L’imputazione e la sua essenzialità ai fini del giusto processo (di Vincenzo Giglio)

Se si chiedesse ad una nutrita schiera di giuristi qual è l’elemento più essenziale del giusto processo, cioè quello senza il quale il processo non è e non può essere giusto per definizione, si otterrebbero probabilmente molte risposte: la parità tra le parti, il metodo del contraddittorio, la terzietà e l’imparzialità del giudice, la motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, la scansione del procedimento in fasi e gradi, il controllo del giudice successivo su quello antecedente.

Sarebbero tutte risposte corrette perché il giusto processo è la risultante di una molteplicità di principi, ognuno dei quali necessario per la sua attuazione.

Sembra tuttavia di non essere lontani dal vero se si pone l’imputazione al centro di questo novero.

È da essa, infatti, che inizia la sequenza di atti che chiamiamo procedimento penale, è su di essa che le parti si misureranno in contraddittorio e che il giudice tarerà i suoi poteri/doveri di controllo della correttezza del giudizio che si dipana dinanzi a lui e di intervento integrativo ove occorra.

È dal confronto tra la contestazione e l’attività cognitiva che ad essa segue che il giudice trae quanto gli serve per la decisione e la sua motivazione.

Ed è su tale confronto e sui suoi risultati che sarà esercitato il controllo dei giudici successivi al primo.

Possiamo dunque equiparare la contestazione al manifesto di carico di un vettore navale che vi elenca la merce trasportata e su quello è tenuto ad assoggettarsi ai controlli doganali o, mutando ambito, al programma elettorale di una forza politica sul quale gli elettori dapprima fondano la loro opinione iniziale e si determinano al voto e poi misurano la sua coerenza in base alla percentuale di realizzazione degli impegni assunti da quella forza.

È opportuno adesso ricordare che l’imputazione in tanto può adempiere alla sua funzione essenziale in quanto si traduca nella “enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge“, così come richiesto dall’art. 417, comma 1, lettera b), cod. pen. che disciplina i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio.

Una disposizione, questa, alla quale è collegato l’art. 187 cod. proc. pen. per il quale sono oggetto di prova, in primo luogo, i fatti che si riferiscono all’imputazione e poi anche gli altri connessi alla punibilità, alla determinazione della pena o della misura di sicurezza nonché gli altri dai quali dipende l’applicazione di norme processuali o inerenti alla responsabilità civile derivante dal reato se vi è stata costituzione di parte civile.

La sua ulteriore sponda è l’art. 546 cod. proc. pen. il quale, nel delineare i requisiti della sentenza, prevede, per ciò che qui interessa, che debba contenere “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo: 1) all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica; 2) alla punibilità e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell’articolo 533, e della misura di sicurezza; 3) alla responsabilità civile derivante dal reato; 4) all’accertamento dei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali“.

Questa triangolazione che dall’imputazione porta alla prova e poi all’obbligo motivazionale del giudice che ha emesso una sentenza dimostra normativamente una verità che sarebbe comunque intuitiva: il processo giusto richiede un’imputazione che indichi con chiarezza e precisione il fatto, una fase cognitiva congrua all’imputazione, una decisione – e l’attività valutativa che la precede e la giustifica – congrua alla cognizione, una motivazione congrua alla decisione.

Si potrebbe sintetizzare così questa successione di attività: imputazione>motivazione (intesa come insieme delle conclusioni raggiunte dal giudice)>decisione.

Accade qualche volta, tuttavia, che questa sequenza sia travolta e sostituita da altre.

La prima di queste sequenze alternative può essere espressa con la formula motivazione>imputazione>decisione e si verifica nei casi in cui l’imputazione, anziché manifesto accusatorio nel senso inteso dal legislatore, sia piuttosto un’accozzaglia caotica di elementi raccolti nella fase delle indagini: in casi del genere, come ben si comprende, il giudice è costretto a riordinare ciò che è disordinato, a dargli un senso unitario, a costruire egli stesso un’imputazione che prende il posto di quella solo apparente confezionata dall’accusa e infine a decidere.

Il rischio correlato a questa condizione non fisiologica è che il giudice, chiamato ad assumersi anche il compito che sarebbe spettato all’accusa, disponga di un potere discrezionale così ampio da poter trasmodare facilmente nell’arbitrio.

La seconda sequenza alternativa è, se possibile, ancora più temibile e può essere espressa con la formula decisione>motivazione>decisione.

Essa si avvera allorché, a dispetto di qualsiasi regola e principio del giusto processo, sia celebrato un giudizio di scopo, intendendo per tale quello che parte da una convinzione così forte e tetragona ad evidenze contrarie da esigere di trasformarsi in una decisione che precede e conforma il dibattito processuale: si partirà dunque da questa convinzione rocciosa, si accumuleranno e valorizzeranno solo gli elementi dimostrativi che la confermino e si tralasceranno quelli che la smentiranno e infine seguirà una motivazione coerente a questo andamento.

Ecco perché, l’accusa pubblica, le parti private e il giudice sono tenuti ad assicurare, ciascuno per la parte che gli compete, la massima vigilanza sull’imputazione ed a reagire a qualsiasi alterazione della sua fisiologia.

Senza un’imputazione corretta non c’è giusto processo ed è bene non dimenticarlo.