La sessualità è un aspetto della personalità: lo dice la Consulta (di Maria Brucale)

Con sentenza n. 10 del 2024 (allegata alla fine del post unitamente al connesso comunicato stampa) la Consulta apre finalmente alla sessualità nelle carceri. Un cammino lunghissimo e certamente ancora incompiuto verso il riconoscimento di un diritto che attiene all’essenza stessa di umanità e che ha chiari riflessi sulla salute fisica e psichica dell’individuo.

Fino ad oggi una previsione normativa, l’art. 18 dell’ordinamento penitenziario, prevedeva che i colloqui si svolgessero sotto il controllo a vista del personale di custodia. Secondo l’art. 18 O.P.: “I colloqui – tra il detenuto e i familiari – si svolgono in appositi locali sotto il controllo vista e non auditivo del personale di custodia”. Tradotto in parole povere, la sessualità è negata. Il desiderio, la spinta naturale, l’istinto sono negati, spezzati, repressi, spenti per l’intera durata della pena. Il sesso fa parte dell’uomo, della sua essenza. Trascende l’istintualità, è sostanza di uomo. Il carcere strappa all’uomo la sua essenza, comprime, forza, brutalizza la sua natura, la mutila. Mutilazione è, può essere rieducazione? Può il carcere redimere, pulire, rinnovare, correggere, emendare, restituire alla società – civile? – un uomo sano che ha mutilato della sua sostanza?

Nonostante ormai dal 1987 la Consulta avesse riconosciuto come diritto soggettivo assoluto la sessualità di ogni persona, anche ove privata dalla libertà, non si è data ad esso attuazione in attesa che il legislatore disciplinasse compiutamente la materia che certo involge molteplici aspetti problematici a partire da quelli organizzativi che fanno i conti con la carenza di risorse materiali e di personale intramurario.

Era, invece, il 2012 quando il tribunale di sorveglianza di Firenze, con l’avallo della procura generale competente, interpellava la Corte Costituzionale chiedendo che fosse dichiarato illegittimo l’art. 18 dell’ordinamento penitenziario laddove prevedeva la costante presenza vigile del personale penitenziario agli incontri del recluso con i propri congiunti e, di fatto, escludeva l’espressione di qualsivoglia sessualità. La prescrizione, per il tribunale, costituiva con evidenza una lesione del diritto ad una carcerazione umana e non degradante rientrando il diritto della persona ristretta ad avere rapporti sessuali con il coniuge o con il partner, tra i diritti inviolabili dell’uomo, secondo anche le raccomandazioni del Consiglio d’Europa: diritti limitati, ma non annullati, dalla condizione di restrizione della libertà personale. La pronuncia della Consulta, n. 301, intervenuta nel dicembre del 2012, rassegnava nella sostanza la propria incompetenza a definire, senza l’intervento del legislatore, un ambito tanto complesso e delicato che involge il tema dell’ordine e della sicurezza e richiede l’estrinsecazione chiara di termini e di modalità di accesso al diritto a vivere, pur reclusi, la propria sessualità, l’individuazione dei relativi destinatari, interni ed esterni, la definizione dei presupposti comportamentali per la concessione delle “visite intime”, la specificazione del loro numero e della loro durata, la predisposizione dei locali, la determinazione delle misure organizzative.

 Nel 2016 un ddl di modifica del codice penale, di procedura penale, dell’ordinamento penitenziario, inseriva, tra gli obiettivi della delega: “il riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e la disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio”. Un segnale di attenzione da tradurre in disposizioni normative che disciplinassero l’esistenza di un diritto e garantissero la piena dignità delle persone detenute nella fruizione di esso, nella sola direzione possibile, quella voluta dal Ministro Orlando nell’avventura degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale: l’attuazione (finalmente!) dell’art. 27 della Costituzione. I decreti attuativi redatti dalla Commissione Giostra coadiuvata dalla Commissione “Minori e Giustizia riparativa”, tuttavia, rimasero lettera morta e per il mancato stanziamento di fondi per rendere attuabile il diritto alla sessualità e, ancor di più, per ragionamenti di convenienza politica perché i diritti dei detenuti sono percepiti assai spesso nella sensibilità sociale come una mollezza punitiva in conflitto con la tutela delle vittime e con un concetto vendicativo quanto irragionevole di giustizia. Permane, infatti, la resistenza collettiva a pensare al carcere come a un luogo di restituzione nel quale chi è ristretto debba conservare abitudini di vita il più possibile coerenti al suo vissuto esterno e preservare ogni aspetto della propria esistenza a partire da quello relazionale che garantisce la possibilità di ritrovare, una volta espiata la pena, il proprio mondo ancora intatto.

Finalmente, la Corte costituzionale ha accolto, con una sentenza additiva di principio, le censure esposte nell’ ordinanza di rimessione del giudice di Spoleto che ha lamentato la violazione, ad opera della norma in discorso, del principio di eguaglianza, della tutela dei rapporti familiari, delle libertà individuali, della prescrizione che la pena si rivolga al reinserimento della persona condannata, della salute e della necessità che, nel definire le restrizioni alle libertà individuali, operi un bilanciamento con le esigenze di sicurezza ancorato a criteri di ragionevolezza e di proporzionalità. Una pena caratterizzata dalla sottrazione di una porzione significativa di libera disponibilità del proprio corpo sarebbe contraria al senso di umanità, scrive il giudice rimettente, e rende il trattamento inumano e degradante, lesivo del diritto del detenuto al rispetto della propria vita privata e familiare.

Chiarisce, l’ordinanza di rimessione, come l’istituto del permesso premio non possa affatto considerarsi idoneo a garantire a tutti il diritto, sia in considerazione delle tante persone ristrette in custodia cautelare che non vi hanno accesso, sia dai termini per richiederlo al magistrato di sorveglianza che impongono comunque un tempo, a volte molto lungo dal momento che la previsione nel programma trattamentale di tale opportunità segue all’ esito dell’osservazione intramuraria. Ancora, a fronte del fatto che non sia possibile collegare l’accesso a un diritto soggettivo a logiche di premialità e di raggiungimento di obiettivi trattamentali. A fronte dell’ opposizione dell’ Avvocatura di Stato che aveva chiesto di dichiarare inammissibile la questione in coerenza al precedente arresto della Consulta con sentenza n. 301 del 2012, la Corte ha ravvisato la necessità di apprestare tutela a una esigenza reale e fortemente avvertita, quale quella di permettere alle persone sottoposte alla restrizione della libertà personale di continuare ad avere relazioni affettive intime anche a carattere sessuale, a fronte di un quadro normativo oggi mutato in ragione delle norme che parificano i diritti spettanti al coniuge a quelli del convivente di fatto nonché in materia di colloqui penitenziari, a quelli della parte dell’ unione civile tra persone dello stesso sesso, chiarendo uno degli aspetti che aveva indotto la Corte a ritenere non praticabile l’accoglimento della questione pur segnalando che si trattasse di un “problema che merita ogni attenzione”. E, ancora, in ragione della modifica intervenuta proprio sull’art. 18 O.P. secondo cui “i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto”.

Così, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 “nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”.

Secondo la Consulta: “La prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, quindi in una violazione dell’art. 3 Cost., sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né sussistano, rispetto all’imputato, specifiche finalità giudiziarie”. “Un ulteriore profilo di irragionevolezza delle restrizioni imposte all’espressione dell’affettività, quali conseguono all’inderogabilità del controllo a vista sui colloqui familiari, riguarda il loro riverberarsi sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni”.

Un aspetto, quest’ultimo, di estrema rilevanza perché la Corte si occupa della lesione che produce il carcere non soltanto al detenuto ma anche all’esterno, ai suoi familiari, alle persone a lui affettivamente legate, in termini di compressione della dignità umana su chi, pur estraneo al reato e alla condanna, tuttavia subisce dalla detenzione del loro caro un pregiudizio indiretto.

L’azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, potrà accompagnare una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena, prescrive la Corte, consapevole dell’impatto che la pronuncia di legittimità costituzionale avrà nella gestione degli istituti penitenziari già gravati da un estremo sforzo organizzativo a fronte del sovraffollamento detentivo e di una endemica carenza di risorse umane e materiali.

La Corte chiarisce alcuni principi cui il legislatore dovrà adattarsi e cui gli operatori tutti dovranno conformarsi: la durata dei colloqui intimi deve essere adeguata all’obiettivo di consentire al detenuto e al suo partner di esprimere appieno l’affettività, che non implica necessariamente una declinazione sessuale ma neppure la esclude; le visite devono potersi svolgere in modo non sporadico al fine di consentire la preservazione della stabilità di una relazione affettiva; i luoghi deputati agli incontri devono essere appropriati dotando gli istituti di apposite unità abitative organizzate per consentire anche la consumazione di pasti e riprodurre il più possibile un ambiente di tipo domestico; i locali devono essere sottratti all’osservazione degli agenti di polizia penitenziaria e allo sguardo degli altri detenuti. Ritiene la Corte che la possibilità che gli incontri tendano all’approccio sessuale determina la necessità che si svolgano esclusivamente con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente. Il direttore dell’istituto dovrà verificare la sussistenza del legame affettivo e l’effettività della pregressa convivenza. Occorrerà tener conto di ragioni di sicurezza o di esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina e, riguardo all’imputato, di motivi di carattere giudiziario potendo quindi rilevare in senso ostativo condotte irregolari o precedenti disciplinari. Per l’imputato, invece, saranno da considerare rilevanti esigenze processuali quali quelle di salvaguardia della prova, di competenza dell’autorità che procede.

Spetterà alle direzioni individuare i soggetti che potranno accedere al diritto. Un aspetto, anch’esso, di estrema problematicità perché allo stato le carceri pretendono, già per l’accesso ai colloqui ordinari, un certificato di convivenza che molti ristretti stranieri non sono in grado di produrre. Occorrerà, allora, che si stabiliscano nuovi criteri per definire la “convivenza di fatto” di cui parla la Consulta e aprire ai colloqui, intimi e non, per coloro che di essa riescano a fornire prova al di là di una certificazione a volte non disponibile.

Non dovranno sussistere, ai fini di accedere al beneficio, motivi di sicurezza, ordine e disciplina dell’istituto o, per l’imputato, ragioni giudiziarie. Indicazioni che, anch’esse, possono determinare, in ragione della loro estrema indeterminatezza, una incontrollabile ampiezza di poteri da parte delle direzioni nel concedere o negare l’importante diritto finalmente riconosciuto.

Resteranno esclusi i ristretti in 41 bis per i quali ancora si tollera una estromissione da ogni tensione costituzionale della pena, e chi è soggetto alla sorveglianza particolare per il tempo di durata della misura. Non le persone ristrette per i reati di cui all’art. 4 bis O.P. per le quali “non sussistono impedimenti normativi che precludano l’esercizio dell’affettività intra moenia, posto che l’ostatività del titolo di reato inerisce alla concessione dei benefici penitenziari e non riguarda le modalità dei colloqui”.

Va tenuto presente che la Consulta ha espresso la decisione di incostituzionalità della norma proprio nel valutare la situazione di un detenuto cui era impossibile accedere alla sessualità perché gravato da sanzioni disciplinari che non consentivano la concessione del permesso premio. Ciò indica che la valutazione del comportamento dovrà essere espressa in termini di sicurezza e, si ribadisce, non in termini di astratta meritevolezza.

Indica, la Corte, l’inevitabile gradualità nella normalizzazione dell’accesso al diritto e, certamente, ci vorrà tempo, risorse e impegno ma è un passo in qualche misura rivoluzionario verso il riconoscimento di una pena che non sia solo punizione ma aspiri a preservare la persona e la sua dignità già riconosciuta dalla Cedu, nell’importante sentenza “Viola c. Italia” come il cuore del sistema attorno al quale ogni aspetto del diritto si disegna e si modella.