Pene sostitutive: i limiti all’applicabilità devono essere riferiti non al residuo di pena da scontare ma a quella inflitta (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 48868/2023, udienza camerale dell’11 ottobre 2023, ha chiarito che la perimetrazione normativa dell’istituto della sostituzione delle pene detentive è intesa con riferimento alla pena inflitta e non a quella da espiare.

Vicenda giudiziaria e motivi di ricorso

Con ordinanza del … la Corte d’appello di …, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha respinto l’istanza del condannato di sostituzione della pena residua di anni 3 mesi 9 giorni 26 di reclusione, da espiare per effetto della condanna pronunciata dalla medesima Corte d’appello, irrevocabile il …, con la sanzione sostitutiva della detenzione domiciliare ex art. 95 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

In particolare, il giudice dell’esecuzione ha rilevato che, nella individuazione del perimetro di applicabilità dell’istituto, la norma dell’art. 95 fa riferimento al limite di quattro anni di pena irrogato nella sentenza di condanna, e non attribuisce rilievo al limite della pena residua da espiare.

Nel caso in esame, pur se la pena da espiare in concreto era inferiore per effetto del presofferto, l’istante era stato condannato alla pena di 4 anni e 2 mesi di reclusione, quindi oltre il limite massimo di applicabilità dell’istituto.

Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso il condannato, per il tramite del difensore, con un unico motivo, in cui deduce violazione di legge perché il giudice dell’esecuzione ha interpretato la norma in modo letterale, essa invece doveva essere oggetto di interpretazione analogica in bonam partem alla luce della ratio della norma, che intende deflazionare il carico dei Tribunali di sorveglianza rispetto alla situazione dei liberi sospesi, ovvero di coloro che hanno da espiare una condanna inferiore a quattro anni di reclusione; in caso di diversa interpretazione, andrebbe sollevata questione di costituzionalità della norma dell’art. 95 laddove non consente di interpretare il combinato disposto degli artt. 53 e 56 L. 24 novembre 1981, n. 689 nel senso che il limite della pena detentiva di quattro anni di reclusione sia riferito alla pena residua da espiare anziché alla pena irrogata con la sentenza di condanna.

La decisione della Corte di cassazione

La norma generale dell’art. 53 L. n. 689 del 1981, come modificata dal d.lgs. 150 del 2022, dispone che “il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di quattro anni, può sostituire tale pena con quella della semilibertà o della detenzione domiciliare; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di tre anni, può sostituirla anche con il lavoro di pubblica utilità; quando ritiene di doverla determinare entro il limite di un anno, può sostituirla altresì con la pena pecuniaria della specie corrispondente, determinata ai sensi dell’articolo 56-quater“.

La norma, quindi, si riferisce pacificamente alla pena inflitta, non a quella da espiare.

Anche la norma speciale dell’art. 95, comma 1, secondo periodo, d. lgs. n. 150 del 2022, applicabile ai soli giudizi pendenti in cassazione alla data di entrata in vigore della legge, dispone che “il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni, all’esito di un procedimento pendente innanzi la Corte di cassazione all’entrata in vigore del presente decreto, può presentare istanza di applicazione di una delle pene sostitutive di cui al Capo III della legge 24 novembre 1981, n. 689, al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’articolo 666 del codice di procedura penale, entro trenta giorni dalla irrevocabilità della sentenza“, si riferisce alla pena inflitta, non a quella da espiare.

La tesi sostenuta in ricorso, quindi, non ha base normativa, ed anzi è in aperto contrasto con la lettera della norma.

Il ricorrente è consapevole della mancanza di base legale a fondamento della propria pretesa ma attacca l’ordinanza impugnata sostenendo che della norma andava data un’interpretazione costituzionalmente orientata per rendere l’ambito di applicazione dell’istituto sovrapponibile a quello dei liberi sospesi.

In realtà, la giurisprudenza di legittimità si è già pronunciata su tale ipotesi interpretativa alternativa ed ha ritenuto che l’ambito di applicazione dell’istituto dell’art. 95 non sia sovrapponibile a quello dei c.d. liberi sospesi (Sez. 1, sentenza n. 36379 del 07/07/2023, n.m., secondo cui “non v’è allora, ai fini della regolazione dei confini applicativi della disciplina ora in esame, un’omogeneità tra i condannati con sentenza ancora irrevocabile e i cd. liberi sospesi – ossia i condannati con sentenza irrevocabile ad una pena detentiva non superiore a quattro anni di reclusione che siano in attesa di una pronuncia della magistratura di sorveglianza in punto di concedibilità di una misura“.

Come già ritenuto anche dalla pronuncia n. 36379 sopra citata, la questione di costituzionalità dell’art. 95 è manifestamente infondata. La perimetrazione normativa dell’istituto sulla pena inflitta, e non su quella da espiare, risponde all’esigenza razionale di individuazione di una soglia massima di carattere oggettivo, individuata dal giudice in concreto, laddove il riferimento alla pena da espiare consentirebbe di attribuire rilievo a situazioni puramente casuali derivanti dall’esistenza di un più o meno lungo periodo di presofferto, permettendo in questo modo di valicare ciò che la relazione illustrativa che accompagna il d. lgs. n. 150, ha definito il «limite massimo – cui corrisponde la massima estensione possibile del concetto di pena detentiva “breve” – [che] non potrà in ogni caso essere superato».

In definitiva, il ricorso è infondato.