Franco Coppi: “Un avvocato non dovrebbe mai essere processato per aver fatto l’avvocato” (di Riccardo Radi)

Un pomeriggio, davanti ad un’aula della Corte di appello di Roma, incontro il Professor Franco Coppi che ho conosciuto il 18 maggio del 1990 perché è stato correlatore della mia tesi di laurea.

L’occasione non è delle più liete, il professore è lì per affiancare la difesa di un caro amico e collega, mentre io sono andato a sostenerlo e incoraggiarlo in questo triste momento che lo vede sul banco degli imputati per aver fatto … l’avvocato.

Dopo aver abbracciato il collega mi avvicino al Professor Coppi, seduto davanti l’aula chiusa in attesa che scenda il collegio, e lo saluto con una sottile reverenza come ho sempre fatto ad ogni incontro, per me è rimasto il Professore dell’Università.

Dopo i saluti, scambiamo un paio di battute e nel ricordare che sono trascorsi 34 anni dalla tesi mi dice “Ha visto che avevo ragione io?”. Rispondo “Come sempre professore” e in mente mi ritornano dei ricordi sopiti e lontani.

Permettetemi questa breve divagazione.

Dopo la discussione della tesi e l’annuncio del voto nell’aula dell’università La Sapienza, il prof. Coppi mi fece un cenno e mi avvicinai per ricevere i complimenti e l’invito a frequentare la sua cattedra come cultore della materia. Mi ricordo che disse: “E’ riuscito a centrare il punto e rendere vivi degli articoli del codice penale mai applicati, complimenti lei non è solo un giurista in erba, ha anche capacità giornalistiche. Mi spiega come è riuscito ad arrivare alla sentenza del tribunale di Milano che ha applicato per la prima volta la riduzione di schiavitù in Italia?

Iniziai a frequentare la cattedra e in un paio di occasioni entrai nel suo studio in Via Arno, il professore accanito tifoso della Roma appare sempre austero ma possiede il sottile dono dell’ironia.

In quegli anni mi dividevo tra il servizio militare, la pratica legale e giornalistica e mi ricordo che una volta mi disse: “Radi lei mi sembra Fregoli, riesce a cambiarsi di abito con la stessa velocità

Aveva ragione, saltare dalla redazione di un giornale all’università e nel contempo frequentare lo studio legale e svolgere il servizio militare non era semplice e per mia scelta dopo due anni lo ringraziai per l’opportunità di avermi permesso di frequentare il dipartimento all’Università ma preferii concentrarmi sull’inizio della professione legale e sul giornalismo e ricordo che disse: ”Ho la sensazione che ci rivedremo presto, può coltivare il piacere di scrivere ma lei sarà un avvocato perché ha il dono della curiosità ed è infaticabile”.

Naturalmente aveva ragione lui ed ora sono un avvocato con 32 anni di professione che ha ripreso il piacere di scrivere per diletto.

Mentre i ricordi tornano nell’oblio della memoria vedo avvicinarsi i giudici e la cancelliera apre l’aula, abbraccio forte il collega e non riusciamo entrambi a trattenere un filo di commozione, lo guardo negli occhi e per stemperare mi esce: “Daje non mollare”.

Provo a sorridere mentre mi accingo ad uscire perché ho percepito che preferisce rimanere da solo per affrontare da imputato la corte.

Saluto il Professore che a bassa voce, almeno così mi sembra, mi dice: “Un avvocato non dovrebbe essere mai processato per aver fatto l’avvocato”.

Lo saluto e percorro il lungo corridoio che porta all’uscita della Corte di appello e incontro un collega che mi dice: “Radi ma in fondo davanti all’aula della … c’è Coppi e c’è …. perché?”, rispondo frettolosamente: “Niente di che è finito un processo e si attardano prima di andar via. Vieni usciamo insieme così mi racconti di quel processo che mi dicevi …”.

Un modo per distoglierlo e garantire la tranquillità al mio amico avvocato-imputato.