Omessa indicazione delle parti offese nel decreto di citazione a giudizio: abnorme la restituzione degli atti al PM (di Riccardo Radi)

La Cassazione sezione 2 con la sentenza numero 6883/2024 ha esaminato la questione della omessa indicazione delle parti offese nel decreto di citazione a giudizio.

La Suprema Corte ha premesso che non costituisce causa di nullità: testualmente art. 552, comma 2, cod. proc. pen., non richiede, a pena di nullità, il requisito previsto dalla lettera b) del comma 1 del medesimo articolo, ovvero “l’indicazione della persona offesa, qualora risulti identificata“.

In presenza di tale omissione, il giudice del dibattimento deve tuttavia curare che la persona offesa sia ritualmente citata: tale attività rientra, ai sensi dell’art. 143 disp. att. cod. proc. pen., nell’ambito delle sue competenze funzionali, ed egli non può, quindi, onerarne il P.M., disponendo la restituzione degli atti a quest’ultimo, poiché un siffatto provvedimento, determinando una indebita regressione del processo, si configurerebbe come abnorme (Sez. U, n. 28807 del 29/05/2002, Rv. 221999 – 01).

Trattasi di orientamento – in riferimento alla specifica fattispecie in esame – senz’altro pacifico (cfr. Sez. 2, n. 34571 del 08/05/2009, Rv. 245232 – 01), ribadito anche di recente dalla cassazione (cfr. Sez. 3, n. 28779 del 16/05/2018, Rv. 273059 – 01: “È abnorme, perché determina un’indebita regressione del procedimento, il provvedimento con il quale il Tribunale in composizione monocratica, rilevata la omessa notifica del decreto di citazione a giudizio alla persona offesa, e pertanto la nullità del decreto, restituisce gli atti al pubblico ministero per il rinnovo della citazione anziché provvedere direttamente all’incombente“).

Nel caso esaminato vi è di più.

Il P.M. ricorrente evidenzia, infatti, un ulteriore ed evidente profilo di abnormità nell’ordinanza impugnata.

Invero, come documentalmente verificabile, il P.M. aveva ritenuto (a torto od a ragione, ma nell’esercizio di prerogative che senz’altro gli appartengono) di individuare una sola persona offesa, di tal che il giudice avrebbe dovuto necessariamente indicare quali fossero le eventuali ulteriori persone offese che, in ipotesi, risultavano identificate; in caso contrario, sarebbe risultato inevitabile il verificarsi di quella indebita regressione del processo e di quella indebita stasi del procedimento (il P.M. avrebbe giocoforza potuto insistere nella propria determinazione, in difetto di specifiche indicazioni del giudicante che lo vincolassero) che, per giurisprudenza costante, qualificano di abnormità gli atti processuali chete determinino.

Invero, è affetto da abnormità non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite; l’abnormità dell’atto processuale può riguardare (Sez. U, n. 26 del 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 215094 — 01; Sez. 2, n. 29363 del 24/03/2023, in motivazione)): – tanto il profilo strutturale, allorché l’atto, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale, – quanto — come nella specie – il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo.

L’ordinanza impugnata, costituente atto abnorme, va, pertanto, annullata senza rinvio, con trasmissione degli atti al Tribunale per l’ulteriore corso.