Condanna in secondo grado dopo l’assoluzione in primo grado: il giudice di appello è tenuto ad esaminare i presupposti per la concessione delle pene sostitutive (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 2341/2024, udienza del 19 dicembre 2023, ha esaminato in modo sistematico il sistema delle pene sostitutive di quelle detentive brevi ed affermato il principio che anche al giudice d’appello che riformi in condanna la sentenza di proscioglimento del primo giudice spetta di valutare l’esistenza dei presupposti per la sostituzione.

Ricognizione normativa

Ai sensi dell’art. 545-bis cod. proc. pen. nella formulazione attualmente in vigore:

Quando è stata applicata una pena detentiva non superiore a quattro anni e non è stata ordinata la sospensione condizionale, subito dopo la lettura del dispositivo, il giudice, se ricorrono le condizioni per sostituire la pena detentiva con una delle pene sostitutive di cui all’articolo 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ne dà avviso alle parti. Se l’imputato, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, acconsente alla sostituzione della pena detentiva con una pena diversa dalla pena pecuniaria, ovvero se può aver luogo la sostituzione con detta pena, il giudice, sentito il pubblico ministero, quando non è possibile decidere immediatamente, fissa una apposita udienza non oltre sessanta giorni, dandone contestuale avviso alle parti e all’ufficio di esecuzione penale esterna competente; in tal caso il processo è sospeso”.

La valutazione della portata innovativa della suddetta norma in tema di applicazione delle sanzioni sostitutive le pene detentive brevi, deve essere interpretata innanzi tutto analizzando la volontà del legislatore; secondo la Relazione illustrativa:

La legge delega attribuisce al giudice di merito il potere di sostituire la pena detentiva anticipando alla fase della cognizione, a titolo di vera e propria pena (anche se sostitutiva), alcune forme di esecuzione extracarceraria che nell’ordinamento penitenziario vigente sono definite come “misure alternative alla detenzione”. Il giudice della cognizione, in altri termini, in caso di condanna a pena detentiva breve, è chiamato ad un compito ulteriore e nuovo rispetto agli schemi classici della commisurazione e applicazione della pena principale, ossia a valutare se non vi siano modelli sanzionatori, sostitutivi della pena detentiva, che contribuiscano in modo più adeguato alla rieducazione del condannato, purché assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione del pericolo che il condannato commetta altri reati. Per adempiere a tale compito, tuttavia, il giudice ha bisogno di un bagaglio di informazioni ulteriori rispetto a quelle comunemente acquisite nel giudizio di cognizione e per questo la legge delega ha previsto il coinvolgimento degli uffici di esecuzione penale esterna.

Il meccanismo elaborato è ispirato al modello del sentencing di matrice anglosassone, ma non è del tutto estraneo al nostro ordinamento, che lo conosce nei processi davanti al giudice di pace…. Solo dopo la pubblicazione del dispositivo (ai sensi del vigente art. 545, co. 1, c.p.p.) sia il giudice sia le parti sono in grado di effettuare una prima valutazione circa la possibile applicazione delle pene sostitutive… Nel caso in cui non vi siano preclusioni circa la possibilità astratta di disporre la sostituzione delle pene detentive brevi, al fine di dare evidenza alla possibilità di sostituzione della pena, il giudice, subito dopo la lettura del dispositivo, è gravato dell’onere di dare avviso alle parti (nuovo art. 545 bis, cc. 1, primo periodo, c.p.p.

Prime riflessioni dottrinali

In sede di primi commenti si è già affermato che il nucleo forte della riforma del sistema sanzionatorio è costituito dal rilancio delle pene sostitutive finalizzato all’esigenza di superare l’idea del ‘carcere come unica effettiva risposta al reato, fino a ridurre la pena detentiva al ruolo residuale che le è assegnato dalla Costituzione, ma che è rimasto totalmente irrealizzato nella legislazione e nella prassi giurisprudenziale.

Tale mutamento di indirizzo è stato ravvisato già nella formulazione dell’art. 20-bis del codice penale significativamente intitolato: “Pene sostitutive delle pene detentive brevi” così sottolineandosi che di vere e proprie pene si tratta, ancorché non carcerarie (o non integralmente destinate ad essere eseguite in carcere).

Ancora si è sottolineato come l’idea sottesa a tale scelta è chiaramente quella di dare effettività e concretezza al finalismo rieducativo della pena, che, come si deduce dal tenore dell’art. 27 comma 3 Cost. (che non a caso declina al plurale il principio codificato), oltre a non essere prerogativa esclusiva del carcere, mal si concilia con l’esecuzione di pene contenute, come appunto quelle punite con reclusione inferiore a quattro anni. In questi casi, infatti, la privazione della libertà, con le conseguenti ricadute sulla stabilità dei rapporti personali del condannato – come quelli familiari e lavorativi- oltre a rappresentare un sacrificio, in molti casi addirittura sproporzionato rispetto alla gravità del reato, non consente, proprio in ragione del tempo di esecuzione della pena e delle offerte trattamentali che in questo momento storico il ‘carcere’ è in grado di offrire ai detenuti, di realizzare l’unica finalità che secondo la Costituzione può oggi legittimare la sanzione penale.

Si è così arrivati a sostenere che la posta in palio è spezzare definitivamente l’equazione “pena uguale carcere”, ridurre i numeri delle presenze nei penitenziari italiani e, soprattutto, riuscire a modellare un sistema sanzionatorio penale idoneo a reintegrare i condannati.

Pertanto: il nuovo perimetro delle pene detentive brevi, oltre ad assumere un’importanza baricentrica per l’interprete, traccia un confine tra una penalità a bassa intensità, nella quale è possibile un’espiazione integralmente extra-carceraria, e una penalità ad alta intensità, nella quale l’ingresso in carcere – salvo fattori eccezionali esterni (età, figli minori, percorsi terapeutici, salute) – rimane obbligatorio.

Altri autori hanno affermato che la riforma Cartabia è intervenuta incisivamente in materia di pene sostitutive, imponendo un cambio di forma mentis, di cultura e di approccio pratico a tutti gli operatori del diritto, i quali, tuttavia, spesso paiono averne sottovalutata la portata innovativa, ed hanno sottolineato come la modifica ha inciso inevitabilmente sui rapporti esistenti tra la fase di cognizione e quella esecutiva, anticipando alla fase “di merito” la scelta relativa alle modalità di esecuzione della pena. Tale aspetto appare non di poco momento, dacché è di gran lunga preferibile che sia il giudice della cognizione – il quale meglio conosce il profilo dell’imputato – a stabilire le modalità con cui la pena dovrà essere eseguita, piuttosto che la magistratura di sorveglianza, che si basa su un’asettica valutazione cartolare.

Può pertanto concludersi affermando che il dibattito dottrinale sorto all’indomani della riforma ha sottolineato la centralità del sistema delle sanzioni sostitutive nell’ottica della novella anche e, soprattutto, ai fini di assicurare una effettiva funzione rieducativa della pena.

Obbligo del giudice di verificare l’esistenza delle condizioni per la sostituzione delle pene detentive brevi

Così come ricostruito dallo stesso legislatore della riforma e dalla dottrina può pertanto affermarsi che sul giudice della condanna grava un preciso obbligo di verificare la sussistenza delle condizioni per disporre la sostituzione delle pene detentive brevi; e si tratta di un onere di particolare rilievo poiché funzionale a quell’obiettivo di “decarcerizzazione” del sistema penale che è stato indicato quale finalità da realizzare al fine di promuovere il reinserimento del condannato e favorire il minore sovraffollamento delle carceri.

…e suo potere discrezionale nell’applicazione e nella scelta delle pene sostitutive

Quanto all’esercizio di tale potere discrezionale rileva il contenuto degli artt. 53, 58 e 59 della legge 681/1989 come riformata dal d. lgs. 150/2022; in particolare, secondo l’art. 53 cit., il giudice, quando ritiene di dovere determinare la durata della pena detentiva entro il limite di quattro anni, può sostituire tale pena con quella della semilibertà o della detenzione domiciliare; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di tre anni, può sostituirla anche con il lavoro di pubblica utilità. Fondamentale è poi il successivo articolo 58, significativamente intitolato:” Potere discrezionale del giudice nell’applicazione e nella scelta delle pene sostitutive”; la norma richiama i parametri dettati dall’art. 133 cod. pen. stabilendo che valutati detti criteri il giudice può applicare le sanzioni sostitutive quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato e quando anche attraverso opportune prescrizioni, assicurino la prevenzione del pericolo di commissione di ulteriori reati.

Lo stesso articolo aggiunge poi che la pena detentiva non può essere sostituita quando sussistano fondati motivi per ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato.

Infine è l’art. 59 che detta testualmente le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva escludendo la possibilità di applicarla per chi:

– ha commesso il reato per cui si procede entro tre anni dalla revoca della sanzione sostitutiva o durante l’esecuzione della stessa;

– deve essere sottoposto a misura di sicurezza personale;

– risulta condannato per uno dei reati di cui all’art. 4 bis ordinamento penitenziario.

Le limitate esclusioni soggettive dettate dal cennato art. 59 hanno fatto sottolineare la possibilità di ampia applicazione delle pene sostitutive posto che anche qualsiasi precedente condanna lascia aperta la possibilità di ottenere la sostituzione della pena detentiva.

Anche il giudice d’appello che, riformando la prima decisione di proscioglimento, statuisca la condanna può applicare le pene sostitutive

Deve ora procedersi ad analizzare il potere discrezionale di concessione delle pene sostitutive del giudice di appello che in sede di impugnazione del pubblico ministero avverso decisione di proscioglimento in primo grado pervenga ad una statuizione di condanna.

Orbene, così come ricostruito dalle norme già citate ed in particolare dagli indicati articoli 545-bis cod. proc. pen., 53 e 58 L. 689/81 come riformulati, il giudice che pronuncia, per la prima volta, sentenza di condanna e quindi anche il giudice di appello che pronunci in riforma, “può” applicare le pene sostitutive quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato e quando anche attraverso opportune prescrizioni, assicurino la prevenzione del pericolo di commissione di ulteriori reati ove la sanzione inflitta non sia superiore ad anni quattro di reclusione.

Orbene deve essere sottolineato come un analogo potere discrezionale sia previsto dal codice penale anche in tema di sospensione condizionale della pena, stabilendo l’art. 163 cod. pen. che nel pronunciare sentenza di condanna a pena detentiva per un tempo non superiore a due anni, il giudice può ordinare che l’esecuzione della pena rimanga sospesa per anni cinque se la condanna è per delitto e di due anni se la condanna è per contravvenzione; potere analogo quindi, seppure deve sottolinearsi che il beneficio della sospensione condizionale è precluso dalla presenza di precedenti condanne mentre, come già rilevato, la pena sostitutiva ha ben più ampia applicazione poiché i precedenti giudiziari non sono ostativi la sua concessione.

In tema di sospensione condizionale in appello a seguito di riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, la Corte di cassazione, con un costante orientamento, ha stabilito che nell’ipotesi in cui il giudice d’appello, su impugnazione del P.M., riformi la sentenza assolutoria di primo grado pronunciando condanna dell’imputato, deve motivare, pur in assenza di specifiche deduzioni di parte, circa l’eventuale mancata concessione della sospensione condizionale della pena o di altri analoghi benefici (Sez. 5, n. 5581 del 08/10/2014 Ud. (dep. 05/02/2015) Rv. 264215 – 01; Sez. 6, n. 14758 del 27/03/2013, Rv. 254690 – 01 Sez. 6, n. 3917 del 08/01/2009, Rv. 242527 – 01; Sez. 6, n. 12839 del 10/02/2005, Rv. 231431 – 01; Sez. 5, n. 40865 del 25/09/2007, Rv. 238187 – 01).

Si sostiene infatti che l’obbligo in questione ricorre anche in mancanza di qualsiasi (subordinata) deduzione di parte, nel caso particolare in cui, come avvenuto nella specie, il giudice di appello, su impugnazione del pubblico ministero, riformi la sentenza assolutoria di primo grado e condanni l’imputato, a fronte di una richiesta difensiva di mera conferma della decisione assolutoria del primo giudice. In tale ipotesi, infatti, il giudice di secondo grado, trovandosi di fronte a una richiesta della parte pubblica di radicale riforma di una pronuncia ampiamente favorevole al prevenuto, nel momento in cui addiviene alla decisione di accoglierla, non può non dare specifico conto del grado di estensione di tale accoglimento e, quindi, sotto tale profilo, spiegare perché esso non sia contenuto, ove ne sussistano i presupposti legali – come nella specie – nei limiti di una condanna con i benefici di legge. Ne consegue che sussiste, in tal caso, la legittimazione e l’interesse dell’imputato di dolersi, in sede di legittimità, del mancato esercizio di tale potere-dovere del giudice d’appello.

Orbene i medesimi principi devono trovare applicazione anche in caso di condanna in appello in riforma della decisione assolutoria di primo grado ed applicazione delle pene sostitutive; trattandosi infatti di un analogo potere discrezionale esercitabile nei casi di condanna a pena non superiore ad anni quattro, anche in tali casi il giudice di secondo grado che emette la condanna dovrà dare conto delle ragioni per cui ritenere o meno la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’istituto che, si ricorda, secondo la volontà del legislatore è ricostruito come un vero e proprio nuovo compito che grava sul giudice della condanna (vedi Relazione illustrativa già citata).

Ricostruito in tal modo l’obbligo di applicazione delle pene sostitutive, deve pertanto ritenersi che il giudice di appello che pronuncia sentenza di condanna in riforma della decisione di proscioglimento adottata all’esito del giudizio di primo grado è tenuto ad esaminare i presupposti per la concessione delle pene sostitutive, anche ove necessario svolgendo l’udienza ex art. 545 bis cod. proc. pen., ovvero a motivare specificamente circa l’insussistenza delle condizioni per potere disporre la suddetta sanzione sostitutiva avuto riguardo ai parametri dettati dall’art. 133 cod. pen. e dagli artt. 58 e 59 L. 689/81 come riformulati.

Anche in caso di condanna in appello in riforma della decisione di primo grado, pertanto, il giudice è tenuto a svolgere un preciso accertamento e qualora ritenga che non sussistano condizioni ostative per l’applicazione delle pene sostitutive indicate dal nuovo art. 20-bis cod. pen. è gravato dall’onere di disporre direttamente, acquisito il consenso dell’imputato, ovvero di dare avviso alle parti dell’udienza ex art. 545-bis cod. proc. pen.

Esito

L’applicazione dei sopra esposti principi al caso in esame comporta l’annullamento della sentenza impugnata poiché la corte di appello, pur avendo condannato in riforma della decisione di primo grado, ha omesso qualsiasi valutazione sull’applicabilità delle pene sostitutive sia negando la possibilità di applicarle, anche facendo riferimento ad aspetti particolari del fatto e della personalità, sia procedendo, in caso affermativo, a fissare l’udienza ex art. 545-bis cod. proc. pen.

Pertanto in sede di rinvio dovrà procedersi ad analizzare la possibilità di applicazione delle pene sostitutive ed in caso di esito positivo procedere alla fissazione dell’udienza di cui all’art. 545-bis cod. proc. pen.

Attenendo il giudizio di rinvio esclusivamente alla possibile applicazione delle predette sanzioni l’affermazione di responsabilità deve dichiararsi definitiva.