento dell’istante alle obbligazioni assunte (Cass. SU n. 42093 del 2021; conf., Cass. n. 36319 del 2022).

Non può dubitarsi, in effetti, che tanto il commercialista, quanto l’avvocato, dopo aver accettato l’incarico di preparare e patrocinare una domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, hanno l’obbligo di eseguire la corrispondente prestazione professionale con la diligenza richiesta, a norma dell’art. 1176, comma 2°, c.c., dalla natura dell’incarico assunto, vale a dire, tra l’altro, con la predisposizione di una proposta di concordato che, dovendo essere funzionale al conseguimento del risultato perseguito dal debitore, e cioè l’ammissione al concordato preventivo, l’approvazione della proposta da parte dei creditori e l’omologazione della stessa da parte del tribunale, sia, quanto meno, rispettosa, nella forma processuale e nel contenuto negoziale, delle norme giuridiche inderogabili a tal fine previste dalla legge (cfr. Cass. n. 11522 del 2020): a partire da quella che impone al debitore proponente (oltre che di indicare analiticamente le modalità e i tempi di adempimento della proposta e le utilità specificamente individuate ed economicamente valutabili assicurate a ciascun creditore: art. 161, comma 2, lett. e), L.F.) di fornire ai creditori l’adeguata conoscenza di tutti gli elementi necessari per consentire agli stessi di decidere con piena cognizione la posizione da assumere nei confronti della proposta di concordato, come, in caso di continuità aziendale, l’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano, delle risorse finanziarie a tal fine necessarie e delle relative modalità di copertura (art. 186 bis, comma 2°, lett. a, L.F.).

Ne consegue, evidentemente, che l’indicazione nella domanda o nel piano di dati patrimoniali incompleti o parziali, che potrebbero indurre i creditori a ritenere l’inesistenza di alternative e migliori possibilità di realizzo in realtà sussistenti, dà luogo ad una violazione dei presupposti giuridici della procedura e può, di conseguenza, comportare, di volta in volta, la mancata ammissione, la revoca dell’ammissione ovvero il rigetto dell’omologazione (cfr. Cass. n. 17106 del 2023, la quale, infatti, ha, in sostanza, ritenuto che la proposta di concordato deve contenere, tra l’altro, le necessarie valutazioni in ordine alle azioni risarcitorie o recuperatorie eventualmente esperibili, risultando le stesse necessarie, al pari di quelle proponibili solo in caso di fallimento, ai fini della corretta valutazione del possibile attivo ricavabile in sede di liquidazione rispetto all’alternativa fallimentare e, quindi, dell’adeguatezza delle informazioni fornite ai creditori onde consentire agli stessi di decidere quale posizione assumere nei confronti della proposta concordataria).

È vero, dunque, che le obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l’incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato ma non a conseguirlo, e che l’inadempimento del professionista non può essere, pertanto, desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, dovendo essere, piuttosto, valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale ed, in particolare, al dovere di diligenza professionale fissato dall’art. 1176, comma 2°, c.c..

Non è men vero, tuttavia, che la scelta di una determinata strategia processuale può integrare l’inadempimento del professionista verso il cliente quando, in relazione alla natura e alle caratteristiche del procedimento e all’interesse del cliente ad affrontarla con i relativi oneri, il giudice abbia, sia pur ex ante (e non ex post, in relazione all’esito del giudizio), accertato (com’è accaduto nel caso in esame) l’inadeguatezza della prestazione svolta rispetto al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente (cfr. Cass. n. 30169 del 2018; Cass. n. 11906 del 2016). 

Il diritto del professionista al compenso, infatti, se non implica il raggiungimento del risultato programmato con il conferimento del relativo incarico, richiede che il giudice di merito accerti, in fatto, la concreta ed effettiva idoneità funzionale delle prestazioni svolte a conseguire tale risultato, essendo, in effetti, evidente che, in difetto, pur in mancanza di una responsabilità contrattuale del professionista a tal fine incaricato, non potrebbe neppure parlarsi di atto di adempimento degli obblighi contrattualmente assunti dallo stesso (cfr. Cass. n. 36071 del 2022). 

Il mancato o inesatto adempimento da parte del professionista all’obbligo di dare esecuzione all’incarico ricevuto con la diligenza necessaria in relazione alla natura dell’opera affidatagli e a tutte le circostanze del caso, ove sia stato idoneo ad incidere sugli interessi del cliente – com’è accaduto nel caso in esame, nel quale la società committente non ha conseguito il risultato evidentemente perseguito con il conferimento del relativo incarico, e cioè l’omologazione del concordato preventivo proposto e, prima ancora, l’ammissione a tale procedura (rimanendo, per contro, irrilevante, non essendo di certo questo l’interesse perseguito dalla committente con il contratto di prestazione d’opera, che la prestazione del professionista abbia consentito, con la proposizione della domanda, il conseguimento del risultato di rendere inopponibili alla massa alcune ipoteche iscritte contro la società fallita) – consente a quest’ultimo (ovvero, in caso di fallimento, al suo curatore) di sollevare, ai sensi dell’art. 1460 c.c., l’eccezione d’inadempimento e, quindi, di rifiutare legittimamente il pagamento (o l’ammissione al passivo del credito al) relativo compenso, non potendosi certo ritenere contrario a buona fede l’esercizio del potere di autotutela ove sia stata pregiudicata (con la presentazione di una domanda di ammissione al concordato preventivo che, in quanto priva di informazioni rilevanti per i creditori, era destinata a non essere omologata o, addirittura, a non essere accolta neppure con l’ammissione dell’istante alla procedura) la chance di vittoria in giudizio (cfr. Cass. n. 11304 del 2012; Cass. n. 25894 del 2016).

L’errore professionale addebitabile al professionista, ove abbia determinato la definitiva perdita del diritto del cliente (come, ad es., quello alla regolazione concordataria della propria crisi d’impresa), rende, pertanto, del tutto inutile l’attività difensiva in precedenza svolta (Cass. n. 35489 del 2023), come quella (asseritamente) rivolta allo studio di fattibilità di un accordo di ristrutturazione, dovendosi ritenere, a fronte di una prestazione oggettivamente inidonea (com’è rimasto incontestato) al conseguimento dell’interesse della società committente, la sua obbligazione contrattuale totalmente inadempiuta ed improduttiva di effetti nei confronti di quest’ultima (e del relativo fallimento), con la conseguenza che, in tal caso, il professionista non vanta alcun diritto (suscettibile di essere ammesso al passivo) al compenso, anche se l’adozione dei mezzi difensivi rivelatisi pregiudizievoli al cliente sia stata, in ipotesi, sollecitata dal cliente stesso, poiché costituisce compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell’attività professionale (Cass. n. 10289 del 2015).

Il commercialista, al quale sia affidato un incarico di consulenza ha, infatti, l’obbligo, a norma dell’art. 1176, comma 2°, c.c., al pari dell’avvocato incaricato di intraprendere una determinata iniziativa processuale, di:

– fornire al cliente tutte le informazioni che siano di sua utilità e, quindi, di prospettare allo stesso, quale che sia l’oggetto specifico della prestazione, tanto le soluzioni praticabili, tanto le soluzioni che (ad es., non essendo rispettose delle norme giuridiche che presiedono l’attività da compiere) non sono, evidentemente, suscettibili di essere percorse, così da porlo nelle condizioni di scegliere secondo il migliore interesse (cfr. Cass. n. 14387 del 2019);

– fornire al cliente le necessarie informazioni per consentirgli di valutare i rischi insiti nell’iniziativa giudiziale programmata (cfr. Cass. n. 8494 del 2020);

sollecitare il cliente a consegnargli la documentazione necessaria all’espletamento dell’incarico (cfr. Cass. n. 15271 del 2023).

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