Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 2009/2024, udienza del 7 novembre 2023, ha ricordato che tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere non vi è alcun rapporto di “presupposizione”, sicché non opera la causa di esclusione con cui esordisce l’art. 648-bis cod. pen. relativa a chi abbia concorso nel reato, con la conseguenza che il partecipe al sodalizio criminoso risponde anche del reato di riciclaggio dei beni acquisiti attraverso la realizzazione dei reati fine dell’associazione (cfr. Sez. 2, n. 10582 del 14/02/2003, Rv. 223689; Sez. 2, n. 40793 del 23/09/2005, Rv. 232524; da ultimo, Sez. 2, n. 5730 del 20/09/2019, Rv. 278244; così anche Sez. 1, n. 7860 del 20/01/2015, Rv. 262758, secondo la quale, nel momento in cui il partecipe di un’associazione per delinquere cd. semplice può concorrere nella commissione del delitto di riciclaggio dei proventi derivanti dai reati-scopo della associazione stessa, si finisce con il dimostrare l’assenza di correlazione tra il delitto associativo – in quanto tale – ed i profitti conseguiti mediante la realizzazione del programma criminoso).
Tali principi, elaborati dalla giurisprudenza in relazione all’associazione per delinquere semplice, non possono che estendersi anche all’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, non potendo, invece, applicarsi a questa l’opposto principio elaborato dalla sentenza delle Sezioni unite secondo cui delitto di associazione di tipo mafioso può costituire il presupposto dei reati di riciclaggio e di reimpiego di capitali, in quanto di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando negli scopi dell’associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso (Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo Rv. 259586).
In effetti, mentre nell’associazione a delinquere di stampo mafioso è la stessa esistenza della consorteria in sé a produrre ricchezza economica individuale e collettiva, nell’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, così come nell’associazione a delinquere semplice, detto effetto di “arricchimento” è certamente inesistente a livello generale, potendosi determinare solo in conseguenza della realizzazione dei reati-fine.
Le associazioni di stampo mafioso, infatti, cercano il loro arricchimento non solo mediante la commissione di azioni criminose ma anche in numerosi e diversi altri modi, quali il reimpiego in attività economico-produttive dei proventi derivanti dalla pregressa perpetrazione di reati, il controllo delle attività economiche mediante il metodo mafioso, la realizzazione di profitti o vantaggi avvalendosi della forza d’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano: di tal che, si riconosce come il delitto di associazione di tipo mafioso sia autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti (cfr., Sez. 2, n. 5730 del 20/09/2019, Rv. 278244; Sez. 6, n. 45643 del 30/10/2009, n.m.; Sez. 1, n. 6930 del 27/11/2008, Rv. 243223; Sez. 1, n. 2451 del 27/11/2008, Rv. 242723; Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Rv. 242665; Sez. 1, n. 1024 del 27/11/2008, Rv. 242512).
Di contro, le associazioni dedite solo al traffico di stupefacenti, così come le associazioni a delinquere semplici, non sono di per sé produttive di proventi illeciti che, se conseguiti, costituiscono il “frutto” degli eventuali reati-fine: si può, pertanto, affermare che tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti non vi sia alcun rapporto di “presupposizione”, con conseguente inoperatività della causa di esclusione con cui esordisce l’art. 648-bis cod. pen. relativa a chi abbia concorso nel reato.
