Riforma della sentenza assolutoria: non sempre è necessario il previo esame dell’imputato (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 49704/2023, udienza del 19 ottobre 2023, ha ribadito che, in tema di rinnovazione della prova dichiarativa, la necessità di assumere l’esame dell’imputato in caso di riforma della sentenza assolutoria rientra in quella, più generale, di rinnovazione della prova dichiarativa di natura decisiva, sicché la stessa non sussiste ove, nel corso del giudizio di primo grado, sia mancata l’assunzione delle dichiarazioni dell’imputato o la valutazione probatoria da parte dei due giudici dei due gradi di merito sia stata incentrata su risultanze istruttorie diverse rispetto a tale atto, non oggetto di esame alcuno.

La Cassazione, con riferimento alla sentenza della Corte EDU Maestri contro Italia, ha peraltro ribadito, alla stregua dei criteri delineati dalla Consulta con la sentenza n. 49/2015, che le decisioni della Corte europea possono assumere valenza generale vincolante solo rispetto a vicende analoghe e sempre che siano espressione di un orientamento definitivo (Sez. 6^, n. 27163/2022).

Tale indirizzo si fonda sull’analisi del percorso ermeneutico tracciato dalle Alte corti in ordine alla rilevanza delle sentenze della Corte EDU nell’ordinamento nazionale.

La Corte costituzionale, con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, ha chiarito che la CEDU come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo è fonte del diritto interno di rango sovra-legislativo ma sub-costituzionale: il giudice comune è tenuto ad interpretare la legislazione interna in modo conforme alla ratio decidendi del giudice convenzionale, facendo ricorso ad ogni strumento ermeneutico disponibile: l’incidente di costituzionalità è indicato come strumento residuale da utilizzare quando è impossibile la torsione interpretativa delle norme legislativa (Corte costituzionale, sentenza n. 80/2011).

Il ruolo della norma convenzionale, come emerge dalla mediazione giurisprudenziale della Corte europea, è stato significativamente chiarito dalla sentenza n. 49/2015 della Consulta.

Essa ha affermato che l’obbligo dell’interpretazione adeguatrice incombe sul giudice solo in presenza di un’interpretazione consolidata o di una “sentenza pilota” mentre nessun obbligo esiste in tal senso a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento divenuto definitivo.

Quanto agli indici idonei ad orientare il giudice nazionale nel suo percorso di discernimento, la Consulta ha elencato: la creatività del principio affermato rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo o di contrasto rispetto ad altre pronunce; la presenza di opinioni dissenzienti, tanto più se robustamente argomentate; la provenienza della decisione da una sezione semplice senza l’avallo della Grande Camera; il dubbio che il giudice europeo non sia stato messo nella condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento nazionale.

Se tutti o alcuni di tali indici si manifestano, il giudice comune non è tenuto a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU, fatta eccezione per le “sentenze pilota” in senso stretto.

Applicati tali parametri alla sentenza Maestri c. Italia, si rileva che questa:

  1. non ha le caratteristiche del diritto convenzionale consolidato, attenendo ad un caso specifico e non risultando confermata da sentenze della Grande Camera che le conferiscano valore generale;
  2. la sua ratio decidendi non esprime la necessità di procedere sempre e comunque all’interrogatorio dell’imputato come condizione legittimante l’overturning della sentenza assolutoria di primo grado; la decisione Maestri si limita infatti ad affermare che, quando la condanna consegue alla rivalutazione dell’elemento soggettivo, questo deve essere scrutinato attraverso l’esame dell’imputato da disporre anche d’ufficio, senza che ad esso siano assimilabili le spontanee dichiarazioni in quanto atto che non implica alcun contatto tra giudice ed accusato.