Onofrio Clerici, il giudice che disprezzava gli italiani (di Vincenzo Giglio)

È difficile scrivere una storia se si è costretti a farlo in modo diverso da come si vorrebbe.

A me sarebbe piaciuto dire solo alla fine che Onofrio Clerici è un personaggio letterario, non qualcuno realmente esistito.

Ma poi ho riflettuto: col pensiero sincopato e frettoloso tipico di oggi, più d’uno si fermerebbe alle prime righe o si farebbe addirittura bastare il titolo e concluderebbe che questo post è un indizio grave di vilipendio della magistratura.

E quindi no, non c’è mai stato un giudice di nome Onofrio Clerici e se c’è stato, non è quello di cui parlo io.

Il nostro Clerici è il protagonista del racconto breve Impiccagione di un giudice, parte della raccolta Ultimo viene il corvo, pubblicata nel 1949 da Italo Calvino.

Siamo dunque a soli quattro anni di distanza dalla fine della guerra e, come si può immaginare, il ricordo del ventennio fascista era ancora freschissimo nella testa degli italiani, con l’aggiunta dello sdegno per chi l’aveva subito e della nostalgia per chi l’aveva assecondato.

Clerici era tra quelli che ci avevano sguazzato.

Da qualche tempo notava attorno a lui segnali di ostilità: sguardi malevoli, disegni di forche e di impiccati tracciati col gesso sulle mura di casa sua, mormorii e rumori alla lettura delle sue sentenze.

Nessuno di quei segnali gli era sfuggito ma non gliene importava: venivano da “questa gentetta logora, non buona a rispondere a tono nelle testimonianze, non buona a sedere rispettosa nel pubblico, questa gentetta sempre carica di figli e di debiti e d’idee storte: gli italiani“.

E Clerici sapeva bene che brutta razza erano gli italiani: “donne sempre incinte con in braccio bambini con le croste, giovinotti dalle guance bluastre che se non c’è la guerra son buoni solo a fare i disoccupati e a vendere tabacco alle stazioni; vecchi con l’asma e l’ernia e mani tanto piene di calli da non saper reggere la penna per firmare il verbale: una razza di malcontenti, piagnucoloni e attaccabrighe, che a non tenerli a freno vorrebbero tutto per sé e s’installerebbero dappertutto trascinando i loro marmocchi crostosi e le loro ernie, e calpestando gusci di caldarroste sui pavimenti“.

Ma non tutti erano così: “Per fortuna c’erano loro, la razza delle persone ammodo, una razza dalla pelle liscia e floscia, dai peli nel naso e nelle orecchie, dalle natiche stabili come fondamenta sulle poltrone imbottite, una razza tintinnante di onorificenze, decorazioni, collanine, occhiali a stanghetta, monocoli, apparecchi acustici, dentiere; una razza cresciuta per i secoli sulle poltrone barocche delle cancellerie d’antichi reami; una razza che sa fare le leggi e applicarle e farle rispettare nella misura che gli fa comodo; una razza legata da una segreta intesa, da una scoperta comune: che gli italiani sono una gentucola schifosa e in Italia si starebbe meglio se gli Italiani non ci fossero, o almeno se non si facessero tanto sentire“.

Dovrei adesso descrivere lo sviluppo della storia e la sua fine ma non lo farò: in parte per non sciupare il piacere di leggerla per chi non l’avesse ancora fatto, in parte perché il suo titolo dà un’indicazione precisa della sorte riservata al giudice Clerici, anche se nulla rivela del modo decisamente ingegnoso utilizzato dalla “gentetta” per arrivarci.

Dovrei trarre una qualche morale dalla storia, del tipo “Mai più un giudice così“, ma figuriamoci, noi contemporanei mai e poi mai potremmo correre un rischio del genere.

E quindi mi limito a ripetere l’ovvio: Onofrio Clerici è stato soltanto un sogno o, meglio, un incubo, nato dalle inesauribili risorse di uno scrittore tra i più immaginifici.

Roba per visionari sfrenati, insomma, nient’altro che questo.