Il processo penale mediatico e i suoi effetti perversi (di Vincenzo Giglio)

Che il giudizio penale, i suoi luoghi e i suoi riti siano oggetto di un forte interesse popolare, è verità così evidente da non richiedere alcuna giustificazione.

Che tale interesse sia coevo alla nascita dell’idea di giustizia penale nella sua dimensione di rito collettivo, è verità anch’essa conclamata.

Si tratta di fenomeni comprensibili ed inevitabili, data l’essenziale premessa concettuale che sempre l’ha preceduta e legittimata: la pena, minacciata prima e applicata dopo, ha una funzione pedagogica che sarebbe frustrata se non le fosse assicurata la massima pubblicità.

La basicità di questa sequenza – pena>pedagogia>pubblicità – ha tale forza da restare impermeabile anche a sofisticazioni proprie della modernità tra le quali l’esigenza di una corretta ed imparziale rappresentazione del giudizio penale come un divenire organizzato in fasi e gradi, caratterizzato dalla presenza di più parti con diversi ruoli ma pari dignità, “pensato” per produrre un risultato denominato “verità processuale” ma solo dopo il completamento delle attività cognitive e valutative necessariamente propedeutiche alla sua acquisizione.

Quell’impermeabile basicità trova oggi la corrispondenza più confacente nel fenomeno denominato “processo mediatico” che, grazie al contributo di molte autorevoli voci dottrinarie che lo hanno identificato e definito con rigore, possiamo in prima battuta intendere come “circuito giudiziario parallelo a quello della giustizia penale ordinaria, che si risolve nella celebrazione del processo sui mezzi di informazione attraverso l’imitazione (poco fedele all’originale) della dinamica processuale e che è indirizzata ad un fine analogo: ricostruire il fatto e, ancora di più, attribuire responsabilità” (l’espressione è di Gaia Caneschi, in “Processo penale mediatico e presunzione di innocenza: verso un’estensione della garanzia?“, in Archivio Penale, 29 ottobre 2021, consultabile a questo link).

Ulteriori connotazioni si devono a Vittorio Manes nel suo saggio “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo“, Il Mulino, 2022.

Le si ricavano, col vantaggio della mediazione di un giudicante, da “Giustizia mediatica: una lettura necessaria degli effetti sul processo penale (e sui principi)“, la recensione del testo di Manes fatta dal magistrato Giuseppe Battarino, in Questione Giustizia, 16 luglio 2022, consultabile a questo link.

Il recensore condivide l’idea del processo penale “come itinerario della ragione che si attua «in una sede separata e protetta e in un ecosistema chiuso – il “sacro cerchio” dell’aula giudiziaria – secondo modalità predefinite nei luoghi, nei tempi e negli effetti, e secondo precise regole».

E’ costretto tuttavia a constatare che “A fronte di questa collocazione necessaria perché il processo (meglio: il procedimento, in tutte le sue fasi) penale continui a essere governato dai principi costituzionali avanza l’onda delle criminal breaking news, dei talk-show di cronaca, in cui si costruisce una narrazione processuale parallela (mediatica) qualificata dall’Autore – in contrapposizione ai tempi, luoghi e forme del procedimento penale – come a-topica, a-cronica, a-nomica“. 

Per poi aggiungere, attingendo letteralmente al saggio di Manes, “di fronte alla distanza temporale tra il processo anticipato in modo fast and frugal dai media e il processo reale, e al cospetto dell’eventuale esito divergente a cui i due “sistemi di verifica” possono condurre, è quasi scontata la tentazione di ritenere il secondo un’accozzaglia di orpelli formali, di lungaggini e cavilli da rimuovere per migliorarne le prestazioni in termini efficientistici, o persino di ritenere il primo strumento più efficace e tempestivo della giustizia istituzionale“.

Il processo mediatico si carica così di altre e tutte negative caratteristiche: non solo imitatore infedele del giudizio reale ma anche acriticamente sincopato (fast and frugal), sparpagliato sui media (a-topico), frenetico nel saltare alle conclusioni (a-cronico), indifferente alle regole probatorie e valutative (a-nomico).

Soprattutto, capace di effetti perversi.

Quest’ultimo accenno richiede un’aggiunta di riflessione.

La perversione è generalmente ricondotta alla lesione, talvolta al massacro, di principi basilari della nostra civiltà giuridica: la presunzione di innocenza, il diritto alla riservatezza, l’inviolabilità della difesa e la parità delle armi tra questa e l’accusa e tanto altro ancora.

Mi affido per descrivere questo tipo di effetti alle parole di un maestro come Francesco Carnelutti, tratte dal suo scritto “Le miserie del processo penale“, in ERI, Roma, 1957, p. 46: “il processo medesimo è una tortura. Fino a un certo punto, dicevo, non si può farne a meno; ma la cosiddetta civiltà moderna ha esasperato in modo inverosimile e insopportabile questa triste conseguenza del processo. L’uomo, quando è sospettato di un delitto, è dato ad bestias, come si diceva una volta dei condannati offerti in pasto alle fiere […] L’articolo della Costituzione, che si illude di garantire l’incolumità dell’imputato, è praticamente inconciliabile con quell’altro, che sancisce la libertà di stampa. Appena sorto il sospetto, l’imputato, la sua famiglia, la sua casa, il suo lavoro sono inquisiti, perquisiti, denudati alla presenza di tutto il mondo“.

Basterebbe e avanzerebbe questa perversione ma è innegabile che ad essa si aggiunga il rischio di un’altra, non meno grave: quella connessa alla pressione che il processo mediatico è in grado di generare sugli attori del processo reale e dunque l’accusa pubblica, la difesa privata e il giudice.

Da questo versante, si comprende bene che la vulgata ufficiale, tendente ad accreditare l’idea di professionisti sempre razionali e sempre avvezzi ed insensibili ad ogni genere di pressione e capaci di liberarsene, si risolve in una teorizzazione astratta più che in un’analisi realistica.

Si può citare un dato che sembra offrire una conferma empirica a quella che, altrimenti, sarebbe solo una sensazione.

Lo si trae da Marta Bertolino, “La rappresentazione mediatica della giustizia penale: dalla narrazione del crimine a quella del processo“, in dis-Crimen, 1-2024, pagg. 55 e ss. (consultabile a questo link), che a sua volta lo ha ricavato da Pieremilio Sammarco, “Giustizia e social media“, Il Mulino, 2019: “vale la pena richiamare quegli studi, dai quali è ad esempio emerso che: i processi con risonanza mediatica si concludono con una sentenza in linea di massima più estesa. Vale a dire più i media fanno da cassa di risonanza della vicenda processuale, maggiore è la lunghezza del provvedimento rispetto a quello di casi analoghi; che tali processi durano più a lungo in comparazione con gli altri processi aventi ad oggetto gli stessi reati, che però non sono sotto i riflettori dei media; ma, soprattutto, che nei processi con copertura mediatica le pene risultano più severe. In particolare, quando si tratta crimini violenti contro la persona, la condanna alla reclusione sarebbe di sei mesi maggiore rispetto alle condanne alla reclusione in processi per così dire “normali“.

C’è dell’altro, secondo l’Autrice: “D’altra parte, che il giudice possa farsi fuorviare dalle anticipazioni mediatiche giustizialiste sembra trovare conferma anche dagli studi sperimentali sugli errori cognitivi e le distorsioni della determinazione giudiziale dovuti a variabili attinenti «alla sfera dei valori o a quella morale e affettiva». Queste variabili assumono un ruolo significativo in situazioni di conflitto decisionale e/o soprattutto di stress emotivo, quali sono quelle in cui viene a trovarsi il giudice quando il fatto da giudicare è stato e lo è ancora sotto i riflettori dei media. Si evidenzia, infatti, come fenomeni di precomprensione, di pregiudizi morali, ideologici o religiosi, nonché sentimenti passioni, emozioni possano essere risvegliati da componenti esterne al processo e fra queste in particolare «l’opinione pubblica e l’impatto della comunicazione attraverso i mass media o i social network». Queste componenti «possono … incidere negativamente, dall’esterno, sulla coerenza logica della rappresentazione e della costruzione mentale della “storia” sottoposta alla valutazione e alla decisione del giudice“.

Perversioni che si aggiungono a perversioni e pregiudizi a pregiudizi: questo è ciò che abbiamo creato attorno alla giustizia penale e non c’è da esserne fieri.