La sentenza della Corte costituzionale nel “caso Esposito”: messa a nudo una gravissima sequenza di intercettazioni illegali (di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi) 

Anche i giuristi hanno un’anima, come i commercialisti di un vecchio film, e proprio perché ce l’hanno amerebbero almeno ogni tanto emozionarsi per una buona notizia che, dato il loro ambito di interesse, dovrebbe essere una norma utile e chiara o una sentenza palesemente attuativa del giusto processo o una prassi applicativa ammirevole.

Non è questo però il tempo delle emozioni assolute, senza se e senza ma.

Tocca quindi accontentarsi delle emozioni relative, cioè quelle suscitate dalla riparazione di un torto: piace che ci sia la prima ma intanto il torto c’è stato.

È il caso della recentissima sentenza n. 227/2023 della Consulta che ha risolto il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Senato della Repubblica in conseguenza dell’acquisizione, su iniziativa della Procura della Repubblica di Torino e con l’avallo del giudice delle indagini preliminari della medesima sede, delle intercettazioni di conversazioni telefoniche cui ha preso parte il senatore Stefano Esposito.

I passaggi qualificanti della sentenza

Sia la sentenza che il relativo comunicato stampa sono allegati alla fine del post e alla loro lettura si rimandano coloro che vogliano avere una conoscenza integrale della vicenda.

Ci limitiamo pertanto ad evidenziare le questioni che abbiamo ritenuto di maggiore interesse, riportando la trascrizione letterale, sebbene parziale, dei paragrafi più significativi della decisione.

I neretti sono una nostra aggiunta così come la divisione in paragrafi.

… Le argomentazioni della Procura della Repubblica di Torino (l’atto di costituzione in giudizio)

“6.– Si è costituita in giudizio la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, chiedendo che il ricorso venga dichiarato non fondato.

6.1.– Ad avviso della resistente, dalla giurisprudenza di questa Corte (è richiamata diffusamente la sentenza n. 390 del 2007) si ricaverebbe che l’autorizzazione ex ante gravante sul giudice sarebbe necessaria, oltre che nel caso in cui ad essere oggetto di intercettazione sia il parlamentare stesso, unicamente laddove l’autorità giudiziaria miri specificamente a scoprire, direttamente o indirettamente, le comunicazioni del parlamentare. Di conseguenza, dovrebbero ritenersi assoggettate ad autorizzazione preventiva «tutte le intercettazioni aventi quella specifica finalità; ma giammai quelle attività che, senza accedere indebitamente “nella sfera delle comunicazioni del parlamentare”, sono comunque dirette ad accertare (anche) le eventuali responsabilità del parlamentare».

Nel caso di specie, nulla nel comportamento e negli atti dell’autorità inquirente porterebbe a ritenere che, al momento di inizio dell’attività di intercettazione nel 2015, l’intento perseguito fosse quello di accedere alle comunicazioni cui avrebbe potuto prendere parte il senatore Esposito, che solo nel 2017 era stato iscritto nel registro degli indagati.

Né avrebbe rilievo la circostanza che tra i soggetti intercettati vi fosse anche chi, come G. M., era legato a Esposito da rapporti di consuetudine, poiché una corretta lettura delle richiamate norme costituzionali e di attuazione indurrebbe a ritenere che l’esigenza di preservare il parlamentare da indebite intromissioni dell’autorità inquirente si avrebbe unicamente nel caso in cui «il destinatario “diretto” dell’intercettazione sia una mera “testa di legno” del parlamentare». Laddove, come nel caso di specie, lo scopo dell’attività di indagine (e delle intercettazioni disposte nel corso di essa) non sia quello di accedere al contenuto delle conversazioni e comunicazioni del parlamentare, ma del suo interlocutore – effettivo bersaglio degli inquirenti – nessuna autorizzazione ex ante dovrebbe ritenersi necessaria, malgrado la necessità di tenere successivamente conto della emersione di notizie di reato anche a carico del senatore Esposito.

6.2.– Parimenti non fondato sarebbe anche il motivo con cui il ricorrente ha lamentato la mancata richiesta di utilizzo delle intercettazioni, alla luce di quanto prescrive l’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003.

In primo luogo, l’autorizzazione in parola riguarderebbe unicamente il parlamentare non indagato, in vista della necessaria tutela della sua riservatezza.

In secondo luogo, nel caso di specie non vi sarebbe stata alcuna utilizzazione, in senso proprio, del materiale probatorio acquisito tramite intercettazioni, non essendo a tal fine sufficiente la circostanza che il pubblico ministero abbia indicato queste ultime tra le fonti di prova al momento della richiesta di rinvio a giudizio. Inoltre, nella motivazione di alcun provvedimento del giudice si sarebbe «fatto riferimento a questa o quella intercettazione del senatore Esposito per giustificare una decisione adottata né nei suoi confronti né nei confronti di altri», anche perché l’utilizzabilità degli atti processuali compete al giudice del dibattimento (è richiamata Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 8 aprile-18 luglio 2022, n. 27902)”.

…e la memoria successiva

“La resistente Procura della Repubblica, ribadite le ragioni a sostegno della non fondatezza del ricorso fatte valere nell’atto di costituzione, rappresenta alcuni fatti intervenuti successivamente al deposito dello stesso, di potenziale rilevanza per la soluzione del presente giudizio.

In primo luogo, viene dato conto dell’avvio, nei confronti del pubblico ministero della Procura torinese titolare delle indagini, di un procedimento disciplinare promosso dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione, avente ad oggetto i medesimi fatti di cui si verte nell’odierno conflitto.

In secondo luogo, sarebbe venuto meno l’oggetto del contendere, perché, con sentenza del 15 settembre-5 ottobre 2023, n. 40715, la sezione quinta penale della Corte di cassazione ha dichiarato la competenza territoriale del Tribunale di Roma in relazione ai reati di cui a diversi capi di imputazione riguardanti anche lo stesso senatore Esposito, con l’effetto che il procedimento deve intendersi regredito alla fase delle indagini preliminari e i provvedimenti che hanno dato luogo all’odierno conflitto (con riguardo, in particolare, alla richiesta di rinvio a giudizio e del decreto che dispone il giudizio) non più esistenti.”

…L’intervento del magistrato titolare del procedimento

“9.– Con atto depositato in data 31 ottobre 2023, ha richiesto di intervenire in giudizio G. C., titolare dell’ufficio di pubblico ministero nei procedimenti da cui ha tratto origine il presente conflitto.

Premesso che, in data 12 luglio 2023, gli era stato comunicato l’avvio, nei suoi confronti, di un procedimento disciplinare, promosso dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione in relazione ai fatti oggetto del presente giudizio, G. C. ritiene sussistente il proprio interesse ad intervenire.

Infatti, sostiene l’interveniente, l’eventuale pronuncia di accoglimento adottata da questa Corte si presterebbe a pregiudicare gli esiti del procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti, di talché l’ammissibilità dell’intervento conseguirebbe al fatto che l’oggetto del conflitto si presta a «coinvolgere, in modo immediato e diretto, situazioni soggettive di terzi, il cui pregiudizio o la cui salvaguardia dipendono dall’esito dello stesso (sentenza n. 230 del 2017 e ordinanza n. 269 del 2019)» (è richiamata l’ordinanza di questa Corte letta all’udienza del 4 aprile 2023, nel giudizio deciso con la sentenza n. 157 del 2023).

Nel merito, l’interveniente aderisce alle ragioni addotte, a sostegno della non fondatezza del ricorso introduttivo, dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino”.

…Le ragioni della decisione

“4.– La materia del contendere del presente conflitto non è, peraltro, venuta meno per effetto della decisione con cui la Corte di cassazione ha dichiarato la competenza territoriale del Tribunale di Roma in relazione ad alcuni capi di imputazione per i quali è chiamato a rispondere lo stesso Esposito (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 15 settembre-5 ottobre 2023, n. 40715).

A prescindere dalla circostanza che l’incompetenza del Tribunale di Torino non è stata dichiarata per tutti i capi di imputazione a carico di Esposito, a rilevare nel senso del perdurante interesse alla soluzione del conflitto è il fatto che la devoluzione della competenza ad altro giudice, e la connessa, eventuale, regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, non sono state dichiarate «per motivi che attengono alle attribuzioni rivendicate con il conflitto» (sentenza n. 170 del 2023), rinvenendo la loro ragione giustificativa unicamente in aspetti endoprocessuali legati allo svolgimento delle indagini e della fase antecedente al dibattimento.

L’individuazione di un diverso giudice territorialmente competente e le conseguenze che da ciò discendono sui procedimenti da cui origina il presente conflitto, pertanto, non fanno venire meno l’interesse del Senato a dirimere, in ogni caso, l’incertezza circa la spettanza del potere esercitato dalle parti chiamate a resistere in giudizio”.

“8.– […] il primo motivo di ricorso, con il quale si denuncia la violazione dell’art. 68, terzo comma, Cost. e dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003, è fondato, nei termini di seguito precisati.

8.1.– Deve, innanzi tutto, essere evidenziata la peculiarità della vicenda da cui promana l’odierno conflitto, consistente nell’anomala effettuazione e acquisizione agli atti del procedimento di un numero assai cospicuo di intercettazioni che vedono coinvolto un parlamentare in carica, nel corso di un’attività di indagine che si è dispiegata, nell’ambito di una pluralità di procedimenti tra loro variamente collegati, per più anni, senza che sia stata richiesta alcuna autorizzazione.

A fronte di ciò, questa Corte ritiene che la complessiva attività di indagine posta in essere dall’autorità giudiziaria resistente denoti, con particolare evidenza, che l’attività di intercettazione che ha coinvolto l’allora senatore Esposito fosse univocamente diretta a captare le sue comunicazioni, quanto meno a far data dall’informativa di polizia giudiziaria del 3 agosto 2015.

Il carattere mirato di tale attività, idoneo a conferire natura non più “occasionale” ma “indiretta” a tutte le intercettazioni captate a seguito di tale data, si ricava – oltre che dalla sussistenza di quegli indici sintomatici che concorrono a escludere il carattere occasionale delle intercettazioni – dalla decisiva circostanza per cui è a partire da tale momento che emergono, nei confronti dell’allora senatore Esposito, specifici indizi di reità che si traducono nella richiesta di approfondimenti investigativi a suo carico.

[…] Se quindi deve essere ribadito, come affermato di recente da questa Corte (sentenza n. 157 del 2023), che «la ricorrenza dell’intento, associato alla “direzione dell’atto di indagine”, di attingere direttamente alle conversazioni del parlamentare non presuppone necessariamente la qualità di indagato dello stesso», è però vero che il coinvolgimento del parlamentare tra gli obiettivi dell’attività di indagine, laddove si traduca – indipendentemente dall’acquisizione dello status di indagato – in indirizzi investigativi chiaramente e univocamente rivolti ad approfondire la sua eventuale responsabilità penale, contrassegna la correlata attività di intercettazione come “indiretta” e, pertanto, bisognosa dell’autorizzazione preventiva ex art. 4 della legge n. 140 del 2003.

8.2.– Dall’esame della vicenda da cui ha tratto origine il conflitto, risulta evidente che tale effettivo coinvolgimento nelle indagini si è avuto, per l’allora senatore Esposito, a decorrere dall’indicata informativa del 3 agosto 2015, con la conseguenza che alle intercettazioni successive a tale momento deve essere attribuita natura “indiretta”.

Non può dubitarsi, innanzi tutto, che il carattere abituale delle interlocuzioni tra Esposito e G. M. fosse a conoscenza dell’autorità procedente già nel marzo 2015. In particolare, nell’annotazione di polizia giudiziaria del 25 marzo 2015 risulta che l’interlocutore di G. M. identificato come il senatore Stefano Esposito era legato all’imputato «da un rapporto di profonda amicizia» e che le numerose conversazioni intercorse tra i due, «dal tenore nettamente confidenziale», risultano «caratterizzate dalla trattazione di svariati argomenti tra i quali emergono molteplici scambi di opinioni sulle vicende affaristiche di M[.]».

Il carattere abituale delle conversazioni tra il soggetto indagato e il parlamentare, tuttavia, non è di per sé sufficiente a rendere quest’ultimo destinatario di una specifica attività di indagine, elevandolo a bersaglio dell’atto investigativo; né, quindi, la sola prevedibilità dell’interlocuzione tra l’indagato e il parlamentare rende necessaria l’acquisizione dell’autorizzazione di cui all’art. 4 della legge n. 140 del 2003 affinché possa essere proseguita l’attività di captazione sull’utenza telefonica del primo.

Pertanto, pur se sino alla richiamata informativa del 3 agosto 2015, numerose erano state le conversazioni intercorse tra l’allora senatore Esposito e G. M., e pur se poteva prevedersi che altre conversazioni tra i due avrebbero potuto essere intercettate, non può ritenersi che già prima di quella data fosse necessaria, per il proseguimento dell’attività di captazione, la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare.

Ad assumere un decisivo rilievo è, invece, il contenuto della richiamata informativa di polizia giudiziaria del 3 agosto 2015. In quest’ultima, i rapporti tra il parlamentare e il terzo intercettato vengono approfonditi alla luce delle ulteriori intercettazioni captate, rimarcando contestualmente l’opportunità di «trasmettere il contenuto dei dialoghi per consentire a codesta A[utorità] G[iudiziaria] di valutare se possano costituire spunti investigativi meritevoli di approfondimento».

Il mutamento di direzione dell’attività di indagine risulta ancor più evidente alla luce dell’adozione dei provvedimenti di proroga delle intercettazioni (in particolare, del 13 novembre e del 25 novembre 2015), nei quali non solo si rafforzava la consapevolezza che l’attività di intercettazione avrebbe potuto coinvolgere conversazioni di G. M. con Esposito, ma veniva anche ulteriormente concretizzandosi il potenziale rilievo penale e la rilevanza investigativa emergente dall’attività di intercettazione, successivamente impiegata in relazione ad ipotesi di reato a carico del parlamentare diverse da quella di abuso d’ufficio, per la quale al momento si procedeva (ma che successivamente, tuttavia, non è stata contestata).

A ciò si aggiunga che, secondo quanto emerge dalla documentazione depositata dalle parti, in tal senso depone anche la nota del 28 dicembre 2015, a firma del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, in cui si delega la polizia giudiziaria «a svolgere iniziali accertamenti patrimoniali in relazione al Sen. Stefano Esposito».

Non pare quindi possibile dubitare che il mutamento degli obiettivi delle indagini sia maturato nel momento in cui sono stati per la prima volta adombrati profili di responsabilità penale specifici a carico dell’allora senatore Esposito, successivamente convalidati dalle ulteriori indagini effettuate e sfociati nell’iscrizione anche del parlamentare – oltre che del terzo intercettato – nel registro degli indagati.

8.3.– Alla luce di una valutazione complessiva e non atomistica delle circostanze fattuali dell’attività di indagine (sentenza n. 157 del 2023), deve dunque ritenersi che la direzione dell’attività di indagine sia mutata a partire dal momento in cui l’autorità procedente ha ritenuto di dover specificamente approfondire l’eventuale responsabilità del parlamentare, con la conseguenza che – pur in mancanza di una formale iscrizione nel registro degli indagati – l’attività di captazione effettuata da allora in avanti deve ritenersi indirettamente rivolta ad accedere alla sfera di comunicazione del parlamentare.

Del resto, che la volontà della Procura procedente fosse orientata anche a verificare la sussistenza di indizi di reità a carico del parlamentare attraverso la captazione delle conversazioni sull’utenza intestata al principale indagato, risulta sostanzialmente ammesso nell’atto di costituzione, là dove si afferma che dovrebbero essere sottoposte ad autorizzazione preventiva solo le intercettazioni direttamente volte a captare le conversazioni del parlamentare, «ma giammai quelle attività che, senza accedere indebitamente “nella sfera delle comunicazioni del parlamentare”, sono comunque dirette ad accertare (anche) le eventuali responsabilità del parlamentare».

Il risultato dell’attività complessiva di captazione ha dato luogo, limitatamente alle conversazioni tra G. M. ed Esposito, a un totale di 446 intercettazioni, 148 delle quali ritenute rilevanti per le indagini. La massima parte di queste è stata effettuata in un momento successivo all’emersione di indizi di reità a carico del parlamentare. È di tutta evidenza come tale numero assuma ulteriore rilievo alla luce sia dell’orizzonte temporale di più anni lungo il quale si è dispiegata l’attività di indagine, sia della circostanza che le conversazioni acquisite in un procedimento sono state successivamente poste a fondamento di attività di indagine relative ad altri e diversi filoni, così evidenziando ulteriormente il concreto rischio di un ampliamento “a macchia d’olio” degli accessi alle comunicazioni del medesimo parlamentare.

8.4.– Di conseguenza, è a partire dal 3 agosto 2015 che si deve ritenere che Esposito sia stato incluso tra i bersagli dell’attività di indagine, con la conseguenza che tutte le intercettazioni successive devono intendersi, in realtà, come rivolte ad accedere alla sua sfera di comunicazioni.

L’anomalia decisionale e operativa che ha contraddistinto, secondo le ragioni poste a fondamento del ricorso, il modus procedendi delle autorità giudiziarie torinesi si riverbera su tutte le attività poste in essere da queste ultime sulla base delle intercettazioni illegittimamente autorizzate, effettuate a far data dal 3 agosto 2015. Poiché l’accertata illegittimità si correla allo svolgimento del mandato parlamentare da parte del senatore Esposito, essa deve ritenersi sussistente quanto alle intercettazioni effettuate dal 3 agosto 2015 al 22 marzo 2018, data in cui la XVII legislatura ha avuto termine.

Quanto alle attività di captazione delle conversazioni del parlamentare in epoca antecedente al 3 agosto 2015, alle stesse deve ritenersi applicabile la disciplina di cui all’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003. Ne consegue che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, prima, e il GUP del medesimo Tribunale, poi, non avrebbero potuto porre quelle captazioni a fondamento, rispettivamente, della richiesta di rinvio a giudizio di Stefano Esposito e del decreto che dispone il giudizio, in assenza della richiesta di autorizzazione di cui al citato art. 6, comma 2.

Restano viceversa esenti dalla necessità di qualsivoglia autorizzazione le intercettazioni delle conversazioni di Stefano Esposito effettuate dopo il 22 marzo 2018, data di conclusione della legislatura nella quale l’Esposito ha ricoperto la carica di senatore della Repubblica.

8.5.– Parimenti illegittima deve ritenersi l’acquisizione, in data 19 marzo 2018, al compendio probatorio posto a fondamento tanto della richiesta di rinvio a giudizio, quanto del decreto che ha disposto il giudizio, della corrispondenza scambiata tra il senatore Esposito e G. M. mediante messaggi WhatsApp, prelevati tramite copia forense dei dati contenuti nello smartphone in uso al medesimo G. M., perché effettuata in violazione di quanto prescritto dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003.

In proposito, è sufficiente ricordare che, secondo quanto affermato da questa Corte nella recente sentenza n. 170 del 2023, «l’art. 68, terzo comma, Cost. tutel[a] la corrispondenza dei membri del Parlamento – ivi compresa quella elettronica – anche dopo la ricezione da parte del destinatario».

Tale garanzia si traduce, per gli organi inquirenti che abbiano appreso i contenuti di conversazioni scambiate dal parlamentare con il terzo proprietario del dispositivo di telefonia mobile oggetto di sequestro, nell’obbligo di «sospendere l’estrazione di tali messaggi dalla memoria del dispositivo (o dalla relativa copia) e chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare, a norma dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003, al fine di poterli coinvolgere nel sequestro» (sentenza n. 170 del 2023).

La necessità della previa richiesta di autorizzazione alla acquisizione del materiale investigativo opera in termini oggettivi, vale a dire – sempre secondo la richiamata sentenza n. 170 del 2023 – «a prescindere da ogni valutazione circa la natura “mirata” o “occasionale” dell’acquisizione dei messaggi del parlamentare».

Alla luce di tale precedente, deve essere accertato e dichiarato il lamentato vulnus alle attribuzioni del Senato nel caso di specie, tenuto conto che l’acquisizione delle comunicazioni via WhatsApp è avvenuta in data 19 marzo 2018, anteriormente, quindi, alla cessazione del mandato parlamentare del senatore Esposito e, per di più, in un momento in cui erano noti alle autorità inquirenti sia l’abitualità dei rapporti tra il parlamentare e G. M., sia, soprattutto, il pieno coinvolgimento del primo nelle indagini, in quanto iscritto nel registro degli indagati dal marzo 2017.

Di conseguenza, i messaggi presenti nella copia forense indirizzati al (o ricevuti dal) senatore Esposito non avrebbero potuto essere acquisiti senza autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza.

9.– Alla luce delle esposte considerazioni, il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica deve essere risolto dichiarando che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, al Giudice per le indagini preliminari e al Giudice dell’udienza preliminare presso il medesimo Tribunale, disporre, effettuare e utilizzare le intercettazioni che hanno coinvolto Stefano Esposito, nel periodo in cui questi ricopriva l’incarico di senatore della Repubblica, nell’ambito dei procedimenti penali confluiti in quello iscritto al n. 24047/2015 R.G.N.R., e acquisire quali elementi di prova i messaggi WhatsApp scambiati tra il senatore Esposito e G. M., prelevati il 19 marzo 2018 tramite copia forense dei dati contenuti nello smartphone in uso a quest’ultimo nell’ambito del procedimento penale n. 85108/2014 R.G.N.R., in violazione dell’art. 4 (per le intercettazioni effettuate dal 3 agosto 2015 al 22 marzo 2018 e per l’acquisizione dei messaggi WhatsApp) e dell’art. 6 (per le intercettazioni antecedenti al 3 agosto 2015) della legge n. 140 del 2003.

Per l’effetto, devono essere annullati, limitatamente alla posizione di Stefano Esposito, la richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino il 29 luglio 2021 nell’ambito del procedimento penale n. 24047/2015 R.G.N.R. e il decreto che dispone il giudizio, adottato dal Giudice dell’udienza preliminare il 1° marzo 2022 in relazione al medesimo procedimento […]”.

L’ordinanza letta all’udienza del 21 novembre 2023 e l’inammissibilità dell’intervento del PM titolare del procedimento

Alla sentenza è allegata un’ordinanza emessa dalla Corte in esito all’udienza di discussione del 21 novembre 2023.

Ci sono sembrati di particolare interesse l’intervento del magistrato titolare del procedimento da cui è derivato il conflitto di attribuzione e la considerazione che ne ha avuto la Consulta.

Riportiamo anche in questo caso i passaggi integrali dell’ordinanza.

” […] con riguardo all’atto di intervento di GC [nel provvedimento il nome dell’interessato è riportato per intero], deve rilevarsi che questi assume a fondamento della propria legittimazione ad intervenire la circostanza che pende a suo carico procedimento disciplinare, ove l’incolpazione consiste nell’aver utilizzato in sede penale intercettazioni di conversazioni del senatore Esposito, senza osservare le garanzie previste dall’art. 68, terzo comma, della Costituzione, come articolate dalla legge n. 140 del 2003; che, in disparte i profili relativi alla sussistenza di un interesse qualificato, tale da legittimare la partecipazione al giudizio, tenuto conto della diversità di oggetto tra il presente giudizio per conflitto di attribuzione e il procedimento disciplinare, assume valore dirimente, ai fini dell’ammissibilità dello stesso, la tardività del suo deposito; che, invero, l’atto di intervento è stato depositato il 31 ottobre 2023; che il deposito è quindi avvenuto dopo lo spirare del termine di venti giorni fissato dagli artt. 4 e 31 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, decorrente dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del ricorso introduttivo, avvenuta il 24 maggio 2023; che, anche a ritenere che il dies a quo potesse decorrere dal momento in cui l’interveniente è venuto a conoscenza delle incolpazioni elevate nei suoi confronti in sede disciplinare (il 12 luglio 2023), l’atto di intervento risulta comunque tardivo; che non sussistono i presupposti per la rimessione in termini (ordinanza n. 101 del 2017), del resto neanche richiesta dall’interveniente ad opponendum; che, alla luce di tali considerazioni, l’intervento di GC non è ammissibile”.

Qualche nota di commento

È una sentenza dura e rigorosa quella della Consulta, non contiene giri di parole, parafrasi o vaghe allusioni e non fa nessuno sconto.

Va dritta al punto e il punto è che un sostituto procuratore della Repubblica, evidentemente né contraddetto né ostacolato dal capo dell’ufficio giudiziario di appartenenza, con l’avallo di un giudice delle indagini preliminari, ha violato sistematicamente la Costituzione (art. 68, comma 3) e la legge ordinaria (art. 4, L. n. 140/2003) e così facendo ha leso le guarentigie di un componente del Senato della Repubblica che, come a tutti noto, sono poste a tutela non della singola persona fisica ma dell’istituzione di appartenenza, in quanto partecipe del potere legislativo, così che ne siano salvaguardate l’autonomia e l’indipendenza dall’interferenza degli altri poteri ed in particolare di quello giudiziario.

Vi è di più: quella violazione – afferma la Corte costituzionale – è stata deliberata (e quindi consapevole) e sistematica posto che, usando ancora una volta il testo letterale della sentenza, “Il risultato dell’attività complessiva di captazione ha dato luogo, limitatamente alle conversazioni tra G. M. ed Esposito, a un totale di 446 intercettazioni, 148 delle quali ritenute rilevanti per le indagini. La massima parte di queste è stata effettuata in un momento successivo all’emersione di indizi di reità a carico del parlamentare” e posto ancora che “Parimenti illegittima deve ritenersi l’acquisizione, in data 19 marzo 2018, al compendio probatorio posto a fondamento tanto della richiesta di rinvio a giudizio, quanto del decreto che ha disposto il giudizio, della corrispondenza scambiata tra il senatore Esposito e G. M. mediante messaggi WhatsApp, prelevati tramite copia forense dei dati contenuti nello smartphone in uso al medesimo G. M., perché effettuata in violazione di quanto prescritto dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003″.

Dunque, una violazione massiva che, come si diceva, non ha trovato ostacoli lungo il suo cammino né all’interno della Procura torinese né – ciò che è peggio e più allarmante – da parte del giudice che, per sua responsabilità funzionale, ha il dovere di controllare la legittimità delle operazioni di intercettazione.

Si può e si deve quindi affermare senza incertezze che, ove si valuti la vicenda secondo la prospettiva dell’efficienza dei controlli e dei contrappesi interni al procedimento penale, essi non hanno funzionato.

Pari attenzione meritano, a nostro avviso, le argomentazioni che la Procura resistente ha ritenuto di adottare nel giudizio a giustificazione del suo operato, tutte talmente esangui e pretestuose da essere liquidate senza sforzo dalla Consulta, ivi compreso l’accenno finale all’attribuzione della competenza per territorio alla Procura di Roma che, anche a lasciare in disparte la sopravvivenza della competenza torinese per alcuni capi di imputazione, viene incredibilmente usata a fondamento di un’asserita cessazione della materia del contendere quando invece dovrebbe essere chiaro che la circostanza è semmai un’ulteriore conferma dell’anomalia dell’inchiesta.

Resta infine un’ultima considerazione: il PM titolare del procedimento è intervenuto nel giudizio a difesa di un suo asserito interesse qualificato che gli deriverebbe dall’avvio nei suoi confronti di un procedimento disciplinare dipendente dagli stessi eventi oggetto del conflitto portato all’esame della Consulta.

L’intervento, come si è visto, è stato tardivo e tanto è bastato a renderlo inammissibile. Si può tuttavia ragionevolmente presumere, e lo fa chiaramente intendere la decisione, che se anche il termine di costituzione fosse stato rispettato l’esito non sarebbe mutato, essendo improprio che in un conflitto tra poteri dello Stato si inserisca una questione disciplinare.

Una storia totalmente sbagliata, quindi, che dimostra, semmai ce ne fosse bisogno, quanto possano essere fragili anche le libertà e le garanzie presidiate ai livelli più alti dell’ordinamento se chi è chiamato a renderle effettive le tradisce o omette di farle rispettare.

La sentenza della Corte costituzionale ripristina l’equilibrio violato ed è rassicurante prenderne atto ma coloro che non sono senatori o deputati, che non hanno le risorse e la consapevolezza per accedere alle massime istanze e che fanno parte della maggioranza silenziosa la cui unica protezione è data da leggi violabili senza sforzo e quasi sempre senza conseguenze qualche ragione di temere continuano purtroppo ad averla.