Successione di leggi penali: individuazione della disciplina più favorevole nel passaggio dall’omicidio colposo all’omicidio stradale (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 4324/2024, udienza del 12 dicembre 2023, ha respinto un ricorso a mezzo del quale la difesa dell’imputato lamentava la mancata concessione dell’attenuante prevista dall’art. 589-bis, comma 7, cod. pen., per una condotta compiuta prima dell’entrata in vigore di tale fattispecie.

La circostanza attenuante di cui all’art. 589-bis, comma 7, cod. pen., è stata prevista nella nuova formulazione del reato di omicidio stradale introdotto con la legge 23 marzo 2016 n. 41. L’art. 589-bis,cod. pen., punisce chiunque cagiona la morte di un uomo per colpa con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale con la reclusione da due a sette anni. Il comma settimo dello stesso articolo prevede che, qualora l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole, la pena sia diminuita fino alla metà.

A gennaio 2016, epoca di commissione del fatto sottostante al ricorso, esso era disciplinato dall’art. 589 cod. pen., a norma del quale l’omicidio colposo era punito, nell’ipotesi base, con la pena della reclusione da sei mesi a cinque anni e, nell’ipotesi aggravata dalla violazione della norme sulla disciplina della circolazione stradale, con la pena della reclusione da due a sette anni; non era contemplata in detta norma una circostanza attenuante del tipo di quella che sarebbe stata poi introdotta dal legislatore nel marzo 2016.

La Corte territoriale, in linea astratta, avrebbe dovuto verificare l’eventuale applicabilità alla fattispecie sottoposta al suo giudizio dello ius superveniens, se favorevole, in ossequio ai principi di cui all’art. 2 cod. pen.

Il giudice di appello, invero, ex art. 597, comma 5, cod. proc. pen., può applicare anche di ufficio i benefici di cui agli artt. 163 e 175, cod. pen., e le circostanze attenuanti senza che, tuttavia, possa determinarsi un obbligo di motivazione in ordine al mancato esercizio di tale potere.

È, infatti, principio consolidato quello per cui il mancato esercizio del potere-dovere del giudice di appello di applicare d’ufficio una o più circostanze attenuanti, non accompagnato da alcuna motivazione, non può costituire motivo di ricorso in cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, qualora l’imputato, nell’atto di appello o almeno in sede di conclusioni del giudizio di appello, non abbia formulato una richiesta specifica, con preciso riferimento a dati di fatto astrattamente idonei all’accoglimento della stessa, rispetto alla quale il giudice debba confrontarsi con la redazione di una puntuale motivazione (Sez. 3 n. 10085 del 21/11/2019, dep. 2020, Rv. 279063; Sez. 7, ordinanza n. 16746 del 13/01/2015, Rv. 263361).

Nel caso in esame, con uno specifico motivo di appello l’imputato aveva sottolineato come l’evento fosse stato determinato dal concorso di colpa della vittima, sicché implicitamente aveva sollecitato la Corte alla verifica in ordine alla applicabilità della nuova circostanza attenuante.

È noto che in materia di successione di leggi penali, una volta individuata la disposizione complessivamente più favorevole con riferimento al caso concreto, il giudice deve applicarla nella sua interezza, essendo fatto divieto, in ossequio al principio di legalità, di combinare frammenti normativi dell’una e dell’altra, così da delineare una terza disciplina (da ultimo, tra le tante, Sez. 4 n. 13207 del 27/01/2022, Rv. 282936, proprio con riferimento a fattispecie di omicidio stradale).

Nel caso in esame l’applicazione della nuova disciplina introdotta dalla legge n. 41/2016, con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (così come operato dalla Corte di appello) e della circostanza attenuante di cui all’art. 589-bis, comma 7, cod. pen. (la cui applicazione è stata implicitamente invocata), entrambe nella massima estensione, avrebbe portato, muovendo dalla pena base nel minimo edittale, ad una pena finale di 8 mesi, uguale a quella irrogata dalla Corte di appello, secondo il seguente calcolo: pena base anni 2 di reclusione, diminuita ex art. 589-bis, comma 7 cod. pen. alla pena di anni 1 di reclusione, ulteriormente diminuita ex art. 62-bis, cod. pen. fino ad arrivare alla pena sopra indicata.

Il principio generale, dettato dall’art. 568, comma 4, cod. proc. pen, è quello per cui per proporre impugnazione è necessario avervi interesse.

Per evidenti ragioni di economia processuale il legislatore ha subordinato l’attivazione dello strumento di controllo all’esistenza in capo al soggetto legittimato di un concreto ed attuale interesse, inteso, nella elaborazione della giurisprudenza di legittimità, non già quale pretesa della esattezza teorica della decisione, bensì come misura della utilità pratica derivante dalla impugnazione, sussistente ogni qualvolta dal raffronto fra la decisione oggetto di gravame e quella che potrebbe essere emessa, se il gravame fosse accolto, emerge per l’impugnante una situazione di vantaggio meritevole di tutela giuridica (in tal senso Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino, Rv.202269, secondo cui la facoltà di attivare i procedimenti di gravame è «subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e l’eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso», e più di recente Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, Massaria, Rv. 275953 in tema di legittimazione della parte civile ad impugnare la sentenza di primo grado che abbia dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come nei confronti della sentenza di appello che tale decisione abbia confermato).

Nel caso in esame, dunque, posto che per effetto della applicazione della nuova disciplina dell’omicidio stradale e della circostanza attenuante di cui all’art. 589-bis, comma 7, cod. pen. la pena finale sarebbe stata la stessa irrogata dalla Corte territoriale, il ricorrente non può vantare alcun concreto interesse all’applicazione della attenuante invocata.