Il difensore penale e il suo rapporto con la verità processuale (di Vincenzo Giglio)

A cosa deve tendere l’impegno del difensore penale, quali sono i risultati che può o deve perseguire?

Che relazioni deve avere con le altre parti del processo e con il giudice?

Soprattutto, qual è il suo scopo essenziale? È uguale o diverso da quello degli altri attori del giudizio?

Si inizia così, con questa sequenza di domande, una piccola riflessione sul senso della difesa penale.

Si potrebbe limitarla al richiamo dei sacri principi costituzionali e convenzionali e della giurisprudenza interna, costituzionale e ordinaria, e sovranazionale.

Si disporrebbe così di un quadro impeccabile per razionalità, equilibrio tra gli interessi in campo, valorizzazione dei diritti individuabili e dei corrispondenti doveri delle autorità pubbliche.

Sarebbe tuttavia nient’altro che un falso: di qualità, certo, ma pur sempre un falso.

Perché poi, appena lo si mettesse a confronto con la realtà, quella delle aule giudiziarie, delle prassi correnti, delle decisioni di merito e di legittimità, della narrazione mediatica della giustizia, dell’atteggiamento sociale verso la difesa degli imputati, soprattutto se accusati di reati fortemente stigmatizzanti, ci si accorgerebbe che quel quadro rappresenta scene idilliache e paesaggi bucolici che non esistono più, se mai sono esistiti.

Meglio allora tenersi distanti da un empireo tanto seducente quanto ingannevole e fare i conti con ciò che normalmente avviene.

Nell’impossibilità di una trattazione sistematica, si punta su una singola relazione, quella tra il difensore e la verità, nella sua particolare declinazione di verità processuale.

Premesso che su quest’ultimo concetto si registra un dibattito assai vivace e ben lontano dalla definitività, ci si può per adesso accontentare di attribuire alla verità processuale la caratteristica della relatività (cioè, il suo valore limitato al giudizio in cui è espressa), di associarle come oggetto non fatti in senso materialistico ma enunciati su tali fatti, ivi compreso quello sulla loro effettiva esistenza, e di ricordare che ogni parte costruisce e poi propone una sua narrazione al giudice cui spetta (spetterebbe) di ascoltarla e accoglierla o respingerla in funzione della sua persuasività non retorica ma razionale.

Cosa può fare il difensore muovendosi entro queste coordinate?

Serve qualche esemplificazione ed è di grande aiuto “L’accordo sugli atti di indagine in vista del dibattimento“, un interessante studio di Alessandro Pasta, pubblicato il 14 giugno 2024, in Archivio Penale, fascicolo 2/2024, e consultabile a questo link.

Il primo banco di prova, tratto proprio dal lavoro di Pasta, è così riassumibile: un difensore assiste ad una ricognizione personale disposta nel procedimento a carico di un suo assistito ed è consapevole che colui che si sottopone a tale attività non è l’assistito medesimo ma un’altra persona che ha preso il suo posto fraudolentemente.

Occorre sapere che quel difensore venne accusato di favoreggiamento personale per avere taciuto la sostituzione all’autorità procedente. Il caso arrivò fino in Cassazione e il collegio di legittimità – Cass. pen., Sez. 1^, 11 novembre 1980 – avallò la sua responsabilità, affermando che il difensore “deve concorrere a creare le condizioni per l’emanazione di una sentenza giusta” e che “la difesa professionale, come una gloriosa tradizione forense attesta, ha avuto sempre il fine di illuminare la giustizia“.

Seguì un dibattito dottrinale piuttosto acceso tra difensori e critici della decisione ma, come ricorda Pasta, tutti i commentatori, per la cui individuazione si rimanda al suo scritto, concordarono su alcuni punti irrinunciabili: “il legale non è gravato dall’obbligo di coadiuvare, con necessarie e opportune indicazioni, le investigazioni e le ricerche dell’autorità“; egli deve “sentirsi non già “principalmente” ma “esclusivamente” difensore, e come tale agire. In particolare, non deve agire mai in qualità di una sorta di ausiliario o collaboratore del giudice“; è “manifesto che l’adoperarsi per ottenere la sentenza soggettivamente più favorevole per il cliente, sia questi colpevole o innocente, e indipendentemente dalla giustizia del provvedimento, rientra tra gli obiettivi primari sottesi al mandato difensivo“; è “nelle regole del gioco che il difensore possa aiutare, con la sua attività, anche un colpevole a sottrarsi all’accertamento delle sue responsabilità“; richieste, domande e istanze difensive incontrano “il solo limite del “pudore” dell’avvocato e della sua reticenza (variabile da un professionista all’altro) a sbilanciarsi senza prospettive concrete“; così che “l’attività del difensore nel processo penale è sempre finalizzata a far conseguire all’assistito il miglior risultato possibile; solo eventualmente ad accertare i fatti (quando dalla corretta ricostruzione trae beneficio l’accusato)“.

Ancora una puntualizzazione prima di avviarsi alla conclusione, anch’essa ispirata dalla riflessione di Pasta, che ha a che fare col principio forse più sacro ed enfatizzato del manifesto costituzionale del giusto processo: il contraddittorio nella formazione della prova.

È a tutti noto che gli si attribuisce un elevato valore epistemico, vale a dire una grande capacità di arrivare alla migliore verità possibile in un certo processo, con certi imputati, certe imputazioni e certi elementi conoscitivi.

Tutto vero ma, ancora una volta, qual è il ruolo che spetta al difensore penale a fronte di questo metodo giusto per definizione?

Non ho mezzo migliore per rispondere a questa domanda che riportare testualmente due passaggi particolarmente significativi dell’argomentare di Pasta.

Il diritto al contraddittorio nella formazione della prova può essere esercitato per scoprire la menzogna e far emergere la verità oppure per i fini opposti.

Dipende dai casi. Con una certa semplificazione, si potrebbe dire che dipende dalla condizione dell’accusato; se colpevole, è interessato a celare la verità; se innocente, ad accertarla […] Al pari del diritto alla prova, del quale può essere visto come una declinazione, è il mezzo che lo stato riconosce all’innocente per rimediare all’ottica verificazionista del pubblico ministero, il quale, gravato dai compiti che la Costituzione gli affida, è fisiologicamente orientato a ricercare prove a carico e a formulare domande che verificano l’ipotesi dell’accusa.

Non sempre però l’accusa è infondata, le indagini incomplete, la ricerca dell’inquirente parziale. Capita quindi che dai diritti difensivi traggano giovamento gli accusati che innocenti non sono, e che, come il loro difensore, non hanno alcun interesse alla scoperta della verità.

Per evitare questo inconveniente sarebbe provvidenziale una disposizione che riconoscesse i diritti agli accusati innocenti, e li negasse a quelli colpevoli.

Prevederla comporterebbe qualche difficoltà, visto che il processo penale esite proprio perché non si conosce la condizione degli accusati.

Stabilire come il legislatore possa venir a capo del dilemma – riconoscere i diritti a tutti gli accusati, innocenti o colpevoli, oppure negarli a tutti – non è difficile. La soluzione non passa dalle opere di Socrate e dalla maieutica, dalla epistemologia della scienza o dal falsificazionismo di Popper. Si trae dall’architrave del processo penale, la presunzione di non colpevolezza, la quale impone il riconoscimento dei diritti della difesa a chiunque assuma la qualifica di accusato, e anzi, li riconosce esclusivamente a chi ha tale qualifica. Solo se si assicurano diritto alla prova, al contraddittorio, alla partecipazione alla formazione della prova a chi è accusato, si potrà formulare la presunzione che la dichiarazione di colpevolezza sia vera, che nella sentenza di condanna sia stata rappresentata la verità“.

Per Pasta, dunque, il contraddittorio può servire agli accusati ingiustamente per dimostrare la loro innocenza ma può ugualmente servire a coloro che sono stati accusati giustamente per occultare la loro colpevolezza.

Si potrebbe evitare questa deriva? No, non si può, perché i diritti difensivi nascono dalla presunzione di non colpevolezza di cui godono tutti gli accusati in sede penale.

E allora? E allora il successo della campagna simulatoria del colpevole che si avvalga dei diritti difensivi è il prezzo da pagare per la tutela degli innocenti.

Se tutto questo è vero, si può finalmente rispondere alla domanda iniziale.

Il difensore penale ha il solo compito di adoperarsi per ottenere la sentenza più favorevole al suo assistito.

È quindi estraneo al raggiungimento della verità processuale, intesa come verità più prossima al vero assoluto, potendo tale fine coinvolgerlo solo per la sua eventuale strumentalità al suo obiettivo primario del perseguimento del miglior interesse per il suo difeso.

Raggiunta questa approssimazione, il cui unico valore è quello dell’opinione all’interno di un dibattito fatto di molte voci e posizioni, occorrerebbe iniziare una riflessione sulle condotte concrete che è dato cogliere nella prassi come fenomenologia della concezione difensiva appena tratteggiata.

È intenzione di Terzultima Fermata procedere in questa ricognizione e arrivare a definire in tal modo un quadro realistico di quel ciò che normalmente avviene da cui si è partiti.

È possibile che si trovino oro e piombo, talvolta così mescolati da riuscire quasi indistinguibili.

Ne riparleremo e saremo contenti se altri lo faranno insieme a noi.

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