La lingua giuridica può essere oppio per il popolo? (di Vincenzo Giglio)

Può essere che la lingua giuridica sia oppio per il popolo come lo era la religione per Karl Marx?

Tre campioni tra i tanti

Mi serve, prima di giustificare questa domanda e azzardare una plausibile risposta, offrire tre piccoli ma significativi esempi della materia prima su cui intendo lavorare: il primo desunto da un vecchio articolo di Guido Vitiello, “I riti sacrificali della Repubblica, ovvero la giustizia del “si vuole”, pubblicato dal Foglio il 18 marzo 2013 (consultabile a questo link); gli altri due tratti entrambi da La redazione delle sentenze: una responsabilità linguistica elevata, di Patrizia Bellucci, in Diritto & Formazione, V, 3, marzo 2005, pp. 447-465.

1. La polizia giudiziaria

Si vuole che sia dedito allo spaccio delle sostanze stupefacenti nell’ambiente artistico da lui frequentato“.

2. L’avvocato

Appare sterile esercizio sofistico quello tentato in sentenza per giustificare e motivare una decisione di pesante responsabilità penale, irrogante non lieve pena detentiva a carico dell’appellante, supportandosi e fondandosi non a convergenze del molteplice indiziario, non a un tessuto probatorio serio, univoco, tranquillante, sillogisticamente ineccepibile, bensì, in buona sostanza, supportandosi soltanto a plurime attenuazioni delle infinite discordanze emerse, a continue svalutazioni delle prove e risultanze a discarico, ad enfatizzazioni ed ipervalutazioni di monistiche interessate delazioni, con lo scopo di geometrizzare un teorema destinato fin dall’origine a fallire in quanto fondato su meccanismi occulti di convincimento tutt’altro che rigorosamente razionali.

In altre parole, il dato fenomenico più appariscente della globale motivazione di sentenza risulta la preoccupazione di scansare reiteratamente le varie innegabili discordanze, anomalie, incongruenze illazioni, avvantaggiando unicamente ed apoditticamente la direttiva colpevolista indicata dall’unico teste accusatore. Circa il quale, invano il vaso processuale e l’istruttoria dibattimentale stessa si sono ben colmati di nitide e cospicue attestazioni di inattendibilità oggettiva e soggettiva, sia in assoluto che in riferimento particolare ai molti elementi e parti del processo.

La sentenza ha cercato di rendere evanescenti le contraddizioni concernenti il carico accusatorio, ha proposto versioni inverosimili ai fattori obiettanti, ha risolto sommariamente le opposte dichiarazioni testimoniali“.

3. Il giudice

È errato l’approccio metodologico alla valutazione indiziaria, il quale si limiti alla esaltazione del margine di ambiguità (o di reversibilità) insito nella lettura del dato fattuale, per giungere alla esclusione di ogni valore probatorio di ciascuno degli indizi atomisticamente considerati, senza apprezzare il peso che gli elementi del compendio assumono nella valutazione sinergica, la quale si nutre delle connessioni osmotiche che possono stabilirsi tra gli stessi medesimi indizi.

È pertanto censurabile l’approccio metodologico connotato da un generalizzato animus disconoscendi, basato su una supposta mancanza di precisione degli elementi del compendio indiziario stesso. Invero non occorre che i fatti, sui quali si fonda l’indizio, siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti acclarati, alla stregua di una consecuzione casuale esclusiva ed assoluta. È sufficiente, invece, che l’interferenza avvenga secondo un “canone di probabilità” con riferimento alla connessione verosimile degli accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza (l’id quod plerumque accidit)“.

Cosa pensare di questi tre campioni linguistici?

Parto dal primo, quello della polizia giudiziaria.

È indispensabile precisare che la frase è tratta da un vecchio rapporto dei Carabinieri di Napoli dei primi anni Ottanta, è riferita ad Enzo Tortora e tutti sappiamo com’è andata a finire.

Ma cosa ha inteso dire il suo autore?

Tutto si consuma attorno a quel “Si vuole“.

Nient’altro che una diceria o, se si preferisce il linguaggio tecnico, una voce corrente nel pubblico, incontrollata e incontrollabile e quindi inservibile.

Eppure, quel “si vuole“, la cui impersonalità consente di estenderlo alla comunità e dunque al popolo, inizia l’operazione che ha reso possibile il sacrificio di un innocente: quelle due parole messe insieme significano “si crede” ma anche “si pretende giustizia“. E la giustizia è arrivata, altroché.

Passo al secondo esempio, quello dell’avvocato.

Non ne sono certo ma penso abbia sostenuto la tesi dell’inattendibilità del principale teste d’accusa e si sia lamentato del pregiudizio accusatorio del giudice.

Ne sono certo ancora meno ma penso pure che un tale diluvio di parole sia servito a mascherare la debolezza delle censure difensive.

Concluso col terzo, quello del giudice.

Penso che costui, nel caso concreto la Suprema Corte, abbia mandato a dire che gli elementi probatori devono essere valutati unitariamente e secondo buon senso.

Penso anche che, quando il giudice parla di probabilità, verosimiglianza e regole di esperienza, sta maneggiando un materiale istruttorio non particolarmente solido e ne è consapevole ma non vuole comunque buttarlo a mare.

Conclusione

Solo tre esempi che non possono certo essere assunti come rappresentativi del tutto ma comunque espressivi di una tendenza manipolatoria esistente.

Chi li ha redatti ha adattato la realtà o addirittura l’ha creata egli stesso e l’ha fatto perché quella vera non soddisfaceva i suoi scopi, non lo avrebbe portato lì dove voleva o aveva bisogno di arrivare.

E dunque, almeno in questi tre casi e in quelli ad essi affini, la lingua giuridica è stata davvero oppio di popolo.