Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 1335/2024, udienza del 28 febbraio 2024, in risposta alle censure di un ricorrente, ripropone due tra i più utilizzati refrain della giurisprudenza di legittimità di questi anni.
Motivazione per relationem
Con riferimento – come nel caso di specie – al (parziale) rinvio per relationem o mediante incorporazione della richiesta cautelare e alla possibilità che tale metodo non incida negativamente sulla complessiva legittimità dell’apparato argomentativo del giudice della cautela, va premesso che l’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza è osservata anche quando il giudice ripercorra gli elementi oggettivi emersi nel corso delle indagini e segnalati dalla richiesta del pubblico ministero, purché dal contenuto complessivo del provvedimento emerga la conoscenza degli atti del procedimento e, ove necessario, la rielaborazione critica degli elementi sottoposti al vaglio del riesame, giacché la valutazione autonoma non necessariamente comporta la valutazione difforme (Sez. 5, n. 1304 del 24/09/2018, dep. 2019, Rv. 275339; Sez. 6, n. 30774 del 20/06/2018, Rv. 273658).
Omessa annotazione della notizia di reato
L’omessa annotazione della notitia criminis nel registro previsto dall’art. 335 cod. proc. pen., con l’indicazione del nome della persona raggiunta da indizi di colpevolezza e sottoposta ad indagini “contestualmente ovvero dal momento in cui esso risulta“, non determina l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti sino al momento dell’effettiva iscrizione nel registro, poiché, in tal caso, il termine di durata massima delle indagini preliminari, previsto dall’art. 407 cod. proc. pen., al cui scadere consegue l’inutilizzabilità degli atti di indagine successivi, decorre per l’indagato dalla data in cui il nome è effettivamente iscritto nel registro delle notizie di reato, e non dalla presunta data nella quale il P.M. avrebbe dovuto iscriverla.
L’apprezzamento della tempestività dell’iscrizione, il cui obbligo nasce solo ove a carico di una persona emerga l’esistenza di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti, rientra nell’esclusiva valutazione discrezionale del pubblico ministero ed è sottratto, in ordine all’an e al quando, al sindacato del giudice, ferma restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinari o addirittura penali nei confronti del P.M. negligente (Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, Rv. 216248).
Note di commento
La Suprema Corte non intravede alcun profilo di illegittimità nella condotta del giudice delle indagini preliminari che, pronunciandosi su una richiesta cautelare, rinvii al suo contenuto per relationem (o, fa lo stesso, per incorporazione) purché, beninteso, dall’ordinanza cautelare si possa ricavare che il suo autore conosca gli atti del procedimento e, ma solo ove necessario, li abbia rielaborati criticamente.
Questo orientamento, a dispetto del suo radicato consolidamento, non dovrebbe cessare di stupire.
Si spaccia un prerequisito, cioè la conoscenza degli atti, come il primo e più importante parametro di conferma della correttezza delle argomentazioni poste a fondamento della decisione cautelare.
E si degrada a parametro facoltativo – richiesto solo “ove necessario” – la “rielaborazione critica” degli elementi offerti al vaglio del giudice che invece dovrebbe costituire il parametro essenziale per l’apprezzamento della sua autonomia decisionale.
Non sfugge che si tratta di teorizzazioni astratte e generali alle quali i collegi più attenti affiancano controlli ben più severi ma questa constatazione non sminuisce affatto la loro incongruenza logica e la loro insita pericolosità: le parole sono pietre e, una volta dette e scritte, ognuno può servirsene a suo piacimento, anche nelle direzioni più distanti dal loro significato.
Piacerebbe poter contare su un aggiornamento linguistico e semantico delle formule espressive appena citate ma la forza inerziale del comodo rifugio nel già detto non autorizza molte speranze.
Lo stesso vale per il secondo refrain.
Da quasi un quarto di secolo, ed in attesa che le modifiche del regime delle iscrizioni delle notizie di reato producano i risultati sperati, continua ad imperare la decisione Tammaro delle Sezioni unite penali del giugno 2000.
Le sue proposizioni sono chiare: il PM è padrone (o meglio, despota) delle iscrizioni nel registro ex art. 335 cod. proc. pen.; l’omessa o tardiva iscrizione e l’ampliamento surrettizio del termine di durata delle indagini che ne deriva non determinano alcuna inutilizzabilità; il giudice non dispone di alcun potere valutativo e, in ipotesi, correttivo; le uniche reazioni ordinamentali possibili ad eventuali abusi del PM sono di tipo disciplinare o penale.
La chiarezza di questa sequenza e la sua provenienza dalla fonte interpretativa più qualificata non impediscono di rilevare la fallacia di almeno alcuni dei suoi segmenti, a partire dall’ultimo: se il freno agli abusi doveva essere disciplinare o penale, si può senza tema di smentite affermare che ha clamorosamente fallito, non risultando, almeno per quanto a conoscenza dell’uomo comune, che alcun PM sia mai stato sanzionato per avere giochicchiato con le iscrizioni.
Si dovrebbe poi allargare la riflessione sulla tenuta logica di un’interpretazione il cui effetto è annichilire la prescrittività della regolamentazione dei termini delle indagini e, così facendo, regalare alla parte pubblica un vantaggio prezioso sulla controparte privata e quindi indebolire il tanto sbandierato principio della parità delle armi.
Ma si andrebbe troppo lontano e non è questa la sede per farlo.
Del resto, evergreen è ciò che dura nel tempo perché piace e conviene e il legislatore ci ha messo più di un paio di decenni per accorgersi che piacere e convenienza non sono sempre sinonimo di giustizia.
