Con la sentenza n. 142/2024 (allegata alla fine del post in forma anonimizzata), la terza sezione del Consiglio di Stato conferma il rigoroso indirizzo interpretativo sedimentato da anni nella materia delle informazioni interdittive antimafia e degli elementi necessari a giustificarne l’applicazione.
Nel caso in esame l’organo di vertice della giurisdizione amministrativa, accogliendo il ricorso della Prefettura competente e dell’ANAC, ha riformato la decisione del primo giudice che, a sua volta, aveva accolto il ricorso presentato dal legale rappresentante di una società che era stata sottoposta ad informazione interdittiva.
Criteri interpretativi
Il collegio della terza sezione giurisdizionale ha richiamato i capisaldi della “dottrina” sezionale.
Li si elenca qui di seguito, riportandoli come descritti letteralmente nella decisione. I neretti sono di chi scrive.
Ragionamento induttivo probabilistico: canone del “più probabile che non”
“il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma che implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa“.
Nozione di “eventuali tentativi” di “infiltrazione mafiosa”
“Lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011 (qui in avanti, per brevità, anche codice antimafia) – riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate».
Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di queste ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.
Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento e, cioè, l’elevata possibilità e non mera possibilità o semplice eventualità che esso si verifichi.
Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi“.
Insufficienza dei sospetti della p.a. e delle vaghe intuizioni del giudice
“il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, “non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che “può” – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata“.
Note di commento
…la classificazione sistematica dell’istituto
Da questa decisione e dalle tante analoghe che l’hanno preceduta si possono desumere con chiarezza gli elementi su cui si fonda la visione di sistema dell’informazione interdittiva antimafia nella giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Classificazione dell’istituto (fattispecie di pericolo), sua collocazione gerarchica (pietra angolare del sistema normativo antimafia), sua finalità (liberazione del corpo sociale dalla pressione parassitaria delle organizzazioni mafiose ovvero, più icasticamente, libertà dalla paura), standard probatorio (criterio del più probabile che non, fondato su indizi gravi, precisi e concordanti), dati conoscitivi utilizzabili (elementi tipici e atipici), ognuno di questi aspetti è stato specificamente considerato e incasellato dal Consiglio di Stato.
La decisione “dice” dunque cos’è l’informazione antimafia nella sua declinazione interdittiva, ne afferma implicitamente la piena coerenza alle prescrizioni costituzionali e convenzionali in tema di proprietà e di libertà di impresa ed esclude che la descrizione normativa degli elementi che ne legittimano l’emissione abbia un deficit di tipicità e quindi di prevedibilità.
Ma c’è di più: il giudice amministrativo puntualizza anche ciò che l’istituto non è e non deve essere.
Non è uno strumento del diritto della paura, né per suo tramite si possono alimentare un diritto di polizia o pene del sospetto.
Al tempo stesso, non è un provvedimento che si possa imbrigliare con automatismi o presunzioni ex lege, essendogli al contrario indispensabile la flessibilità congrua alla sua natura e alle sue funzioni.
…un panorama giurisprudenziale più allargato
La giurisprudenza amministrativa ha messo a punto nel corso degli anni numerosi indirizzi interpretativi generali e di dettaglio in relazione all’informazione interdittiva in molti dei quali la sentenza 6105 si è significativamente riconosciuta.
Se ne dà sinteticamente conto.
Viene anzitutto in rilievo la sentenza 3/2018 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Si deve ad essa la puntualizzazione dell’effetto principale dell’interdittiva: “il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità ex lege, parziale (in quanto limitata a specifici rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione) e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto – persona fisica o giuridica – è precluso avere con la pubblica amministrazione rapporti riconducibili a quanto disposto dall’art. 67; b) l’art. 67, comma 1, lett. g), nella parte in cui prevede il divieto di ottenere, da parte del soggetto colpito dall’interdittiva antimafia, “contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali”, ricomprende anche l’impossibilità di percepire somme dovute a titolo di risarcimento del danno patito in connessione all’attività di impresa“. Il che implica, usando ancora una volta i passaggi testuali della sentenza in questione, che “la previsione di cui al comma 1, lettera g), dell’articolo 67 […]debba essere intesa nel senso di precludere all’imprenditore (persona fisica o giuridica) la titolarità della posizione soggettiva che lo renderebbe idoneo a ricevere somme dovutegli dalla Pubblica Amministrazione a titolo risarcitorio in relazione […] ad una vicenda sorta dall’affidamento (o dal mancato affidamento) di un appalto“, sicché il diritto di credito continua ad esistere ma il suo titolare non potrà azionarlo fino a che la sua incapacità giuridica “parziale” e “tendenzialmente temporanea” produrrà effetti.
Una visione speculare, ma per certi versi ancora più restrittiva, è espressa dalla giurisprudenza ordinaria di legittimità di cui è esempio, tra le tante, Cass. pen. Sez. 6, 22889/2019, secondo la quale “L’informazione antimafia preclude qualunque attività nei rapporti d’impresa con la pubblica amministrazione (contratti, concessioni o sovvenzioni pubblici), incidendo anche in quelli tra privati, poiché l’effetto interdittivo si estende alle autorizzazioni, in forza del D. Lgs. 153/2014“.
Plurime pronunce del giudice ordinario (si segnala, tra le altre, Cass. pen. Sez. 5, 34526/2019), condivise dal giudice amministrativo, hanno poi messo a fuoco la compresenza di due modalità relazionali di rilievo preventivo tra attività di impresa e attività criminali: contiguità concorrente (che si traduce in una vera e propria agevolazione) e contiguità soggiacente (propria di chi subisce la pressione mafiosa senza essere in grado di reagire).
Si esclude con convinzione che l’interdittiva antimafia abbia natura sanzionatoria, affermandosi che il suo scopo è di prevenire un grave pericolo e non già di punire (Cons. Stato, Sez. 3, 1743/2016).
Quanto agli elementi conoscitivi valorizzabili dal prefetto, vi sono compresi tutti quelli elencati nella sentenza 6105/2019 ma anche le dichiarazioni rese nel procedimento penale dai collaboratori di giustizia, (TAR Calabria, Sez. 1, 355/2016), i rapporti personali di ogni genere non solo dei soci e amministratori delle imprese ma anche dei loro dipendenti (Cons. Stato, Sez. 3, 4295/2017).
Se si prendono in esame le relazioni parentali, bisogna rifuggire da ogni automatismo e dunque non si può presumere che il congiunto di un mafioso sia necessariamente mafioso anch’egli (Cons. Stato, Sez. 3, 2343/2018). Tuttavia “Nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione (Cons. Stato, Sez. 3, 5410/2018).
Può essere utilizzata ai fini di un’informazione antimafia l’appartenenza a un sodalizio criminale di alcuni dipendenti dell’impresa (Cons. Stato, Sez. 3, 2343/2018) e, a tal fine, è sufficiente che un solo dipendente si trovi in questa condizione (Cons. Stato, Sez. 3, 5410/2018). Le imprese che vogliono contrattare con la pubblica amministrazione sono pertanto tenute a “garantire la massima affidabilità, non solo nella selezione di amministratori e soci, ma anche dei dipendenti, e devono vigilare affinché nella loro organizzazione non vi siano dipendenti risultati contigui al modo della criminalità organizzata” Cons. Stato, Sez. 3, 3299/2016).
Se un’impresa “interdetta” avvia rapporti commerciali o associativi con un’altra impresa, anche quest’ultima subirà l’interdizione (cosiddette informative a cascata), essendo legittimo presumere che qualunque partner scelto dalla prima sia colluso o, comunque, permeabile anch’esso ai medesimi interessi criminali (Cons. Stato, Sez. 3, 3774/2017).
La disciplina dettata dal codice delle leggi antimafia consente l’applicazione delle informazioni antimafia anche ai provvedimenti a contenuto autorizzatorio (Cons. Stato, Sez. 3, 565/2017) e dunque anche le attività soggette al rilascio di autorizzazioni, licenze o SCIA (segnalazione certificata di inizio attività) soggiacciono alle informative antimafia. Le perplessità di ordine sistematico e teleologico sollevate in ordine all’applicazione di tale disposizione anche alle ipotesi in cui non vi sia un rapporto contrattuale – appalti o concessioni – con la pubblica amministrazione non hanno infatti ragion d’essere, posto che anche in ipotesi di attività soggette a mera autorizzazione l’esistenza di infiltrazioni mafiose inquina l’economia legale, altera il funzionamento della concorrenza e costituisce una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubbliche (Cons. Stato, Sez. 1, parere 3088/2015).
Si riconosce che l’informativa antimafia costituisce un provvedimento autonomamente lesivo, in quanto incidente sulla capacità contrattuale e sulla produttività dell’impresa destinataria, la quale è quindi interessata alla relativa impugnazione anche indipendentemente dall’esito della gara; detto interesse è apprezzabile sia sotto il profilo risarcitorio (valutabile in relazione al pregiudizio all’immagine, al credito commerciale oltre che alla capacità di guadagno che si produce nel periodo di efficacia della prima interdittiva, allorché la seconda informativa non sia stata ancora adottata); sia sotto il profilo dell’interesse morale (correlato alla più generale onorabilità del soggetto interdetto), in quanto anch’esso direttamente inciso in senso pregiudizievole dalla misura antimafia (Cons. Stato, Adunanza plenaria, ordinanza 17/2014).
Tuttavia, colui che chiede l’affermazione della responsabilità della Prefettura che ha emesso l’informativa annullata, deve dimostrare il dolo o la colpa che a loro volta sono desumibili allorché il giudizio di sussistenza del tentativo di infiltrazione sia stato emesso sulla base di indici sintomatici carenti ed equivoci. Difatti, la configurabilità della responsabilità della pubblica amministrazione per i danni provocati dall’adozione di un provvedimento illegittimo esige, innanzitutto, la dimostrazione del dolo o della colpa, da valersi quale elemento costitutivo del diritto al risarcimento, dell’autorità che lo ha emanato, non essendo sufficiente, per la genesi dell’obbligazione risarcitoria, il solo annullamento dell’atto lesivo. Quanto ai fattori che valgono ad escludere la colpa e, quindi, la responsabilità dell’amministrazione per i danni causati da un provvedimento illegittimo, sono stati individuati quelli attinenti all’esistenza di contrasti giurisprudenziali nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme di riferimento, alla formulazione poco chiara o ambigua delle disposizioni che regolano l’attività amministrativa considerata, alla complessità della situazione di fatto oggetto del provvedimento e alle pertinenti difficoltà istruttorie, e all’illegittimità derivante dalla successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata con l’atto lesivo. In altri termini, per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, ai fini dell’accertamento della sua responsabilità aquiliana, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità (Cons. Stato, Sez. 3, 3707/2015).
Conclusione
Non è e non può essere in discussione la condivisibilità di qualunque politica pubblica che punti a privare chi delinque dei vantaggi acquisiti attraverso la sua condotta illecita.
È ugualmente indiscutibile che, a dispetto di un impegno pubblico pluridecennale (sia pure di intensità variabile secondo la sensibilità e la consapevolezza delle varie stagioni), le organizzazioni criminali di tipo mafioso sono tutt’altro che debellate, mantengono un’elevata capacità di inquinamento sociale ed economico e dispongono di un’imponente leva finanziaria che gli consente una libertà di manovra senza pari.
Queste doverose considerazioni non possono tuttavia annichilire lo spirito critico che è parte indispensabile delle riflessioni giuridiche.
Il quadro complessivamente delineato nei paragrafi precedenti raffigura uno strumento in cui le ombre si alternano alle luci.
