Ingiusta detenzione: anche le frequentazioni ambigue integrano la colpa grave che esclude la riparazione (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 50820/2023, udienza del 14 dicembre 2023, riepiloga il complesso degli indirizzi interpretativi riguardo all’istituto della riparazione per ingiusta detenzione.

Va premesso che, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, costituisce causa ostativa al riconoscimento dell’indennizzo la sussistenza di un comportamento – da parte dell’istante – che abbia concorso a darvi luogo con dolo o colpa grave.

In particolare, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo, rappresentata dall’avere il richiedente dato causa all’ingiusta carcerazione, deve concretarsi in comportamenti, non esclusi dal giudice della cognizione, di tipo extra-processuale (grave leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da aver dato causa all’imputazione) o processuale (auto-incolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi), in ordine alla cui attribuzione all’interessato e incidenza sulla determinazione della detenzione il giudice è tenuto a motivare specificamente (Sez. 4, n.34656 del 3/6/2010, RV. 248074; Sez. 4, n. 4372 del 21/10/2014, dep. 2015, RV. 263197; Sez. 3, n. 28012 del 5/7/2022, RV. 283411); in particolare, il giudice di merito, per stabilire se chi ha patito la detenzione vi abbia dato o abbia concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, deve valutare tutti gli elementi probatori disponibili, al fine di stabilire, con valutazione ex ante – e secondo un iter logico-motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello seguito nel processo di merito – non se tale condotta integri gli estremi di reato, ma solo se sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza dì errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale (Sez. 4, n. 3359 del 22/9/2016, dep. 2017, RV. 268952), con particolare riferimento alla commissione di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti (Sez. 4, n. 27548 del 5/02/2019, RV. 276458).

Deve altresì essere ricordato che, sulla base dell’arresto espresso da Sez. un., n. 43 del 13/12/1995, dep. 1996, Sarnataro, RV. 203638, nel procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione è necessario distinguere nettamente l’operazione logica propria del giudice del processo penale, volta all’accertamento della sussistenza di un reato e della sua commissione da parte dell’imputato, da quella propria del giudice della riparazione il quale, pur dovendo operare, eventualmente, sullo stesso materiale, deve seguire un iter logico-motivazionale del tutto autonomo, perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se queste si sono poste come fattore condizionante (anche nel concorso dell’altrui errore) alla produzione dell’evento “detenzione”; ed in relazione a tale aspetto della decisione egli ha piena ed ampia libertà di esaminare il materiale acquisito nel processo, non già per rivalutarlo, bensì al fine di controllare la ricorrenza o meno delle condizioni dell’azione (di natura civilistica), sia in senso positivo che negativo, compresa l’eventuale sussistenza di una causa di esclusione del diritto alla riparazione; derivandone, in diretta conseguenza di tale principio, quello ulteriore in base al quale il giudice del procedimento di riparazione per ingiusta detenzione può rivalutare fatti emersi nel processo penale, ivi accertati o non esclusi, ma ciò al solo fine di decidere sulla sussistenza del diritto alla riparazione (Sez. 4, n. 27397 del 10/06/2010, RV. 247867; Sez. 4, n. 3895 del 14/12/2017, dep. 2018, RV. 271739); con il solo limite di non potere ritenere provati fatti che tali non sono stati considerati dal giudice della cognizione ovvero non provate circostanze che quest’ultimo ha valutato dimostrate (Sez. 4, sentenza n. 12228 del 10/01/2017, Rv. 270039).

In relazione ancora più specifica rispetto alla fattispecie concreta in esame deve rilevarsi come il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico; il giudice di merito deve, in modo autonomo e in modo completo, apprezzare tutti gli elementi probatori a sua disposizione e rilevare, se la condotta tenuta dal richiedente abbia ingenerato o contribuito a ingenerare, nell’autorità procedente, la falsa apparenza della configurabilità della stessa come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (Sez. Un., n. 32383 del 27/5/2010, D’Ambrosio, RV. 247664).

Ancora più specificamente – e in relazione a profilo strettamente attinente al caso di specie – costituisce giurisprudenza del tutto consolidata quella in base alla quale la frequentazione ambigua, da parte del ricorrente, di soggetti coinvolti in traffici illeciti si presta oggettivamente ad essere interpretata come indizio di complicità e può, dunque, integrare la colpa grave ostativa al diritto alla riparazione a condizione che emerga, quanto meno, una concausalità rispetto all’adozione, nei suoi confronti, del provvedimento applicativo della custodia cautelare (Sez. 4, n. 8914 del 18/12/2014, dep. 2015, Rv. 262436; Sez. 4, n. 53361 del 21/11/2018, RV. 274498; Sez. 4, n. 850 del 28/9/2021, dep.2022, RV. 282565); frequentazioni, a propria volta, ben desumibili dal compendio di intercettazioni telefoniche o ambientali valutate da parte del giudice che ha emesso la misura applicativa (Sez. 4, n. 48311 del 26/9/2017, RV. 271039; Sez. 4, n. 27548 del 5/02/2019, RV. 276458).

D’altra parte, la circostanza che le frequentazioni ambigue intervengano tra soggetti aventi tra loro rapporti di parentela, ove accompagnate dalla consapevolezza che trattasi di soggetti coinvolti in traffici illeciti, non esclude in alcun modo la connotazione gravemente colposa del comportamento, salvo che esso non sia assolutamente necessitato (Sez. 4, n. 1235 del 26/11/2013, dep. 2014, Rv. 258610; Sez. 4, n. 29550 del 05/06/2019, Rv. 277475).

Il commento

La decisione oggetto di questo post e le tante altre nella cui scia si è inserita appaiono allargare arbitrariamente l’area della colpa grave che, unitamente al dolo, costituisce causa di esclusione della riparazione.

Basta scorrere l’elenco fatto dal collegio per avere una chiara conferma di questa tendenza espansiva.

La colpa grave può essere dunque ricavata non solo da elementi processuali, cioè da condotte tenute dopo l’avvio del procedimento ed in connessione diretta con lo stesso, ma anche da elementi extra-processuali che l’estensore specifica come frutti di una grave leggerezza o di una macroscopica trascuratezza tali da aver dato causa all’imputazione.

Come non bastasse, la colpa grave può derivare da condotte non solo successive all’applicazione della misura custodiale ma anche antecedenti purchè idonee a generare o concorrere a generare nell’ufficio giudiziario procedente la falsa apparenza della loro significatività in termini di illeciti penali.

Si giunge per questa via a considerare elementi gravemente colposi le frequentazioni ambigue dell’indagato con soggetti coinvolti in traffici illeciti e si ammette che le stesse possano essere desunte dal compendio delle intercettazioni.

Il collegio di legittimità rappresenta queste sequenze come fossero il frutto di un’operazione logica scontata che tuttavia mostra tutti i suoi limiti appena sia sottoposta ad un esame meno superficiale.

Alle strette ed eliminata ogni inutile sovrastruttura, il principio applicato dalla Cassazione è che la frequentazione di persone coinvolte o sospettate di essere coinvolte in attività criminali è una condotta che espone legittimamente il suo autore all’esercizio del potere punitivo e cautelare statuale e tale legittimità non viene meno neanche quando la valenza probatoria di quella condotta sia smentita dalla decisione giudiziaria.

Il che equivale a dire che si può essere privati della libertà senza avere diritto ad alcuna riparazione per una condotta di vita che, per quanto inappropriata, non corrisponde ad alcun reato.

C’è di più: che le relazioni personali del ricorrente fossero ambigue nel senso inteso dalla Cassazione lo si è desunto da conversazioni intercettate o meglio dal significato loro attribuito dal giudice che ha emesso la misura cautelare e di seguito dai giudici di merito e dalla Corte di appello nel procedimento riparatorio. Eppure questa “convergenza del molteplice” doveva poggiare su basi fragili se già in primo grado il ricorrente è stato assolto dal reato contestatogli, con decisione poi condivisa dalla stessa Corte di appello che gli ha negato la riparazione.

Il risultato è che l’accusato è stato spedito in galera sulla base di una scorretta valutazione del compendio indiziario ma elementi essenziali di quella valutazione, vale a dire le frequentazioni “ambigue”, pur malamente interpretati nella sede primaria del giudizio penale, hanno attecchito nel giudizio riparatorio accessorio.

Il risultato ulteriore è che il ricorrente è stato privato ingiustamente della libertà per quasi un anno ed il danno rimane interamente a suo carico.

No, non convince affatto questa decisione, a tal punto da richiamare alla memoria il titolo di una bella monografia di Francesco Mazzacuva, Le pene nascoste. Topografia delle sanzioni punitive e modulazione dello statuto garantistico, Giappichelli, 2017.