Detenzione domiciliare umanitaria: compiti di accertamento e valutazione demandati al giudice (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 49621/2023, udienza camerale dell’11 ottobre 2023, ha chiarito quali sono i compiti della magistratura di sorveglianza a fronte di un’istanza di concessione di detenzione domiciliare umanitaria per ragioni di salute.

Disciplina normativa

Preliminarmente vanno ricordati i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in relazione all’applicazione degli istituti disciplinati dagli artt. 146 e 147, n. 2, cod. pen., dall’art. 47-ter lett. c) Ord. Pen. e, infine, dall’art. 47-ter, comma 1-ter, Ord. pen.

L’art. 146, n. 3), cod. pen. impone al giudice di disporre il differimento dell’esecuzione della pena in presenza di una “malattia particolarmente grave per effetto della quale le (…) condizioni di salute” del condannato “risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative”.

Il differimento è, invece, facoltativo qualora, secondo la previsione contenuta all’art. 147, comma 1, n. 2, cod. pen., il condannato risulti affetto da “una grave infermità fisica”.

Infine, l’art. 47-ter,comma 1-ter, Ord. pen. stabilisce che, nelle anzidette ipotesi di rinvio della esecuzione della pena, il Tribunale di sorveglianza può applicare provvisoriamente la detenzione domiciliare.

Dalle richiamate disposizioni emerge un articolato assetto regolativo del rapporto tra esecuzione penale e condizioni di salute del condannato, che affida al differimento facoltativo lo strumento normativo attraverso cui dare decisa prevalenza alle istanze di tutela dei principi di umanità in tutti i casi in cui la situazione clinica del soggetto sia così compromessa da non rispondere più alle iniziative terapeutiche messe in campo dagli operatori sanitari; salva la possibilità di ricorrere all’ipotesi speciale di detenzione domiciliare, cosiddetta ‘umanitaria’, contemplata dall’art. 47-ter, comma 1-ter, Ord. pen., nel caso in cui vi siano esigenze di contenimento della pericolosità sociale del soggetto.

Detenzione domiciliare umanitaria

Con riferimento specifico a tale ipotesi, l’art. 47-ter, comma 1-ter Ord. pen., alla luce dell’ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale di legittimità, consente di applicare, lì dove residuino esigenze special preventive, la detenzione domiciliare in deroga sia al limite dell’entità della pena residua che alla ostatività delle fattispecie di reato di cui all’art. 4-bis Ord. pen (tra le molte Sez. 1 n. 18439 del 5.4.2013, Rv 255851, n. 8993 del 13.2.2008, Rv 238948; n. 17208 del 19.2.2001, Rv 218762;) in favore del condannato che si trova nella medesima situazione che legittima il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena detentiva per gravi motivi di salute, ex art. 147 primo comma, n. 2, cod. pen. (Sez. 1, n. 47868 del 26/09/2019, Rv. 277460).

È, dunque, necessario che l’infermità o la malattia siano tali da comportare un serio pericolo di vita o da non poter assicurare la prestazione di adeguate cure mediche nell’ambito carcerario, o comunque da far sì che l’espiazione della pena, per le sofferenze aggiuntive, eccessive e ingiustificate che ne derivano, avvenga in aperto dispregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere improntato il trattamento dei detenuti (Sez. 1 n. 5732 dell’8/01/2013, Rv. 254509; n. 972 del 14/10/2011, Rv. 251674).

Più in particolare, il giudice chiamato a decidere sull’applicazione della detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1-ter, Ord. pen deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali correlate alla pericolosità del detenuto e le condizioni complessive di salute di quest’ultimo con riguardo sia all’astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili, sia alla concreta adeguatezza della possibilità di cura ed assistenza che nella situazione specifica è possibile assicurare al detenuto, valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico (Sez. 1 n. 37062 del 9/04/2018, Rv. 273699).

È inoltre principio consolidato, ripetutamente affermato nella giurisprudenza costituzionale, della Corte EDU e di legittimità, che il giudice, investito della delibazione della domanda per l’applicazione di un beneficio penitenziario legato ad uno stato di infermità, deve valutare concretamente tale stato, la compatibilità o meno dell’infermità con le possibilità di assistenza e cura offerte dal sistema carcerario e, soprattutto, l’esigenza di non ledere comunque il fondamentale diritto alla salute e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, previsti dagli artt. 32 e 27 Cost.

Fermo restando che dal momento che una sofferenza aggiuntiva si produce comunque, inevitabilmente, ogni qual volta la pena debba essere eseguita nei confronti di soggetto in non perfette condizioni di salute, essa può assumere rilievo solo quando si appalesi di entità tale – in rapporto appunto alla particolare gravità di dette condizioni – da superare i limiti della umana tollerabilità (Sez. 1, n. 48203 del 10.12.2008, n.m; Sez. 1, n. 26026 del 20.05.2003, Rv. 2250085ez. 1, n. 32882 del 24/6/2014, Rv. 261414).

Il giudice non può limitarsi ad una astratta considerazione del quadro patologico e dei presidi sanitari e terapeutici posti a disposizione del detenuto, ma deve considerare la concreta situazione, sia della condizione clinica del paziente, sia delle possibilità di cura e assistenza che, nella situazione specifica, è possibile assicurargli, sia della concreta sofferenza aggiuntiva che la detenzione carceraria possa determinare (cfr. Sez. 1, n. 37062 del 9/4/2018, Rv. 273699; n. 36322 del 30/6/2015, Rv. 264468; v. anche n. 53166 del 17/10/2018, Rv. 274879; n. 36856 del 28/9/2005, Rv. 232511; n. 5715 del 15/11/1999, Rv. 214419).

Sulla scorta di questo indirizzo interpretativo, condiviso dal collegio, il concetto di “grave infermità fisica” deve ritenersi comprensivo del divieto di oltrepassare l’inevitabile grado di sofferenze inerente alla detenzione, così come affermato dalla Corte di Strasburgo sulla base dell’art. 3 CEDU (v. Corte EDU, sent. 26 ottobre 2000, Kudla c. Poland, § 94).

Ne segue che la valutazione della gravità delle condizioni di salute del detenuto e della compatibilità con il regime carcerario al quale egli è sottoposto, è soggetta a un giudizio bifasico, che deve essere effettuato dapprima in astratto, tenendo conto dell’inquadramento nosografico della patologia che affligge il detenuto e della astratta possibilità di cura e, quindi, in concreto, tenendo conto delle modalità di somministrazione delle terapie di cui il soggetto necessita, valutate in relazione all’istituto penitenziario in cui è ristretto e alle eventuali, ulteriori strutture carcerarie dove poterlo trasferire, nonché alla concreta incidenza della particolare situazione ambientale con il peculiare quadro clinico del detenuto (v. Sez. 1, n. 50998 del 17/10/2018, non massimata).

Orbene, l’ordinanza impugnata si è discostata dagli illustrati principi.

Il Tribunale di sorveglianza, dopo avere rimarcato di avere espressamente richiesto al carcere di notizie circa la concreta fronteggiabilità in ambito inframurario delle patologie che affliggono il e di non avere ricevuto risposta sul punto, ha comunque ritenuto di respingere la richiesta di differimento ritenendo comunque gestibile la situazione in istituto, senza prendere in esame, anche solo al fine di spiegarne la superfluità, la richiesta di accertamento peritale richiesto dalla difesa del condannato anche per sopperire alla mancanza delle informazioni di cui sopra.

Si tratta, però, di valutazione apodittica e priva di supporto scientifico. In tale situazione in cui i dati o elementi clinici utili ad orientare per l’incompatibilità del quadro patologico con il regime detentivo inframurario non sono esaustivi è necessario che il giudice si attivi per approfondire la questione anche ricorrendo all’ausilio peritale (secondo la traccia che, in sede cautelare, si rinviene nell’art. 299, comma 4-ter, cod. proc. pen.: Sez. 3, n. 5934 del 17/12/2014, dep. 2015, Rv. 262160), atteso che la natura essenzialmente tecnica delle indagini medico-legali necessarie per verificare tale compatibilità richiede valutazioni fondate non su semplificazioni bensì su elementi tecnici ulteriori, ordinariamente non reperibili nell’alveo del sapere comune e dunque da acquisirsi secondo le regole proprie dell’istruttoria, in questo caso, di quella propria del procedimento camerale, disponendo pure la perizia, ove necessario.

Ciò, ferma restando, naturalmente, la disamina critica spettante alla valutazione giudiziale anche in ordine all’esito peritale e, più in generale, agli elementi tecnici ulteriormente acquisiti, con il completamento scaturente dal contraddittorio.

Il Tribunale non ha valutato la possibilità che il trattamento in concreto riservato al detenuto possa scadere in ambito inumano o degradante, costituzionalmente e convenzionalmente inibito perché lesivo del fondamentale diritto alla salute e del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, ex artt. 32 e 27 Cost. (Sez. 1, n. 3262 del 01/12/2015, dep. 2016, Rv. 265722; Sez. 1, n. 16681 del 24/01/2011, Rv. 249966; Sez. 1, n. 22373 del 08/05/2009, Rv. 244132), pur in presenza di condizioni astrattamente rilevanti sotto questo particolare profilo, specie in considerazione della naturale evoluzione infausta delle accertate patologie.

La fondatezza delle censure relative alla compatibilità con il regime detentivo delle condizioni dell’odierno ricorrente, determina la conseguente necessità di considerare assorbito quelle relative al luogo di esecuzione della misura rispetto al giudizio di pericolosità sociale. Infatti, quest’ultimo profilo e la correlata esigenza di prevenire il concreto pericolo della commissione di delitti da parte del condannato, devono necessariamente essere apprezzate alla luce della nuova e più approfondita valutazione delle condizioni di salute, oggetto del nuovo giudizio.

Il ricorso, per tale ragione, deve essere accolto con il conseguente annullamento dell’ordinanza impugnata ed il rinvio al Tribunale di sorveglianza per il nuovo giudizio da svolgersi nell’osservanza degli indicati principi provvedendo a colmare le individuate lacune motivazionali.