“Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato” (di Vincenzo Giglio)

È lo straordinario inizio del Processo di Franz Kafka.

Straordinario per la qualità drammatica di quelle poche parole ma ancora di più perché in esse è già racchiusa l’intera storia e il resto del romanzo serve solo a descrivere il meccanismo infernale che porta alla distruzione di un uomo incolpevole.

Calunnia, innocenza, arresto, processo, condanna: queste le parole chiave della storia.

Un’accusa infondata, poco importa se di un accusatore pubblico o privato.

Un processo vago, indefinito, indecifrabile.

Una sensazione di crescente ineluttabilità dell’epilogo, voluto non si sa bene da chi e per quale ragione.

Infine la condanna che segna il destino di Joseph Kafka e si confonde con la sua stessa vita.

Quante volte abbiamo assistito a questa filiera letale? E quante volte abbiamo osservato all’opera folle plaudenti disinteressate alla colpa o alla sua assenza e invece spasmodicamente attratte dallo spettacolo della dissipazione di una vita?

Si tenga conto anche di questo quando si discute dell’emendamento Costa.