Ricorso al metodo mafioso: può concorrere con la rapina aggravata allorché la violenza o la minaccia siano state poste in essere dall’appartenente ad una associazione mafiosa (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 21616/2014, udienza del 18 aprile 2024, ha affermato, in consapevole contrasto con un differente indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, che possono concorrere l’aggravante del ricorso al metodo mafioso e l’aggravante, propria del delitto di rapina, prevista per il caso in cui la violenza o la minaccia siano poste in essere da un appartenente ad una associazione mafiosa.

Secondo il collegio di legittimità, con riferimento al metodo mafioso ed alla dedotta necessità che la vittima “percepisca” l’aggravamento dell’intimidazione correlato al ricorso all’uso del metodo mafioso che ai fini della configurabilità della circostanza aggravante in esame è necessario l’effettivo ricorso, nell’occasione delittuosa contestata, al metodo mafioso, il quale deve essersi concretizzato in un comportamento “oggettivamente idoneo” ad esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata e non può essere desunto dalla mera reazione delle stesse vittime alla condotta tenuta dall’agente (Sez. 2, n. 45321 del 14/10/2015, Rv. 264900 – 01; Sez. 6, n. 28017 del 26/05/2011, Rv. 250541; Sez. 1, n. 14951 del 06/03/2009, Rv. 243731; Sez. 6, n. 21342 del 02/04/2007, Rv. 236628).

Con riferimento alla possibilità di riconoscere contestualmente sia l’aggravante prevista dall’art. 628, comma 3), n. 3), cod. pen., che quella del ricorso al metodo mafioso il collegio della seconda sezione penale ha riaffermato, in primo luogo, che in tema di rapina ed estorsione, la circostanza aggravante del ricorso all’uso del metodo mafioso può concorrere con quella di cui all’art. 628, comma terzo, n. 3, richiamata dall’art. 629, comma secondo, cod. pen., in quanto la prima presuppone l’accertamento che la condotta sia stata commessa con modalità di tipo mafioso, non essendo necessario che l’agente appartenga al sodalizio criminale, mentre la seconda si riferisce alla provenienza della violenza o minaccia da soggetto appartenente ad associazione mafiosa, senza che sia necessario accertare, in concreto, le modalità di esercizio di tali violenza e minaccia, né che esse siano state attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall’appartenenza all’associazione mafiosa (Sez. 1, n. 4088 del 06/02/2018, dep. 2019, Rv. 275131 – 02; Sez. 5, n. 2907 del 23/10/2013, dep. 2014, Rv. 258464; Sez. 6, n. 27040 del 22/01/2008, Rv. 241008; Sez. 2, n. 20228 del 23/05/2006, Rv. 234651 – 01; Sez. 2, n. 510 del 07/12/2011 dep. 2012, Rv. 251769; Sez. U, n. 10 del 28/03/2001 Cinalli, Rv. 218378).

Le due aggravanti si distinguono anche in ordine alla loro natura: la circostanza prevista dall’art. 628, comma 3, n. 3) è, infatti, di natura “soggettiva” in quanto, come prevede l’art. 70 cod. pen., riguarda le “condizioni” personali dell’autore del reato (che in questo caso sono connotate dall’appartenenza ad un’associazione mafiosa).

L’aggravante del ricorso all’uso del metodo mafioso è, invece, un’aggravante “oggettiva” e riguarda le modalità di estrinsecazione del reato (sulla natura oggettiva di tale aggravante tra le altre: Sez. 4, n. 5136 del 02/02/2022, Rv. 282602).

Tanto premesso, deve ritenersi che le due circostanze concorrano, anche nel caso in cui, come quello di specie, le minacce siano state agite attraverso l’evocazione della capacità criminale dell’associazione mafiosa da persona che a quella associazione “appartiene”, e che fa valere tale condizione di appartenenza a scopo intimidatorio.

Tale affermazione si pone in consapevole contrasto con quanto affermato nella sentenza n. 39836/23, secondo cui «nel caso della minaccia “silente”, […] ad essere rilevante è esclusivamente il dato della appartenenza del soggetto – che realizza la minaccia – alla consorteria mafiosa, posto che la capacità intimidatoria è correlata alla sola appartenenza. Se ciò consente […] l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art.628, comma 3 n.3, cod. pen., altrettanto non può dirsi per l’avvenuto utilizzo del metodo mafioso (art.416- bis.1) che richiede una ulteriore esternazione funzionale alla semplificazione delle modalità commissive del reato. Dunque, nel particolare caso della “minaccia silente”, la applicazione dell’aggravante specifica di cui all’art.628 comma 3 n.3 esclude la contemporanea applicazione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1. cod. pen.» (Sez. 1, n. 39836 del 19/04/2023, Rv. 285059). Tale interpretazione parte dal presupposto – qui non condiviso – che la ratio dell’aggravante prevista dall’art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen. risieda «nel surplus della “capacità intimidatoria” ricollegabile alla provenienza qualificata della condotta intimidatoria», «non potendosi aderire alla tesi di un aggravamento derivante da una mera condizione soggettiva» (Sez. 1, n. 39836 del 19/04/2023, cit.). E che, di fatto, sovrappone la ratio dell’aggravante prevista dall’art. 628, comma 3 n. 3), a quella del ricorso all’uso metodo mafioso: quest’ultima sicuramente identificabile nella scelta di ritenere più grave un’azione caratterizzata da maggiore capacità intimidatoria.

Il collegio decidente ha ritenuto, al contrario, che la ratio dell’aggravante soggettiva prevista dall’art. 628, comma 3, n. 3 cod. pen. debba essere rinvenuta nel fatto che il delitto posto in essere da chi appartiene ad un’associazione mafiosa manifesti la “maggiore pericolosità individuale” dell’agente, il quale, oltre ad appartenere ad un consorzio mafioso, consuma anche rapine ed estorsioni.

Ad essere “colpita” dall’aggravante prevista dall’art. 628, comma 3, n. 3 cod. pen., non è, dunque, la maggiore capacità intimidatoria della condotta, ma, invece, il fatto che la condotta sia agita da un soggetto che manifesta una allarmante pericolosità individuale, in quanto è già “appartenente” ad un sodalizio mafioso.

Così inquadrata la ratio dell’aggravante dell’appartenenza all’associazione mafiosa, deve rilevarsi come la stessa non possa entrare in conflitto con quella del ricorso all’uso del metodo mafioso.

Quando la minaccia è agita attraverso l’implicito richiamo al capitale criminale dell’associazione mafiosa effettuato da chi sia partecipe, l’appartenenza al sodalizio – in astratto non necessaria per configurare l’aggravante – “può” essere utilizzata per raggiungere lo scopo predatorio, aggravando la capacità intimidatoria della condotta. Si tratta di uno strumento che può essere attivato in via eventuale: l’associato non deve, infatti fare necessariamente ricorso all’uso del metodo mafioso. Sul punto è chiarificatore il passaggio della sentenza delle Sezioni unite “Cinalli” in cui si osserva che «l’associato non sempre e necessariamente pone in essere, neppure nell’ambito di una rapina o di un estorsione rientranti nel programma comune, il comportamento [in allora] previsto dall’art. 7 d.l. 203/91» (Sez. U, n. 10 del 28/03/2001, Cinalli, Rv. 218378).

La “facoltatività” del ricorso all’uso del metodo mafioso da parte dell’associato che consuma rapine ed estorsioni conferma la non sovrapponibilità della circostanza prevista dall’art. 416-bis.1. cod. pen., che sanziona le modalità con cui viene consumato il reato (ovvero il ricorso al metodo mafioso), con quella che sanziona il fatto che il delitto sia consumato da un appartenete all’associazione, ovvero da chi ha una posizione soggettiva che esprime la sua specifica, individuale, maggiore pericolosità.

Si afferma pertanto che:

(a) l’aggravante soggettiva prevista dall’art. 628, comma 3, n. 3) cod. pen. è funzionale a punire la maggiore pericolosità dimostrata, in concreto, dall’associato impegnato “anche” nella consumazione di rapine ed estorsioni, mentre l’aggravante oggettiva del ricorso all’uso del metodo mafioso sanziona la maggiore capacità intimidatoria della condotta (che, in ipotesi, può essere agita anche da chi non è associato);

(b) che tale diversità di ratio e natura consente di ritenere che le due aggravanti possano concorrere, anche nel caso in cui il metodo mafioso si concretizzi nella minaccia cosiddetta “silente”, agita attraverso l’evocazione della capacità criminale dell’associazione mafiosa alla quale l’autore appartiene.