Ingiusta detenzione: il pessimo esito dei ricorsi italiani a Strasburgo e le sue ragioni (di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi)

Abbiamo più volte evidenziato quanto sia difficile la strada da percorrere per chi ritenga di avere subito un’ingiusta detenzione e si rivolga alla giustizia per ottenere un’equa riparazione.

La meta perseguita è infatti ostacolata da significativi sbarramenti sia sul piano della giurisdizione interna che su quello sovranazionale della Corte europea dei diritti umani (d’ora in avanti Corte EDU).

Proviamo a capire perché, focalizzandoci su quest’ultimo piano.

I numeri

…Le statistiche nazionali

La fonte è costituita in questo caso dalla relazione del Ministro della Giustizia sulle misure cautelari per l’anno 2023, pubblicata qualche settimana fa.

Se ne ricava che l’anno scorso le Corti d’appello italiane hanno definito 1.120 procedimenti riparatori, accogliendone 543, rigettandone 506 e dichiarandone inammissibili 71.

L’esito di accoglimento ha interessato dunque un po’ meno della metà dei procedimenti e percentuali simili si sono manifestate anche nel quinquennio precedente (2018/2022).

…Le statistiche della Corte EDU

I “numeri” della Corte EDU hanno un elevato quantum di complessità e questo comporta che anche la loro semplice presentazione richieda una quantità di spiegazioni preliminari incompatibile con un post.

Chi volesse comunque documentarsi sugli ultimi dati disponibili può scaricarli dal sito della Professoressa Marina Castellaneta a questo link.

Qui invece ci limitiamo a riportare un periodo tratto da una pubblicazione della stessa Corte nell’ambito delle iniziative volte a diffondere, soprattutto tra i ceti professionali, la consapevolezza dei meccanismi e dei tecnicismi propri del ricorso a Strasburgo: “La Corte europea dei Diritti dell’Uomo respinge circa il 90% dei ricorsi che riceve in quanto inammissibili. Questo dato statistico e la nostra prassi indicano che la maggioranza dei e delle ricorrenti individuali e un buon numero di consulenti giuridici necessitano di una migliore conoscenza dei criteri di ammissibilità“.

Questa considerazione è contenuta in un report del 2015 ma mantiene intatta la sua validità anche oggi.

Cosa avviene a Strasburgo

I riferimenti normativi più frequenti dei ricorsi “italiani” alla Corte EDU in materia di ingiuste detenzioni riguardano la violazione degli articoli 5 (Diritto alla libertà e alla sicurezza) e 6 (Diritto a un processo equo) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (di seguito CEDU).

Segue il loro testo:

Articolo 5 – Diritto alla libertà ed alla sicurezza.

1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge:

a. se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente;

b. se è in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o per garantire l’esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge;

c. se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso;

d. se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa per sorvegliare la sua educazione o della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all’autorità competente;

e. se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo;

f. se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione.

2. Ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni accusa elevata a suo carico.

3. Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1 (c) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all’udienza.

4. Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso ad un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima.

5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione ad una delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione.

Articolo 6 – Diritto ad un processo equo.

1. Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o una parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la tutela della vita privata delle parti nel processo, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale quando, in speciali circostanze, la pubblicità potrebbe pregiudicare gli interessi della giustizia.

2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.

3. Ogni accusato ha più specialmente diritto a:

a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile, e in un modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico;

b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie per preparare la sua difesa;

c) difendersi da sé o avere l’assistenza di un difensore di propria scelta e, se non ha i mezzi per ricompensare un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio quando lo esigano gli interessi della giustizia;

d) interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’interrogazione dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico;

e) farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nell’udienza.

…Riparazione legata alla detenzione “illegale”

Si noti adesso che l’articolo 5, § 5, CEDU, subordina il diritto al risarcimento all’illegalità della detenzione.

Ne deriva che una detenzione meramente “ingiusta” ma non illegale (si pensi ad una custodia cautelare in carcere, legalmente imposta, ma poi seguita da assoluzione) non è tutelata dalla CEDU.  

Si rinvia per i chiarimenti del caso a Corte EDU, Grande Camera, 18.12.2002, N.C. c. Italia (consultabile a questo link).

…Casi di risarcimento ammessi dalla Corte EDU ma non dalla giurisprudenza nazionale

Le ipotesi di riparazione incluse nel secondo comma dell’art. 314 c.p.p. – la misura restrittiva emessa o mantenuta in assenza delle condizioni di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p. – non coincidono con il più ampio campo di tutela offerto dall’art. 5 § 5, che invece prevede il right to compensation per ogni restrizione subita in violazione dei paragrafi 1, 2, 3 e 4 dell’art. 5 CEDU, e quindi anche per difetto delle esigenze cautelari.

A tale proposito, la Corte EDU non ha mancato di intervenire con conseguente condanna dell’Italia.

Ad esempio, nel caso Picaro c. Italia (ricorso n. 42644/02, sentenza 9 giugno 2005, consultabile a questo link), la Corte ha constatato la violazione dell’art. 5 § 5 poiché il ricorrente, condannato con sentenza definitiva, non poteva ottenere la riparazione di cui all’art. 314, nonostante avesse subito una detenzione cautelare superiore ai termini stabiliti per legge e, quindi, illegittima ai sensi della Convenzione.

Ugualmente, nella sentenza Pilla c. Italia (ricorso n. 64088/00, 2 marzo 2006, consultabile a questo link), è stata ravvisatala violazione dell’art. 5 § 5 CEDU perché l’istante non aveva avuto accesso alla riparazione, pur essendo stato ristretto irregolarmente a causa dell’applicazione tardiva dell’indulto nei suoi confronti. Inoltre, rientrano nell’ambito di protezione dell’art. 5 § 1, lett. f, CEDU anche le restrizioni della libertà disposte avverso chi sia arrestato o regolarmente detenuto “per impedirgli di entrare illegalmente nel territorio di uno Stato” o avverso una persona contro la quale è in corso di un procedimento d’espulsione o d’estradizione.

Queste ipotesi, pur costituendo a tutti gli effetti delle sostanziali limitazioni della libertà personale assimilabili alla “detenzione”, non trovano, invece, un corrispettivo riconoscimento in termini di diritto alla riparazione ex artt. 314 e 315, come rilevato a più riprese anche dalla Corte EDU (Zeciri c. Italia (ricorso n. 55764/00, 4 agosto 2005, violazione dell’art. 5 § 1, lett. f e § 5 CEDU per il mantenimento irregolare del ricorrente in un centro di accoglienza temporaneo in attesa dell’espulsione); Seferovic c. Italia (ricorso n. 12921/04, 8 febbraio 2011, violazione dell’art. 5 § 1, lett. f e § 5 CEDU per il trattenimento irregolare della ricorrente in un centro di soggiorno temporaneo in attesa dell’espulsione); Richmond e altri c. Italia (ricorsi n. 3342/11, n. 3391/11; n. 3408/11; n. 3447/11, 6 ottobre 2016, violazione dell’art. 5 § 1, lett. f e § 5 CEDU per il trattenimento irregolare dei ricorrenti in un Centro di identificazione ed espulsione).

L’altro tema da sviluppare è che l’articolo 5 della Convenzione non prevede cause ostative al riconoscimento dell’indennizzo.

La previsione di cause ostative al riconoscimento dell’indennizzo non trova riscontro nell’art. 5 § 5 CEDU, il quale prevede il “right to compensation” ogniqualvolta sussista una detenzione illegale, prescindendo dal comportamento tenuto dall’istante.

Tuttavia, una siffatta previsione potrebbe non ritenersi necessariamente (del tutto) incompatibile con gli obblighi convenzionali: invero, l’istituto della riparazione trova la sua ratio nel principio solidaristico e, qualora un soggetto abbia dato causa o concorso a dare causa alla detenzione di cui è stato vittima, è “ragionevole” che lo Stato possa tener conto di tali comportamenti, onde evitare di porre a carico della collettività le conseguenze economiche di un “errore” altrui.

Profili di incompatibilità potrebbero, comunque, sorgere con riguardo all’interpretazione che i tribunali nazionali propongono di tali “cause ostative”.

Ed infatti, specie sotto il profilo della “colpa grave”, la giurisprudenza interna tende ad una lettura alquanto estensiva di quest’elemento, con una consistente – talvolta sistematica – restrizione del campo applicativo dell’art. 314.

Tra le condotte ritenute idonee a configurare “colpa grave” ostativa all’indennizzo riparatore, la Corte di legittimità ha incluso i più svariati comportamenti ed ha altresì precisato che il giudice della riparazione “deve valutare la condotta che il richiedente ha tenuto sia prima che dopo il momento della perdita della libertà e, più in generale, anteriormente alla legale conoscenza dell’attivazione di indagini a suo carico”.

Un simile approccio restrittivo rischia di porsi in rotta di collisione con l’approccio più garantista seguito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

In tal senso depone, infatti, la pronuncia Fernandes Pedroso c. Portogallo (ricorso n. 59133/11, 12 giugno 2018, §§ 137 –139) adottata contro lo Stato portoghese in materia di riparazione ex art. 5 § 5 CEDU.

Nel caso di specie, il ricorrente, deputato della Repubblica portoghese, era stato coinvolto in uno scandalo di pedofilia e, per tale motivo, arrestato dalle autorità portoghesi.

A seguito di interrogatorio di garanzia, il pubblico ministero aveva richiesto l’applicazione della detenzione cautelare, ritenendo sussistenti sia gravi indizi di colpevolezza sia motivi di ordine pubblico; il giudice competente aveva concesso la misura e, in un secondo momento, aveva confermato anche il suo mantenimento. Tuttavia, a seguito di ricorso, i giudici di appello avevano annullato senza rinvio l’ordinanza del giudice di prime cure ed avevano ordinato l’immediata messa in libertà. Nello specifico, la Corte di appello aveva ritenuto che non vi fossero indizi di colpevolezza a carico del ricorrente tali da poter giustificare l’applicazione di misure restrittive e che non sussistessero neppure esigenze cautelari.

Infine, il procedimento penale si era concluso con la richiesta del pubblico ministero di non rinviare a giudizio l’indagato per insufficienza di prove a suo carico.

Al termine di tale trafila giudiziaria, il ricorrente aveva formulato dinanzi al Tribunale di Lisbona domanda di indennizzo per il periodo di detenzione illegittimamente subita.

Tuttavia, seppur in prima istanza le corti nazionali avevano riconosciuto le ragioni del ricorrente, successivamente la Corte di appello aveva respinto la richiesta.

Infatti, i giudici avevano ritenuto che per aver diritto alla riparazione non fosse sufficiente dimostrare l’illegittimità della detenzione cautelare, ma bisognasse provare che questa fosse stata “manifestamente illegittima”.

Ad opinione dell’organo giudicante, la ratio di una tale impostazione risiedeva nella protezione del potere discrezionale di cui godono i giudici nella valutazione sull’applicazione o meno di misure restrittive.

Ebbene, viste declinate le sue richieste di riparazione a livello nazionale, il signor Pedroso decideva di ricorrere in Corte EDU, sia per far valere l’illegittimità delle misure cautelari adottate nei suoi confronti sia per dolersi delle decisioni delle corti nazionali in materia di indennizzo riparatore. Sul punto, i giudici di Strasburgo, una volta accertata l’unlawfulness della detenzione cautelare a cui era stato sottoposto il ricorrente (tra l’altro già riconosciuta con la sentenza di annullamento dei giudici di appello), procedevano all’analisi della doglianza di violazione dell’art. 5 § 5 CEDU. Al riguardo, sostenevano che le giurisdizioni nazionali non avevano “interpretato ed applicato il diritto interno secondo lo spirito dell’art. 5 §§ 1 e 4 della Convenzione” e che, stando al diritto nazionale, non esisteva alcun rimedio esperibile dal ricorrente per ottenere la riparazione.

E dunque, “tenuto conto dell’interpretazione restrittiva delle giurisdizioni interne chiamate a decidere sulla domanda di riparazione del ricorrente”, la Corte ha concluso per la violazione dell’art. 5 § 5 CEDU.

Alla luce di tale pronuncia, una serie di riflessioni si impongono al legislatore nazionale ed agli operatori di diritto.

Un primo rilievo concerne, in via preliminare, la compatibilità dell’estensione delle cause ostative del primo comma dell’art. 314 c.p.p. al secondo comma.

Invero, la posizione della Corte europea in materia di “right to compensation”, allo stato, appare chiara: laddove la detenzione è illegittima, deve esistere uno strumento di riparazione accessibile a chi è stato vittima della misura contra legem.

I giudici di Strasburgo potrebbero, pertanto, ritenere non in linea con le garanzie dell’art. 5 § 5 CEDU l’imposizione di limiti – di qualsiasi tipo – allo strumento di riparazione per i casi di ingiustizia ex ante.

Al riguardo la sopracitata sentenza Fernandes Pedroso è indicativa: un soggetto erroneamente posto in custodia cautelare merita di aver accesso all’indennizzo riparatore.

Se, invece, la Corte europea riconoscesse un margine di discrezionalità in capo allo Stato e considerasse “legittima” la previsione di cause ostative alla riparazione in nome del principio di auto-responsabilità e di solidarietà, resterebbero, comunque, dubbi sull’ampia lettura che la giurisprudenza interna fornisce degli elementi del “dolo” e, soprattutto, della “colpa grave”.

Come già osservato, la casistica delle condotte che la Corte di legittimità attualmente include in tali concetti è talmente estesa da restringere in maniera considerevole l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione; addirittura, le corti di merito tendono a comprendere nella “colpa grave” anche una serie di comportamenti leciti e tenuti prima dell’instaurazione del procedimento penale o a qualificare “colpa grave” l’esercizio di alcuni diritti di difesa, quale ad esempio l’esercizio della facoltà di mentire o professarsi innocente in sede di interrogatorio di garanzia.

Recentemente la Cassazione ha provato ad invertire la rotta con la sentenza numero 6321/2024 della sezione 4 che si è occupata di ingiusta detenzione e del diritto dell’indagato di professarsi innocente in sede di interrogatorio senza che l’esercizio di questo diritto sia ostativo al riconoscimento dell’indennizzo per la carcerazione ingiustamente subita.

La Suprema Corte ha evidenziato che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, a seguito della modifica dell’art. 314 cod. proc. pen. ad opera dell’art. 4, comma 1, lett. b), d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, non integra ipotesi di dichiarazione mendace o menzognera dell’indagato, ostativa al riconoscimento del beneficio perché sintomatica di colpa grave, la mera negazione, in sede di interrogatorio, della veridicità degli elementi di accusa o l’affermazione di estraneità agli addebiti, costituendo esse espressione del legittimo esercizio del diritto di difesa (a questo link per un approfondimento di Terzultima Fermata).

…Stigmatizzazione dell’eccessivo formalismo valutativo riservato alle istanze riparatorie

Negare l’accesso di fatto al giudice potrebbe violare l’art. 6, § 1, CEDU, in quanto la declaratoria d’inammissibilità della richiesta di ingiusta detenzione, fondata su un’interpretazione restrittiva delle norme processuali nazionali lede il diritto d’accesso al giudice.

Segnaliamo, come decisione in termini, Corte EDU, Sez. 1^, 17 novembre 2022, Makrylakis c. Grecia.

Anche la Cassazione recentemente si è soffermata sul formalismo che impedisce di fatto l’accesso al Giudice e svilisce le sentenze della Corte EDU.

Si segnala la lacuna del nostro ordinamento in merito all’assenza, per quanto attiene alla materia della riparazione dell’ingiusta detenzione, di strumenti volti a risolvere l’efficacia di giudicato delle pronunce emesse nei confronti di chi abbia successivamente adito, con esito favorevole, la Corte europea ed abbia perciò pieno diritto ad un nuovo esame della propria domanda; e, dall’altro, dell’ineludibilità dell’obbligo di dare attuazione alle pronunce del giudice europeo.

La Cassazione sezione 4 con la sentenza numero 18288/2023 Rv 284770-01 ha esaminato, stabilendo che in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione di cui all’art. 314 cod. proc. pen., l’accoglimento del ricorso da parte della Corte EDU, per violazione, ex art. 6 della Convenzione, del diritto alla trattazione in pubblica udienza dell’istanza di riparazione, consente all’interessato di riproporre la domanda ai sensi dell’art. 315 cod. proc. pen., non essendo, a tal fine, ostativo il giudicato intervenuto sulla decisione di rigetto dell’originaria istanza, stante la necessità di dare attuazione, in tal modo, alla pronuncia del giudice europeo, pur in assenza di uno specifico strumento (a questo link per il nostro approfondimento sul punto).

…Parametri risarcitori

La Corte EDU non ha mai esplicitamente indicato nelle proprie sentenze/decisioni quali siano i criteri di risarcimento, limitandosi a sancire che:

– spetta in primo luogo all’ordinamento interno risarcire la detenzione illegale;

– spetta poi alla Corte valutare se il risarcimento offerto a livello interno è sufficiente, prendendo in considerazione l’ammontare di risarcimento che la Corte ha accordato in casi simili.

Si tratta dunque sempre di valutare se ci sono sentenze o decisioni che hanno affrontato casi simili a quello che si prende in esame.

Citiamo, a titolo esemplificativo di danni morali riconosciuti dalla Corte di seguito alcune sentenze, restando sempre fermo il fatto che esse non costituiscono “precedenti” su cui si può basarsi per ogni tipo di detenzione illegale, essendo necessario esaminare nel dettaglio le circostanze del caso concreto per comprendere se si approssimano a quelle dei singoli casi citati.

Corte EDU, Grande Camera, 71503/2001, Assanidze c. Georgia, 8 aprile 2004 

In questo caso la Corte ha riconosciuto € 150.000 a titolo di danno morale per una detenzione illegale protrattasi dal 2001 al 2004.

Corte EDU, Sez. III, 2474/2006, Ganea c. Moldova, 17 maggio 2011

In questo caso la Corte ha riconosciuto € 6.000 a titolo di danno morale per tre giorni di detenzione illegale.

Corte EDU, Sez. IV, 18491/2007, Hyde Park e altri c. Moldavia, 7 aprile 2009

In questo caso la Corte ha riconosciuto tra 2.500 e 3.000 euro per 40 ore di arresto senza base legale.

Corte EDU, Sez. IV, 1444/005, Leva c. Moldova, 15 dicembre 2009

In questo caso la Corte ha riconosciuto € 4.000 euro per 72 ore di arresto senza base legale.