Ne bis in idem: non è una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 17094/2021, udienza del 9 marzo 2021, ha escluso che il divieto di bis in idem sia assimilabile ad una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta, come tale oggetto di ricezione automatica ai sensi dell’art. 10 Cost., dovendo piuttosto essere oggetto di regolamentazione di natura pattizia tra gli Stati.

Vicenda giudiziaria

Con ordinanza in data 24 luglio 2020 la Corte d’appello di Milano, pronunciando quale giudice dell’esecuzione, rigettava l’istanza, proposta nell’interesse di SS, volta ad ottenere l’annullamento della sentenza, emessa a suo carico dal Tribunale di R. in data 22 novembre 2011, confluita nel provvedimento di unificazione di pene concorrenti del 25 febbraio 2019 della Procura Generale presso la Corte di appello di Milano, sul presupposto della violazione del principio del ne bis in idem di cui all’art. 649 cod. proc. pen. per essere stato condannato per gli stessi fatti di reato con sentenza emessa dall’Autorità giudiziaria dell’Albania in data 3 ottobre 2005.

Il difensore dell’interessato ha presentato ricorso per cassazione.

Decisione della Suprema Corte

In caso di reato commesso nel territorio nazionale da un cittadino appartenente ad uno Stato con cui non vigono accordi idonei a derogare alla disciplina dell’art. 11 cod. pen., il processo celebrato in quello Stato non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti, non essendo il principio del ne bis in idem principio generale del diritto internazionale, come tale applicabile nell’ordinamento interno (sez. 4, n. 3315 del 6/12/2016, dep. 2017, rv. 269222; sez. 1, n. 29664 del 12/06/2014, rv. 260537; sez. 1, n. 20464 del 05/04/2013, rv. 256162; sez. 6, n. 44830 del 22/09/2004, rv. 230595).

Può convenirsi con la difesa che il principio che vieta la celebrazione di un secondo giudizio per fatti identici, ossia corrispondenti negli elementi costitutivi essenziali di condotta, volontà ed evento, costituisce un valore tendenziale, cui si ispira l’ordinamento internazionale a tutela della posizione del singolo di fronte alla pretesa punitiva degli Stati: ne offrono dimostrazione la Convenzione tra gli Stati membri delle Comunità europee di Bruxelles del 25 maggio 1987, resa esecutiva in Italia con L. 16 ottobre 1989, n. 350 e la L. 30 settembre 1993, n. 388, che ha recepito nell’ordinamento italiano l’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985.

Analoga interpretazione è stata offerta dalla Corte costituzionale (sentenza n. 58 del 1992).

Ed anche l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce che «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge». Tanto autorizza a ritenere che sia vigente il divieto di bis in idem in ambito comunitario, ossia valevole per i Paesi aderenti all’Unione europea e che la sua violazione debba essere riscontrata dall’autorità giudiziaria dello Stato procedente o dalla Corte di Giustizia in sede di valutazione pregiudiziale ai sensi dell’art. 35 del Trattato dell’Unione, ma soltanto in riferimento allo Stato in cui si è svolto il giudizio e non ne caso dello svolgimento del processo in Stati diversi, pur se entrambi aderenti alla Convenzione EDU.

Nonostante le indicazioni legislative richiamate, deve negarsi che il divieto di celebrazione di un nuovo giudizio possa considerarsi, rispetto alle sentenze straniere, un principio generale di diritto riconducibile alla categoria delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, oggetto di ricezione automatica ai sensi dell’art. 10 Cost., dovendo piuttosto essere oggetto di regolamentazione di natura pattizia tra gli Stati.

Pertanto, in difetto di accordi idonei a derogare alla disciplina di cui all’art. 11, comma 1, cod. pen., – secondo il quale nei casi previsti dall’art. 6 cod. pen., ossia quando l’azione o l’omissione che costituisce reato sia stata commessa in tutto o in parte nel territorio dello Stato, il giudizio va rinnovato – norma giudicata conforme ai precetti costituzionali (Corte cost. n. 48 del 18/4/1967; n. 1 dell’1/02/1973; n. 289 del 25/05/1989), la sentenza pronunciata nei confronti di un cittadino straniero in uno Stato, col quale non sia stato stipulato un accordo di tale natura, non impedisce la celebrazione di altro giudizio per gli stessi fatti da parte dell’autorità giudiziaria italiana.

Ed è quanto si verifica nei rapporti tra Italia ed Albania, paesi che, pur aderendo entrambi all’ordinamento convenzionale CEDU, non hanno mai concluso un accordo bilaterale che disciplini l’applicazione reciproca del divieto di bis in idem.

Si ricorda poi che la Corte costituzionale quanto al relativo divieto, considerato in riferimento alle sentenze pronunciate all’estero, ha negato che lo stesso assuma valore di principio comune alla generalità degli ordinamenti statuali moderni e di norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta.

L’ordinamento italiano, come quelli della maggior parte degli Stati moderni, si ispira infatti ai principi della territorialità ed obbligatorietà generale della legge penale, secondo i criteri stabiliti dell’art. 6 e ss. cod. pen., prevedendo, in particolare, la punibilità anche dei delitti comuni commessi all’estero, sia da cittadini, sia da stranieri, quando il reo sia presente nel territorio italiano, nei casi e alle condizioni indicate negli artt. 9 e 10. In dette ipotesi è, infatti, stabilita dal diritto interno la possibilità di rinnovamento del giudizio, indipendentemente dall’esito del processo già svoltosi all’estero, la cui sentenza, anche di proscioglimento, non ha efficacia preclusiva all’applicazione della legge penale italiana.

Questi principi, a cui si informano entrambe le disposizioni dell’art. 11, commi 1 e 2, cod. pen., hanno una obiettiva giustificazione nella difforme realtà della disciplina penale e processuale penale nei diversi ordinamenti giuridici positivi (Corte cost., n. 69 dell’8/04/1976).

Infine, si ritiene irrilevante il richiamo, operato in ricorso, a fonti pattizie internazionali, quali la Convenzione Europea di estradizione, ratificata sia dall’Italia, che dall’Albania, che disciplina solamente la diversa fattispecie dell’estradizione ed il meccanismo procedurale, mentre l’art. 49 della Convenzione dell’Aja sulla validità internazionale dei giudizi repressivi prescrive in merito agli effetti delle sentenze penali europee che «qualsiasi Stato contraente ove l’atto è stato commesso, o considerato come tale conformemente alle leggi di tale Stato, non sarà obbligato a riconoscere l’effetto di ne bis in idem, a meno che tale Stato non abbia esso stesso chiesto il procedimento», condizione che nel caso specifico non si è dedotto, né dimostrato ricorra.

Sotto il profilo considerato, deve dunque riconoscersi la piena correttezza giuridica della decisione che ha escluso di poter revocare la sentenza emessa dal Tribunale di R., statuizione che il ricorrente contesta senza realmente confrontarsi con le argomentazioni esposte dal giudice dell’esecuzione.