L’ergastolo e il suo giudice (di Vincenzo Giglio)

Anche chi è ignaro delle nozioni penalistiche più basilari sa che l’ergastolo è qualcosa di tremendamente minaccioso.

Lo si pensa come un’entità mostruosa e divorante, capace di fare scempio della sua vittima.

Così ne parlava Aldo Moro, in una sua lezione alla facoltà di Scienze politiche di Roma: “Ci si può domandare se, in termini di crudeltà, non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua“. 

E prima di Moro, fu lo scrittore e drammaturgo russo Anton Čechov a scrivere che “La pena capitale uccide all’istante, mentre l’ergastolo lo fa lentamente. Quale boia è più umano? Quello che uccide in pochi minuti o quello che strappa la vita in tanti anni?“.

Una pena estrema, dunque, che porta con sé l’enigma irrisolto e irrisolvibile del suo rapporto con l’in sé dell’umanità: è umana una pena che, almeno in astratto, toglie ogni speranza a chi la subisce?

Non ci sono risposte pronte all’uso per questa domanda come è dimostrato dal dibattito, sempre più acceso e radicalizzato, tra i sostenitori e gli oppositori del “fine pena mai”.

Comunque sia, qui si vuole piuttosto concentrare l’attenzione su un versante normalmente trascurato in quel dibattito.

Parlo dei giudici, la Corte di assise e la Corte di assise d’appello, ai quali la legge, sotto specie dell’art. 5, cod. proc. pen., attribuisce la competenza a giudicare i reati punibili con l’ergastolo.

Il legislatore ha dunque voluto che la pena senza ritorno e senza speranza sia amministrata da un giudice a prevalente composizione popolare.

Chiara l’idea che giustifica questa soluzione: se la giustizia è amministrata in nome del popolo, è bene che, quando le conseguenze delle decisioni giudiziarie arrivano ai confini più estremi, sia lo stesso popolo ad assumerne la responsabilità, sia pure con la compartecipazione della magistratura togata.

Chiaro anche il più importante corollario di quell’idea: quando sulla testa dell’imputato pende l’ergastolo, il fatto è più importante del rito e il popolo è più vicino al fatto di quanto possa mai essere il giudice professionale, quest’ultimo imbrigliato com’è dalle astrazioni concettuali che respira ininterrottamente fin dagli studi universitari.

Se questa è, verosimilmente, l’architettura che giustifica e conforma la partecipazione diretta del popolo ai giudizi che possono portare all’irrogazione dell’ergastolo, occorre pur dire che la realtà è ben diversa.

Chiunque abbia esperienza di giudizi d’assise sa che i togati sono monopolisti delle norme e il popolo non prova neanche a capire come funzionano.

Se però i togati (il presidente soprattutto perché la gerarchia ha un peso notevole) fanno fino in fondo il loro mestiere, il popolo è messo in grado di interloquire sul fatto.

Questo accade quando il presidente, o il giudice a latere su sua delega, forniscono ai giurati la grammatica e gli strumenti minimi per capire quello che accade davanti a loro occhi.

Bisognerebbe consentirgli l’accesso agli atti del processo, preparargli schede riassuntive, tenere incontri periodici che all’inizio sono solo conoscitivi ma poi, quando il processo arriva alla fine, si trasformano sempre più in precamere di consiglio e infine occorre che la camera di consiglio non sia un monologo tra sbadigli, timori e senso di inadeguatezza di chi non ha capito nulla ma una discussione corale e consapevole.

Questa però non è una prassi universalmente seguita.

Capita infatti che i togati, per una pluralità di ragioni che qui non mette conto elencare, ma di cui fa sicuramente parte l’idea che il fascicolo processuale e la materia prima che lo costituisce gli appartengano per prerogativa di ruolo, non facciano nulla di tutto questo e rivendichino a se stessi il potere decisionale sostanziale e si aspettino che i giudici popolari non oltrepassino il ruolo di comparse.

Accanto a questo primo aspetto, ve ne sono altri che contano molto.

È abbastanza raro che i giurati scelgano posizioni mediane. Nella maggior parte dei casi sono fortemente colpevolisti o innocentisti per impressioni, percezioni epidermiche, correnti emotive.

Una caratteristica però li accomuna abbastanza di frequente. Hanno una forte ritrosia verso le pene alte, quelle che si misurano in tanti anni di galera. Anche i più colpevolisti, quando capiscono che la decisione per cui si sono detti favorevoli equivale a mandare una persona in carcere a lungo, si intimoriscono e chiedono ai togati come si può fare per alleggerire la sanzione, quali attenuanti si possono concedere e, se gli si oppongono le ragioni che impediscono l’ammorbidimento voluto, non di rado arrivano a mettere in dubbio la precedente convinzione.

Si crede tuttavia che questa sensazione di timore verso le pene che sconfinano nell’assoluto sia progressivamente destinata a perdere la sua centralità.

I giudici popolari sono un campione piccolo ma rappresentativo della comunità di cui fanno parte e, se quella comunità vive dentro una stagione in cui prevalgono le paure e i bisogni securitari, esprimeranno quello spirito collettivo e lo faranno credendo che le pene estreme siano le uniche in grado di placare le paure e soddisfare i bisogni.

Fin qui il popolo.

E poi ci sono i togati.

Anch’essi, va da sé, pur con tutto l’armamentario professionale di cui sono attrezzati, sono parte integrante della comunità e risentono dei venti che le soffiano sopra.

Anch’essi possono legittimamente e convintamente credere che l’ergastolo sia opportuno o addirittura indispensabile a fronte di condotte espressive del lato più oscuro dell’umanità.

Ma ogni giudice, al pari di ogni essere umano, è un unicum irripetibile e sono convinto che la pietas è parte di molti di loro.

È tremendo concorrere ad una condanna all’ergastolo, pur quando non vi sono margini per anche solo ipotizzare una pena diversa.

Si rimane svuotati, ci si sente testimoni di un fallimento individuale e collettivo e desolati per averlo dovuto decretare attraverso una pena mostruosa.

Si torna a casa sentendo addosso un peso insopportabile.

L’ergastolo è una maledizione per tutti, questa è la verità.

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