Quando la fantasia oltrepassa la realtà: un giudice definisce “faccendiere” l’imputato e il difensore ricorre per cassazione per difetto di giurisdizione (di Vincenzo Giglio)

Nell’elenco normativo dei vizi che consentono il ricorso per cassazione figura al primo posto (art. 606, comma 1, lettera a, cod. proc. pen.) l’esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri, vizio sintetizzato con l’espressione “eccesso di potere giurisdizionale”.

Sono poche, comprensibilmente, le occasioni che consentono di argomentare fondatamente un motivo di ricorso impostato su tale eccesso.

Sono conseguentemente pochi i casi del genere venuti all’attenzione della Suprema Corte e ancora meno quelli che hanno avuto un esito positivo.

Una rapida carrellata consente di verificare che l’eccesso di potere di cui si parla è stato escluso:

  • allorché il giudice dell’esecuzione, al quale sia stato richiesto di revocare l’ordine di demolizione di manufatto abusivo in ragione di sopravvenuto provvedimento di condono, abbia esercitato il potere di sindacare detto atto concessorio, disapplicandolo ove lo stesso sia stato emesso in assenza delle condizioni formali e sostanziali di legge previste per la sua esistenza (Sez. 3, 23567/2018);
  • quando il giudice, esercitata l’azione penale e sopravvenuta una causa di estinzione del reato, disponga, accertata la lottizzazione in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi, la confisca nel corso di un procedimento penale, essendo la legge stessa, ai sensi del citato art. 44, ad attribuire al giudice il potere-dovere di pronunciarsi sull’applicazione della misura ablativa (Sez. 3, 53692/2017);
  • nei casi in cui anche solo una parte della condotta criminosa è compiuta nelle acque interne o nel mare territoriale costiero, ai sensi degli artt. 2 Convenzione di Montego Bay e 6 Cod. pen. (Sez. 4, 14709/2018).

Sono invece controversi o aperti a soluzioni alternative i seguenti casi:

  • esistono due contrapposte soluzioni interpretative per i reati commessi nella zona contigua: la prima esclude la giurisdizione italiana sulla base dell’art. 33 della citata Convenzione; la seconda la ritiene invece possibile sulla base dell’art. 9-bis del D. Lgs. 286/1998 secondo il quale “La nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato” (Sez. 4, 14709/2018).
  • sono ugualmente differenziabili le opzioni se il reato è compiuto in alto mare: in questo caso, la giurisdizione, in base alle regole del diritto internazionale consuetudinario, appartiene alla Stato di bandiera della nave utilizzata da chi compie il reato. Tuttavia, nel caso frequente in cui i migranti ospitati a bordo di una nave che si trovi in alto mare siano fatti trasbordare su natanti più piccoli, è opportuno che operi la giurisdizione italiana, anche nel caso in cui la manovra sia seguita da una richiesta di soccorso la quale comporti che l’ingresso nelle acque italiane siano di fatto curato dalla guardia costiera e non dai mezzi riconducibili ai trafficanti. Si veda, in tal senso, Sez. 1, 14510/2014 secondo la quale «la giurisdizione dello stato italiano va riconosciuta, laddove in ipotesi di traffico di migranti dalle coste africane alla Sicilia, questi siano abbandonati in mare in acque extraterritoriali su natanti del tutto inadeguati, onde provocare l’intervento del soccorso in mare e far sì che i trasportati siano accompagnati nel tratto di acque territoriali dalle navi dei soccorritori, operanti sotto la copertura della scriminate dello stato di necessità, poiché l’azione di messa in grave pericolo per le persone, integrante lo stato di necessità, è direttamente riconducibile ai trafficanti per averlo provocato e si lega, senza soluzione di continuità, al primo segmento della condotta commessa in acque extraterritoriali, venendo così a ricadere nella previsione dell’art. 6 Cod. pen. L’azione dei soccorritori (che di fatto consente ai migranti di giungere nel nostro territorio) è da ritenere ai sensi dell’art. 54 Cod. pen., comma 3, in termini di azione dell’autore mediato, operante in ossequio alle leggi del mare, in uno stato di necessità provocato e strumentalizzato dai trafficanti e quindi a loro del tutto riconducibile e quindi sanzionabile nel nostro Stato, ancorché materialmente questi abbiano operato solo in ambito extraterritoriale». Sussiste pertanto la giurisdizione italiana in ordine al reato di cui all’art. 416 Cod. pen. nella ipotesi di associazione per delinquere organizzata all’estero e finalizzata all’ingresso illegale nel territorio dello Stato di cittadini extra comunitari, trattandosi di reato transnazionale commesso da gruppo criminale organizzato che dispiega i suoi effetti in Italia. La convenzione ONU sul crimine organizzato, ratificata in Italia con la L. 146/2006 riconosce infatti la giurisdizione dello Stato Parte per uno dei reati stabiliti ai sensi dell’art. 5, paragrafo 1, della Convenzione, ovverosia la partecipazione a un gruppo criminale organizzato quando è commesso al di fuori del suo territorio, al fine di commettere un grave reato sul territorio; i reati oggetto del presente processo rientrano tra quelli previsti dalla Convenzione ONU sul crimine transnazionale (artt. 2, 3 e 5) per cui la nave priva di bandiera non gode delle garanzie dell’extraterritorialità, sicché la giurisdizione del giudice italiano va affermata in riferimento sia all’art. 6, sia all’art. 7 n. 5 Cod. (Sez. 1, 7783/2018).
  • L’attrazione nella giurisdizione del giudice ordinario dei procedimenti per reati concorrenti, comuni e militari, opera solo se il reato comune è più grave di quello militare, mentre negli altri casi le sfere di giurisdizione, ordinaria e militare, rimangono separate, con la conseguenza che al giudice militare appartiene la cognizione dei reati militari e al giudice ordinario quella per i reati comuni (Sez. 1, 5680/2015).

L’eccesso di potere giurisdizionale è stato riconosciuto nei seguenti casi:

  • il giudice che dichiari l’estinzione del reato per l’esito positivo della prova, ai sensi dell’art. 168-ter Cod. pen., non può applicare la sanzione amministrativa accessoria, di competenza del Prefetto ai sensi dell’art. 224, comma 3, CDSDifatti, in considerazione della sostanziale differenza tra l’istituto della messa alla prova, che prescinde dall’accertamento di penale responsabilità, e le ipotesi di applicazione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, previste dagli artt. 186, comma 9-bis e 187, comma 8-bis CDS, non può trovare applicazione, nel caso di specie, la disciplina ivi prevista che lascia al giudice, in deroga al predetto art. 224, la competenza ad applicare la sanzione amministrativa accessoria  Tale principio deve ritenersi valevole per tutte le sanzioni amministrative;
  • l’amministrazione militare deve intendersi circoscritta nelle strutture occorrenti per l’organizzazione del personale e dei mezzi materiali destinati alla difesa armata dello Stato, e i beni in dotazione della stessa si identificano in quelli che, a norma delle leggi sulla contabilità generale dello Stato, sono amministrati dal Ministero della difesa o dai corpi militari, mentre non possono essere compresi tra quelli appartenenti all’Amministrazione militare i beni assegnati ad altri Ministeri, per l’uso degli stessi o dei servizi da essi dipendenti o da essi amministrati, ovvero quelli che rappresentano oggetto di gestione sotto un profilo esclusivamente privatistico. Ne consegue che, poiché il corpo della Guardia di Finanza fa parte integrante delle Forze Armate dello stato, è configurabile la giurisdizione dell’AG militare, e non di quella ordinaria, in tema di truffa consumata da sottufficiale di detto corpo in danno dell’Amministrazione di appartenenza, mediante il conseguimento dell’indebito rimborso di spese di missione eccedenti quanto effettivamente pagato (Sez. 1, 1410/2000);
  • l’autorità giudiziaria ordinaria non ha il potere di valutare la conformità alla legge di un indirizzo interpretativo di un’altra giurisdizione (nella specie, una sentenza del Tribunale amministrativo regionale coperta da giudicato): ciò in quanto il cittadino – pena la vanificazione dei suoi diritti civili – non può essere privato della facoltà di fare affidamento sugli strumenti della tutela giurisdizionale posti a sua disposizione dall’ordinamento (Sez. 3, 54/1996).

A conclusione di queste sintetico riepilogo, tutto ci si poteva attendere tranne che un difensore invocasse il vizio di cui all’art. 606, lett. a), cod. proc. pen., poiché la sentenza di primo grado, evidentemente non contrastata sul punto dal giudice d’appello, si era riferita all’imputato definendolo “faccendiere”.
Il ricorso è stato definito da Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 1810/2022, udienza del 17 novembre 2021.

I giudici di legittimità hanno avuto buon gioco affermando che “le argomentazioni difensive non evidenziano affatto come la valutazione delle prove, da parte dei giudici di merito, sia stata condizionata da qualsivoglia pregiudizio, in relazione al quale, in ogni caso, altri sarebbero stati gli strumenti processuali da attivare (basti pensare alla ricusazione), non potendosi certamente fondare sull’isolato utilizzo di un termine – in ogni caso di uso comune nel linguaggio – il vizio dedotto, che non appare affatto compatibile, posto che l’art. 606, lett. a), cod. proc. pen. – norma di scarsissima applicazione – riguarda l’eccesso di potere giurisdizionale, che si verifica allorquando il provvedimento giurisdizionale si risolva nell’esercizio di una potestà riservata dalla legge agli organi legislativi ad un organo amministrativo)“.

È uno dei casi in cui la fantasia oltrepassa la realtà.