Ordine di esecuzione e successiva rideterminazione della pena: quando sussiste il diritto all’equa riparazione? (di Riccardo Radi)

La Cassazione sezione 4 con la sentenza numero 21568/2024 ci permette di esaminare le plurime fattispecie di ordine di esecuzione illegittimo – o divenuto tale successivamente – per fattori non ascrivibili a comportamento doloso o colposo del condannato, nelle quali la cassazione ha riconosciuto il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione.

Fatto

La Corte d’appello di Potenza, con ordinanza del 23 dicembre 2023, dichiarava inammissibile l’istanza di riparazione avanzata da V.M. per l’ingiusta detenzione carceraria subita in eccesso rispetto alle condanne riportate.

Il ricorrente aveva rappresentato l’ingiustizia della detenzione subita in quanto, a causa della erronea dichiarazione di incompetenza della Corte di appello di Potenza a pronunciarsi sul riconoscimento della continuazione rispetto al reato già giudicato per il quale stava espiando la pena si era determinato un ritardo nella esatta determinazione della pena da eseguire.

Di conseguenza, egli aveva patito un periodo di ingiusta detenzione pari a mesi dieci e giorni 7.

L’istanza di riconoscimento della continuazione era stata depositata dal ricorrente avanti alla Corte d’appello di Potenza che, con ordinanza del 13 luglio 2021, si era dichiarata incompetente.

Il Tribunale di Lagonegro aveva sollevato il conflitto di competenza, risolto dalla Corte di cassazione, che aveva riconosciuto la competenza della Corte d’appello di Potenza.

Il 10 marzo 2023 la predetta Corte territoriale aveva accolto l’istanza del V.M. e, applicando la continuazione, aveva detratto la pena di anni uno e mesi 5 di reclusione dal cumulo e per l’effetto, il V.M. veniva dunque rimesso in libertà

Decisione

La Cassazione premette che occorre ricordare la fondamentale pronunzia della Consulta che ha riguardato la norma di cui all’art. 314 cod. proc. pen., (sentenza n. 310 del 18-25 luglio 1996).

Con la sentenza citata, la Corte costituzionale ha riconosciuto la sussistenza del diritto alla equa riparazione anche nel caso di detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., e violazione dell’art. 5 della Convenzione EDU che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste.

La Suprema Corte è stata più volte chiamata ad esprimersi in ordine ai casi di eccedenza tra la detenzione subita e la pena rideterminata a seguito di vicende successive alla condanna.

E non vi è dubbio che in tale ambito rientri la fattispecie in esame, in cui la eccedenza tra detenzione sofferta e pena eseguita o eseguibile è conseguita a una vicenda posteriore, ossia a seguito del procedimento di rideterminazione complessiva della pena da scontare da parte del V.M. operata in un procedimento in fase esecutiva avente ad oggetto il riconoscimento del vincolo della continuazione con i reati già definitivamente accertati.

Tra le pronunzie più significative al riguardo, si rammenta Cass., Sez. 4, n.57203 del 21/09/2017, Rv. 271689, secondo cui “in tema di ingiusta detenzione, il diritto alla riparazione è configurabile anche ove l’ingiusta detenzione patita derivi da vicende successive alla condanna, connesse all’esecuzione della pena, purché sussista un errore dell’autorità procedente e non ricorra un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato che sia stata concausa dell’errore o del ritardo nell’emissione del nuovo ordine di esecuzione recante la corretta data del fine dell’espiazione della pena“.

Nella motivazione della sentenza da ultimo richiamata, che ha operato una rilettura complessiva dell’istituto alla luce delle sentenze di legittimità costituzionale intervenute sull’art. 314 cod. proc. pen., è stato opportunamente chiarito che “Anche le vicende della fase dell’esecuzione della pena rilevano ai fini della applicabilità dell’istituto disciplinato dall’art. 314 cod. proc. pen., sempre che da esse derivi una ingiustizia della detenzione patita. Ingiustizia che, come emerge dalla giurisprudenza sin qui rammentata, si innesta su un errore dell’autorità procedente (errore che, per definizione, non può mai rinvenirsi nell’esercizio di un potere di apprezzamento discrezionale e che quindi va ricercato nelle eventuali violazioni di legge)“.

In particolare, la citata sentenza della Sez. 4, n. 57203 del 21/09/2017, Rv. 271689, ha illustrato le plurime fattispecie di ordine di esecuzione illegittimo – o divenuto tale successivamente – per fattori non ascrivibili a comportamento doloso o colposo del condannato, nelle quali questa Corte, in applicazione dei predetti principi, ha riconosciuto il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione:

a) ordine di esecuzione legittimamente emesso, ma relativo a pena che, a causa del lungo arco temporale intercorso tra l’emissione del titolo e la sua esecuzione, si era poi estinta ex art. 172 cod. pen. (senza che rilevasse l’assenza di un’espressa declaratoria di estinzione della pena) (Sez. 4, n. 45247 del 20/10/2015, Ry. 264895);

b) ordine di esecuzione relativo a pena già estinta per indulto, anche se non ancora applicato dal giudice di esecuzione (Sez. 4, n. 30492 del 12/06/2014, Rv. 262240);

c) periodo di detenzione eccedente a quello risultante dall’applicazione della liberazione anticipata, in conseguenza di un ordine di esecuzione non ancora aggiornato al nuovo fine pena (Sez. 4, n. 18542 del 14/01/2014, Rv. 259210);

d) tardiva esecuzione dell’ordine di scarcerazione disposto per liberazione anticipata per il periodo di detenzione ingiustamente sofferto (Sez. 4, n. 47993 del 30/09/2016, Rv. 268617).

Si sono, poi aggiunti altri casi, quale quello della esecuzione sofferta in virtù di ordine di esecuzione legittimo, ma successivamente revocato per effetto di provvedimento di restituzione in termini per proporre impugnazione e successiva assoluzione (Sez. 4, n. 54838 del 13/11/2018, non massimata), di applicazione dell’isolamento diurno per erronea predisposizione di ordine di esecuzione (Sez. 4, n. 18358 del 10/01/2019, Rv. 276258) e di sentenza dichiarativa di non doversi procedere per ne bis in idem pronunciata ai sensi dell’art. 649 comma 2, cod. proc. pen., a seguito della rescissione del precedente giudicato in ragione della nullità del decreto di latitanza (Sez. 4, n. 42328 del 02/05/2017, Rv. 270818).

La sentenza n. 57203 del 21/09/2017 cit. ha effettuato un’ampia ricognizione della casistica delle pronunzie della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di detenzione ingiusta (soprattutto in tema di liberazione anticipata), tutte convergenti nel senso della più ampia tutela in caso di ingiusta detenzione per errore nella fase dell’esecuzione della pena.

E, sulla scorta di tali principi si è recentemente nuovamente affermato che “il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione è configurabile anche ove quest’ultima derivi dalla illegittimità, originaria o sopravvenuta, dell’ordine di esecuzione, sempre che la stessa non dipenda da un comportamento doloso o colposo del condannato” (Sez. 4, n. 1718 del 14/01/2021, Rv. 281151).

Tanto chiarito, deve dunque concludersi nel senso che, alla luce del percorso interpretativo ed applicativo dell’art. 314 a seguito degli interventi della Consulta, l’indennizzo è dovuto se la pena definitivamente inflitta superi quella sofferta in fase cautelare, restando invece escluse le vicende di rideterminazione della pena avvenute in fase esecutiva, ad eccezione del caso di illegittimità, originaria o sopravvenuta, dell’ordine di esecuzione.

Non può invece configurarsi il diritto all’indennizzo in tutte le ipotesi in cui una rideterminazione della pena in una misura inferiore a quella sofferta non sia originata da una violazione di legge, ma dipenda dall’attività prettamente discrezionale di apprezzamento valutativo del giudice.

Orbene, è del tutto evidente che, nel caso in esame, la riduzione della pena inflitta al V.M., che ha inciso posteriormente sull’ordine di esecuzione, è avvenuta per effetto della applicazione, in suo favore, dell’istituto della continuazione ed è pertanto frutto di una ordinaria attività valutativa dei giudici di merito, a prescindere dalle vicende processuali (quale il conflitto di competenza) che hanno caratterizzato l’iter decisionale del giudizio.

Riconoscere o meno che tra differenti ipotesi di reato separatamente giudicate sia configurabile il vincolo della continuazione, infatti, implica un chiaro giudizio di merito, senza che possa ipotizzarsi alcuna violazione di legge.

E ciò, come detto, è del tutto indipendente dalla concreta vicenda processuale che ha caratterizzato il giudizio avente ad oggetto il riconoscimento del vincolo della continuazione, riconoscimento che poteva anche essere negato.

Tanto basta ad escludere il diritto all’indennizzo reclamato dal ricorrente, come già più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (sez. 4, n. 24208 del 10/5/23, n.m; sez. 4, n.226532 del 10/5/2023, n.m).