La lingua del diritto deve essere per tutti (di Riccardo Radi)

Quella del diritto è necessariamente una lingua tecnica, ma lingua tecnica non può voler dire lingua comprensibile ai soli specialisti.

Sia la lingua della legge, sia quella della pratica del diritto, sia quella dell’amministrazione dovrebbero poter arrivare anche ai cittadini, in primo luogo per ragione di democrazia: non bisogna dimenticare che, ad esempio, le sentenze sono pronunciate in nome del popolo, e la motivazione ha anche la funzione extra-processuale di rendere il processo controllabile dai cittadini. E va anche tenuto conto che il livello d’istruzione in Italia è, purtroppo, tra i più bassi d’Europa.

L’obiettivo si può raggiungere non tanto abbandonando il lessico tecnico, che è necessario proprio ai fini della chiarezza, ma abituando il giurista – sia giudice, sia avvocato, sia funzionario pubblico, sia redattore tecnico delle leggi – fin dal momento della sua formazione a un periodare piano, ma al tempo stesso adeguato alla complessità delle questioni da risolvere”, parole di Federigo Bambi che ha dimostrato che nell’antichità la lingua del diritto riusciva ad essere chiara e comprensibile a tutti.

Proponiamo un breve estratto dell’articolo “Una lingua davvero per tutti (quella del diritto)” pubblicato il 2 aprile 2024 dall’Accademia della Crusca Una lingua davvero per tutti (quella del diritto) – Accademia della Crusca

“… la storia dimostra che, con qualche aggiustamento spesso necessario, si può avere – perché si è avuta – una lingua del diritto capace di arrivare anche ai cittadini poco addentro alle sottigliezze della giurisprudenza e alle asperità del suo linguaggio. Almeno sul versante della pratica del diritto. Ma su quello della legge si potrebbe forse dire una cosa simile.

Ci può aiutare un’occhiata di sfuggita alla nostra Costituzione. Tra l’estate del 1946 e il 22 dicembre del 1947 fu costruita con il lavoro paziente dei costituenti che alla fine avevano imparato a tenere “tra le mani una bilancia per pesare le parole, una bilancia la quale ha una sensibilità che è ancora maggiore di quella dell’orafo” (così il costituente Gustavo Ghidini).

Riuscirono con questa acquisita capacità a scrivere un testo che nel 1948, quando la Costituzione entrò in vigore, poté raggiungere il 40% della popolazione, poté cioè essere facilmente capita da una percentuale alta di italiani, trattandosi pur sempre di una legge. Perché scelsero con accuratezza le parole, limitando al massimo quelle tecniche e usando soprattutto i vocaboli più comuni, perché abilmente costruirono i periodi, privilegiando le frasi brevi, perché con estrema perizia retorica seppero legare strettamente il testo, basti pensare alla progressione tematica che caratterizza i primi articoli della carta.

E anche quando il compromesso sottostante all’articolo fu difficile da raggiungere, ciò non incise sulla chiarezza della forma linguistica. Emblematico è il secondo comma dell’art. 3, che introduce il principio dell’eguaglianza sostanziale, vero caposaldo per la realizzazione della Giustizia vera (suum cuique tribuere: dare a ciascuno il suo):  

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Insomma, i costituenti riuscirono a fare emergere la novità del secondo comma dell’art. 3 attraverso una piena consapevolezza lessicale e un’attenta costruzione sintattica.
Sicché concordi i giuristi e i linguisti considerano la Costituzione del 1948 un testo normativo modello.

Ci sono leggi recenti, e meno, che sono scritte bene (un esempio classico è il Codice civile), ma in genere la loro qualità di scrittura e di chiarezza è bassa. Ed è stato mostrato molto di recente che oggi le nostre leggi risentono di difetti simili a quelli che caratterizzano la lingua della pratica del diritto, e la loro lettura è sempre più difficile: gli articoli sono lunghi e troppo densi di contenuti, le rubriche non indicano con appropriatezza quanto la norma stabilisce; anche le frasi sono lunghe e spesso caratterizzate dalla nominalizzazione (un solo nome sostituisce un verbo e quindi un’intera frase); il lessico è spesso usato impropriamente; per non dire poi degli eccessivi rinvii e riferimenti ad altre norme.

Quella del diritto è necessariamente una lingua tecnica, ma lingua tecnica non può voler dire lingua comprensibile ai soli specialisti. Sia la lingua della legge, sia quella della pratica del diritto, sia quella dell’amministrazione dovrebbero poter arrivare anche ai cittadini, in primo luogo per ragione di democrazia: non bisogna dimenticare che, ad esempio, le sentenze sono pronunciate in nome del popolo, e la motivazione ha anche la funzione extra-processuale di rendere il processo controllabile dai cittadini. E va anche tenuto conto che il livello d’istruzione in Italia è, purtroppo, tra i più bassi d’Europa.

L’obiettivo si può raggiungere non tanto abbandonando il lessico tecnico, che è necessario proprio ai fini della chiarezza, ma abituando il giurista – sia giudice, sia avvocato, sia funzionario pubblico, sia redattore tecnico delle leggi – fin dal momento della sua formazione a un periodare piano, ma al tempo stesso adeguato alla complessità delle questioni da risolvere. Se la costruzione del periodo è il più possibile piana (non necessariamente semplice: a volte può essere necessario articolare il discorso in subordinate, se si tratta di affrontare un ragionamento complesso), se le frasi sono brevi, se si abbandonano le parole che non esprimono un concetto tecnico, ma servono solo ad alzare il tono del discorso, anche chi giurista non è riesce subito a individuare i tecnicismi; una volta individuati, ha oggi tutti gli strumenti per disinnescarne la complessità semantica.

La capacità linguistica i costituenti se la costruirono seduta dopo seduta, e non disdegnarono neppure di avvalersi della consulenza linguistica di esperti. Oggi è sempre più necessario che una formazione linguistica sia acquisita da tutti i giuristi, non solo perché si possano fare intendere dai comuni cittadini, ma anche per capirsi meglio tra loro in un mondo – quello del diritto – sempre più caratterizzato da specializzazioni e da specialismi, anche lessicali. In questa direzione è necessario che si muovano in primo luogo le università: alcune scuole di giurisprudenza si stanno aprendo anche agli aspetti linguistici del diritto, non solamente a quelli dogmatici tradizionali, nella riscoperta consapevolezza che il primo strumento del mestiere del giurista, accanto al codice, è la scrittura“.

Una chiara indicazione in questa direzione ci viene dalla recente riforma del processo civile che ha introdotto anche in questo settore dell’ordinamento il principio di sinteticità e chiarezza degli atti. Con un decreto ministeriale attuativo, il DM 110/2023, sono stati stabiliti criteri di redazione degli atti, limiti dimensionali, e tecniche redazionali. Senza ingabbiare troppo la lingua degli avvocati e dei giudici, la riforma ha anzi fornito gli strumenti per esaltarne le potenzialità perché si basa essenzialmente su un presupposto culturale: sinteticità significa commisurare la lunghezza e la complessità dell’atto (sia della parte, sia del giudice) alla difficoltà delle questioni che si devono affrontare; ed è lo strumento per giungere alla chiarezza, in una sorta di endiadi. E pertanto il giurista fin dalla sua formazione deve abituarsi a usare un linguaggio adeguato sia sotto il profilo lessicale sia sotto il profilo sintattico e retorico: aperto ai termini tecnici, ma non ai “paroloni” che servono solo ad alzare il registro; sicuro nella gestione di frasi brevi e di periodi con poche subordinate, ma pronto ad aumentare la complicazione sintattica tutte le volte che sarà necessario esporre un ragionamento complesso.

Occorre attrezzarsi così nell’interesse dei cittadini, che devono poter comprendere le leggi e la giustizia il più possibile senza intermediari, ma anche degli stessi giuristi, che potranno capirsi con meno difficoltà tra loro stessi, e nell’interesse del sistema giustizia, che anche con la semplificazione linguistica vedrà finalmente attuarsi il giusto processo di cui al rinnovellato art. 111 della Costituzione.

Solo così la lingua del diritto potrà davvero diventare una lingua per tutti: la storia – come sempre – ce lo dimostra”.

Queste le parole di Federigo Bambi che ci permettiamo di chiosare con una riflessione estratta dall’articolo: “Le leggi giuste e le parole giuste. La comprensibilità e l’accessibilità delle leggi: una mera chimera?” pubblicato nell’ottobre del 2020 dalla rivista Percorsi Penali a firma del sottoscritto e del collega Iacopo Benevieri.

“Una riflessione conclusiva: linguaggio e democrazia

Un tema si intravede sul fondo di queste nostre brevi considerazioni ed è quello che riguarda il rapporto tra linguaggio e democrazia.

Nel 1977, in occasione della lezione inaugurale Collège de France, Barthes disse che il linguaggio stesso è una legislazione, di cui la lingua è il codice[22].

In termini analoghi, il linguista Roman Jakobson ha sottolineato come la lingua consenta di realizzare una molteplicità di funzioni: una funzione conoscitiva, di conoscenza degli oggetti del mondo; una funzione emotiva o espressiva, deputata a esprimere il nostro atteggiamento individuale; una funzione conativa, che ci consente di agire sul destinatario delle nostre parole; una funzione fatica, con cui creiamo contatto e relazione con l’altro; una funzione metalinguistica, che parla sul linguaggio stesso; una funzione poetica, cioè funzionale alla creazione mediante parole[23].  Si tratta di funzioni che possono essere esercitate solo entro determinati perimetri (la grammatica, il sistema dei fonemi, la sintassi, il lessico, le regole retoriche e argomentative). Dunque, la lingua ci consente di dire, ma in un certo modo.

Non solo: la lingua determina anche la nostra esperienza, perché ci fornisce classificazioni e ripartizioni già pronte, vale a dire un ordine del mondo. Parlando una lingua, confermiamo in fondo la nostra appartenenza a una cultura e a uno stile di vita determinato.

Ecco perché per Barthes nel linguaggio si nasconde il principio primo del potere: perché il potere, che diffuso, è ubiquamente presente “nei più delicati meccanismi dello scambio sociale: non solo nello Stato, nelle classi, nei gruppi, ma anche nelle mode, nelle opinioni comuni, negli spettacoli, nei giochi, negli sport, nelle informazioni, nei rapporti familiari e privati, e persino nelle spinte liberatrici che cercano di contestarlo[24], agisce attraverso la lingua che parliamo. Quando parliamo, lungi dall’essere creatori dei nostri segni linguistici, siamo in realtà condizionati da quel potere che si annida nei nostri discorsi.

Dunque, se il potere della lingua è un dominio diffuso nel corpo sociale risulta fondamentale per la convivenza civile la trasparenza e la comprensibilità del linguaggio della legge.

Il motivo potrebbe apparire banale se non fosse spesso dimenticato: la legge è uno dei linguaggi specialistici socialmente più rilevanti, in quanto presiede alla regolamentazione delle manifestazioni e degli aspetti dei rapporti intersoggettivi, e quindi della nostra vita comune nella polis[25].

Dunque le norme sono fondamentali strumenti al fine della convivenza sociale e il linguaggio che le forma deve essere il più possibile accessibile a tutti i cittadini, affinché possano esercitare quel diritto e quel dovere, previsti dalla Costituzione, di verificare l’operato dei rappresentanti in Parlamento, operato che si manifesta nell’attività normativa.

L’esigenza di chiarezza nei testi normativi appare ancora più urgente se consideriamo come, secondo quanto riferito da “Il Sole 24 Ore”, nel 2018 gli italiani classificati come “analfabeti funzionali” sarebbero più del 47% della popolazione (https://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/03/21/anche-tu-un-analfabeta-funzionale/). Si tratta di coloro che sanno leggere e scrivere ma hanno difficoltà a comprendere testi semplici, come le istruzioni di un elettrodomestico.        

Fuori da un modello di chiarezza e di leggibilità (e intelligibilità) il testo normativo rischia di rimanere confinato in una dimensione esoterica, riservata a pochi alfabetizzati e oscura per colui che dovrebbe per primo comprenderlo, cioè il cittadino medio (probabilmente analfabeta funzionale).

Concludiamo il contributo, con un pensiero di Louis Brandeis (avvocato e giurista statunitense, componente della Corte Suprema): “Se vogliamo che la legge venga rispettata, per prima cosa dobbiamo fare leggi rispettabili””.

Per chi volesse leggere l’intero articolo: Le leggi giuste e le parole giuste. La comprensibilità e l’accessibilità delle leggi: una mera chimera? (filodiritto.com)