Un’altra storia del 41-bis: due mazzi di carte come mezzi di trasmissione di messaggi all’esterno (di Vincenzo Giglio)

Vicenda giudiziaria e ricorso per cassazione

Un detenuto sottoposto al regime differenziato ex art. 41-bis, legge 26 luglio 1975, n. 354, chiede alla direzione della casa circondariale ove è ristretto di essere autorizzato all’acquisto di due mazzi di carte da gioco, uno francese e l’altro napoletano, da tenere in cella e da utilizzare nelle ore destinate alla socialità, esclusivamente con i detenuti inseriti nel medesimo gruppo, così da poter evitare di servirsi delle carte da gioco messe a disposizione dall’amministrazione, onde limitare il pericolo di contagio da Covid-19.

Seguono il diniego della direzione, il rigetto del reclamo da parte del magistrato di sorveglianza e la conferma del rigetto da parte del tribunale di sorveglianza.

Segue ulteriormente il ricorso per cassazione mediante il quale il difensore del detenuto denuncia la carenza di motivazione dell’ordinanza impugnata in ordine alla lesione al diritto alla salute, che era stata oggetto di specifica deduzione ad opera del ricorrente, ed alla pretesa possibilità di veicolare verso l’esterno messaggi illeciti mediante l’utilizzo delle carte da gioco.

Decisione della Corte di cassazione (cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 50845/2023, udienza del 17 novembre 2023)

Il collegio ha considerato inammissibile il ricorso, affermando che i giudici di sorveglianza hanno correttamente valutato come la decisione dell’amministrazione di negare al detenuto la possibilità di detenere un mazzo di carte, all’interno della cella, non incida sulle rappresentate ragioni attinenti alla tutela della salute, asseritamente correlate al pericolo di diffusione del contagio da Covid-19. Premesso come sia restato indimostrato lo stesso assunto dal quale muove la richiesta, ossia quello della possibilità di aumento del pericolo di contagio, correlato all’uso comune e indifferenziato del mazzo di carte, da parte di una pluralità di detenuti, il Tribunale ha chiarito che: – anche nel periodo di maggior virulenza dell’epidemia, il pericolo di diffusione veniva fronteggiato mediante l’uso di mascherine chirurgiche e del gel igienizzante per le mani, nonché attraverso la continua sanificazione di tutti i locali; – che sono ormai venute meno tutte le prescrizioni e cautele legate allo stato pandemico; – che, comunque, alcuna specifica esigenza di cura e protezione dello stato di salute del detenuto risulta esser stata rappresentata o documentata, non essendo stata segnalata alcuna patologia del condannato e, neanche, una forma di fragilità dello stesso, che possa imporre l’adozione, da parte dell’amministrazione penitenziaria, di particolari cautele.

Il tribunale di sorveglianza, contrariamente alla specifica deduzione difensiva, ha anche chiarito come la detenzione di mazzi di carte all’interno della cella – sarebbe a dire, al di fuori dell’utilizzo già garantito ai ristretti, nei momenti di ricreazione e socialità – possa essere foriera anche di un improprio utilizzo delle carte stesse, quale mezzo utilizzato per comunicare messaggi illeciti. Trattasi di una deduzione contrastata dalla difesa mediante argomentazioni di tenore meramente generico e assertivo, che non dialogano con lo specifico contenuto del provvedimento impugnato.

Oltre a risultare insussistente, pertanto, la lamentata violazione di legge, risulta altresì priva di contenuto la critica formulata nei confronti dell’apparato argomentativo adottato dal Tribunale di sorveglianza, che – ad onta delle doglianze difensive – ha invece dipanato una motivazione coerente, logica e priva di spunti di contraddittorietà.

Commento

La decisione qui annotata è un eccellente esempio di quella tendenza che in altre occasioni è stata definita “giurisprudenza del no“, intendendo per tale un orientamento che legittima scelte immotivatamente ed inutilmente restrittive dell’amministrazione penitenziaria sulla base di considerazioni apodittiche e tautologiche.

La sequenza dei fatti è chiara: nel periodo della pandemia, un detenuto chiede di acquistare due mazzi di carte per evitare il rischio di contagio che potrebbe derivare dall’uso delle carte impiegate promiscuamente nella sezione in cui è ristretto.

A questa richiesta segue una trafila di no che culmina nella sentenza della Cassazione che li avalla in ogni loro parte.

Giusto negare l’acquisto perché, tanto, l’amministrazione penitenziaria è stata massimamente scrupolosa nella prevenzione dei rischi di contagio.

Giusto negarlo anche perché il detenuto che dispone privatamente di due mazzi di carte può servirsene per mandare messaggi all’esterno.

Si considera irrispettoso per l’intelligenza dei lettori riproporre le tante analisi di osservatori pubblici e privati che hanno evidenziato la presenza nelle carceri italiane di un rischio di contagio ben superiore a quello degli individui in libertà oppure ricordare le misure emergenziali, peraltro criticatissime, che hanno portato alla scarcerazione dei detenuti di salute più fragile per sottrarli alle conseguenze potenzialmente letali della pandemia.

Si affida alla stessa intelligenza la valutazione della pregnanza del rischio di veicolazione di messaggi all’esterno: ci si limita ad osservare la singolarità del ragionamento del collegio di legittimità che, mentre imputa al ricorrente di avere speso considerazioni generiche ed assertive sul punto, avalla quelle del tribunale di sorveglianza che, per quanto desumibile dalla sentenza, si limitavano ad affermare la possibilità della veicolazione.  Resta infine un’ultima osservazione ed è quella della dimensione della questione: minuta, piccina che più non si potrebbe (due mazzi di carte, per la miseria), eppure occasione anch’essa di una dimostrazione pedagogica di potere e di forza totalmente autoreferenziali.