Decreto penale e sostituzione pena detentiva in pecuniaria: necessaria la commisurazione alla situazione patrimoniale dell’imputato (di Riccardo Radi)

La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 23734/2024 ha stabilito che non è abnorme l’ordinanza con la quale il giudice per le indagini preliminari rigetti la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, perché, in mancanza di elementi sufficienti per commisurare la pena alla concreta situazione patrimoniale dell’imputato e per valutare i parametri in base ai quali commisurare la pena pecuniaria richiesta in sostituzione di quella detentiva, il provvedimento non interferisce con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell’azione penale e di strutturazione dell’imputazione.

Fatto

Il G.I.P. presso il Tribunale di Messina ha rigettato la richiesta di decreto penale ai sensi dell’art. 459, comma 1 bis, cod. proc. pen., (come novellato dal d.lgs. 150/2022 in vigore dal 31/12/2022), motivando sulla mancata produzione, da parte del P.M., di documentazione attestante le condizioni economico patrimoniali dell’imputato e del suo nucleo familiare sulla scorta delle quali ” valutare la congruità della pena pecuniaria richiesta dal P.M. così come prescritto dalla novella normativa sopra menzionata” ed ha, pertanto, disposto la restituzione degli atti al P.M.

Avverso il provvedimento di cui sopra ha proposto ricorso il Pubblico Ministero, rilevandone l’abnormità e deducendo, altresì, violazione di legge.

Decisione

Nel provvedimento impugnato il GIP del Tribunale di Messina ha richiamato, anzitutto, la norma di cui all’art. 459 comma 1 bis, cod. proc. pen., come modificato dal D.Lgs. 150/2022, a mente della quale, “Nel caso di irrogazione di una pena pecuniaria in sostituzione di una pena detentiva, il giudice, per determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individua il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato e lo moltiplica per i giorni di pena detentiva. Il valore non può essere inferiore a 5 euro, e superiore a 250 euro e corrisponde alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare. Alla pena pecuniaria irrogata in sostituzione della pena detentiva si applica l’articolo 133-ter del Codice penale“.

Il GIP ha, quindi, ritenuto necessari gli accertamenti che, secondo l’espressa previsione di legge, consentono di commisurare la pena alla concreta situazione patrimoniale dell’imputato pertanto ha ritenuto che il P.M., avendo inteso di fare ricorso al procedimento monitorio, dovesse necessariamente fornire indicazioni circa i parametri in base ai quali commisurare la pena pecuniaria richiesta in sostituzione di quella detentiva, rimanendo in capo al giudice la potere dovere di valutare la congruità della stessa, sia pure alla luce delle nuove regole di commisurazione stabilite dal novellato art. 459 cod. proc. pen.

Dette regole riguardano, in primo luogo, il criterio di ragguaglio della pena pecuniaria che risulta modificato nel minimo (portato da 75 a 5 euro) ed è determinato in misura variabile (nell’ambito di una forbice che va da 5 a 250 euro) ed è proprio nella commisurazione della entità pena pecuniaria che il giudice deve tener conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare.

Il riferimento a tale parametro che sostituisce quello precedente che richiamava la sola “condizione economica dell’imputato e del suo nucleo familiare“, implica dunque una valutazione più ampia da parte del giudice al quale è rimesso il compito di determinare l’ammontare della pena pecuniaria, individuando il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato tenendo conto, in termini complessivi, non solo della situazione economica personale e familiare dell’imputato, ma anche delle condizioni patrimoniali e di vita dello stesso e del suo nucleo Familiare, intesi quale ulteriore, personalizzante, parametro di valutazione.

Delineata la cornice normativa di riferimento, non si ritiene che l’ordinanza abbia interferito con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell’azione penale e di strutturazione dell’imputazione posto che in essa non si è si è fatto riferimento alla prognosi negativa circa l’adempimento della pena pecuniaria, valutazione che avrebbe reso il provvedimento de quo, abnorme, come sostenuto dall’impugnante, ma alla mancata indicazione da parte del Pubblico ministero di elementi idonei a determinare le complessive condizioni economico-familiari dell’imputato, ai fini della valutazione a lui attribuita dal rito della congruità della pena.

D’altra parte le Sezioni unite, in tema di decreto penale di condanna, hanno affermato che deve «qualificarsi come abnorme il provvedimento di restituzione degli atti, motivato da ragioni cli mera opportunità, che si traduca in una manifestazione di dissenso rispetto alla scelta, di esclusiva pertinenza dell’organo dell’accusa, di introdurre il procedimento monitorio ed in un’arbitraria usurpazione da parte del giudice di facoltà, riservate dall’ordinamento alla parte pubblica, in conseguenza della difforme considerazione sull’utilità dei rito e sui suoi futuri sviluppi».

Le Sezioni Unite hanno, al riguardo, richiamato quanto in precedenza affermato, da Sez. 6, n. 17702 del 28/4/2016, Rv. 2666741, proprio in ordine all’abnormità del provvedimento di restituzione degli atti da parte del G.i.p., fondato sulla «prognosi negativa circa l’adempimento da parte dell’imputato dell’obbligo di pagamento della pena pecuniaria» (Sez. U, n. 20569/2018, Rv. 272715), ma proprio alla luce di tali indicazioni ermeneutiche il provvedimento censurato non può considerarsi abnorme.

Infatti, sul tema della individuazione dei limiti del controllo giudiziale sulla richiesta di introduzione del rito monitorio e sul punto specifico, le SS.UU. hanno precisato che l’ordinanza di rigetto della richiesta ai sensi dell’art. 459 comma 3, cod. proc. pen., costituisce “espressione del legittimo esercizio del potere cognitivo conferito al giudice per le indagini preliminari dall’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., che, al di fuori di qualsiasi automatismo decisorio ed in coerenza col ruolo funzionale di quel giudice, gli riconosce la possibilità di un ampio sindacato sul merito dell’istanza” (cfr., in motivazione, Sez. Un. 20569 del 18/1/2018, Rv.272715).

Nei medesimi termini si è espressa anche Sez. 4, n. 29349 del 22/05/2018, Rv. 273376 che dopo aver passato in rassegna la casistica relativa al potere cognitivo e decisorio del giudice, ha concluso nel senso di ritenere sussistente un orientamento tutt’altro che restrittivo della giurisprudenza circa la individuazione dei confini entro i quali può svolgersi il controllo giudiziale sulla richiesta del P.M. di introduzione del rito speciale di cui agli artt. 459 e ss., cod. proc. pen.

Ciò costituisce prezioso spunto ai fini della presente disamina e consente di affermare che il provvedimento con il quale il giudice ha ritenuto la mancanza di elementi per valutare la congruità della pena indicata in sostituzione dal P.M. richiedente, non presenta alcuno dei profili strutturali dell’abnormità dedotta, ponendosi all’interno del controllo giudiziale previsto dalla legge.

Peraltro, non può non cogliersi l’erroneità del ragionamento svolto dal ricorrente che ha ritenuto di avere effettuato una richiesta di decreto penale di condanna a pena pecuniaria, congrua, perché attestata sul tasso minimo, in tal modo giustificando il difetto di informazioni sulla situazione patrimoniale dell’imputato, implicitamente evocando il principio del favor rei.

Trascura il ricorrente di considerare che il legislatore ha introdotto il procedimento monitorio prevedendo un criterio di ragguaglio fra pena detentiva e pena pecuniaria fissato in una forbice più favorevole rispetto alla precedente previsione ( tra 5 e 250 euro e non più tra 75 e 225 euro) ribadendo non solo la necessità dell’indagine delle condizioni economico patrimoniali dell’imputato da parte del Pm. (la disciplina del procedimento monitorio, infatti, non contempla alcun intervento giudiziale di accertamento e/o verifica degli elementi trasmessi dal pubblico ministero, atteso che l’art. 459 comma 3, cod. proc. pen., prevede unicamente il rigetto della richiesta o la pronuncia di sentenza ex art. 129 codice di rito), ma soprattutto non considera che il criterio da lui adottato e cioè quello di formulare una richiesta attestata sul quantum di ragguaglio prossimo al minimo, così che la pena debba sempre ritenersi congrua ed il GIP obbligato ad accoglierla, porterebbe ad una sostanziale disapplicazione della forbice legale stabilita nell’art. 459 comma 1 bis, cod. proc. pen.

Conclusivamente la Corte ritiene che il provvedimento non si ponga in termini di eccentricità rispetto al sistema.

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