Falsa testimonianza e costrizione a mentire per non autoincriminarsi: una singolare decisione della Cassazione (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 21987/2023, udienza del 5 aprile 2023, ha deciso un ricorso nel quale veniva in rilievo la possibile applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen. in riferimento alla condotta di falsa testimonianza contestata al ricorrente medesimo.

Motivi di ricorso

L’ex teste è stato riconosciuto responsabile in entrambi i gradi di merito del delitto di falsa testimonianza.

Ha affidato le sue chances residue a due motivi di ricorso:

con il primo motivo, ha dedotto la violazione dell’art. 384, cod. pen., sostenendo che, deponendo quale teste in una vicenda che lo vedeva direttamente coinvolto (avendo acquistato un quadro provento di furto), dovesse applicarsi la causa di non punibilità, in quanto la versione offerta era funzionale ad allontanare da sé qualsivoglia sospetto e, quindi, il rischio di essere incriminato; ha evidenziato a tal fine come fosse stato lo stesso pubblico ministero, all’esordio dell’esame testimoniale, a riferirsi alla potenziale esistenza di procedimenti penali a suo carico, in tal modo aumentando ulteriormente la percezione del rischio di essere incriminato;

con il secondo motivo, ha dedotto la violazione di legge in relazione agli artt. 384 e 197 cod. proc. pen., sostenendo che, essendo potenzialmente indiziato di reato (quanto meno con riferimento alla ricettazione dei quadri), non poteva essere sentito quale testimone, bensì quale teste assistito; a tal proposito il ricorrente, pur dando atto che al momento dell’escussione non risultava iscritto nel registro degli indagati, sostiene che la qualifica del dichiarante doveva essere accertata non già sulla base del dato formale, bensì della sostanziale esistenza a suo carico di indizi idonei a condurre all’iscrizione.

La decisione della Corte di cassazione

Il primo motivo di ricorso, concernente la sussistenza della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen., si fonda sull’assunto secondo cui il ricorrente, anche per le modalità con le quali era stato condotto il suo esame da parte del pubblico ministero, aveva avuto la percezione del rischio di essere incriminato. Del resto, il fatto oggettivo dell’aver acquistato dei quadri risultati provento di furto, dava luogo all’eventualità, tutt’altro che remota, di essere inquisito quanto meno per il reato di ricettazione.

Il collegio ha ritenuto non condivisibile la tesi difensiva, ricordando che, in tema di falsa testimonianza, la causa di esclusione della punibilità, prevista dall’art. 384, comma 1, cod. pen., per chi ha commesso il fatto per essere stato costretto dalla necessità di salvare sé stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore, opera anche nelle ipotesi in cui il soggetto agente abbia reso mendaci dichiarazioni per evitare un’accusa penale nei suoi confronti, a condizione che tale timore sia assistito da un giudizio di immediata ed inderogabile consequenzialità rispetto al contenuto della deposizione e non sia frutto di una semplice supposizione (in tal senso Sez. 6, n. 16443 del 25/03/2015, Rv. 263579; sia pur riferimento ad una fattispecie diversa, si veda anche Sez. 6, n. 29940 del 23/06/2022, Rv. 283722).

Il collegio decidente ha precisato inoltre, in riferimento alla situazione concreta in esame, che tale principio, di per sé ampiamente condivisibile, va ulteriormente ribadito tenendo conto della fase specifica in cui la deposizione è stata resa e dello sviluppo che il procedimento penale aveva avuto fino a quel momento.

Nelle sentenze di merito, infatti, si è posta correttamente l’attenzione sul fatto che il ricorrente aveva avuto un comportamento collaborativo e di supporto alle indagini fin dal primo sequestro del quadro rinvenuto nella sua abitazione, allorquando aveva immediatamente fornito le indicazioni per risalire al venditore dello stesso e, soprattutto, aveva anche indicato ove si trovassero gli ulteriori due quadri

provento di furto.

La posizione del ricorrente, quindi, non è stata in alcun momento quella del soggetto indiziato di concorso nel furto o dell’autore della ricettazione, posto che gli inquirenti – pur avendo rinvenuto uno dei quadri nella sua abitazione – non hanno provveduto alla sua iscrizione nel registro degli indagati, in tal modo dimostrando concretamente di aver ritenuto che l’acquisto del quadro era stato fatto in assoluta buona fede.

In buona sostanza, il ricorrente medesimo è stato ritenuto – fin dalle prime fasi delle indagini svolte a carico dell’imputata – quale un mero appassionato d’arte che aveva in buona fede ritenuto che i quadri che gli erano stati proposti in vendita erano di legittima provenienza.

Quanto detto consente di affermare che il contesto generale nell’ambito del quale è stata resa la deposizione testimoniale era tale da non consentire di far sorgere fondati timori circa il coinvolgimento del teste nella vicenda penale riguardante l’imputata e, quindi, il testimone non aveva ragione alcuna di temere nel rendere la propria deposizione.

Può conclusivamente affermarsi, quindi, che nell’escludere la sussistenza – anche a livello putativo – della causa di non punibilità prevista dall’art. 384, comma primo, cod. pen., si è correttamente tenuto conto del fatto che, fin dalle indagini preliminari che avevano preceduto il giudizio nel quale il teste doveva deporre, non era emerso alcun elemento idoneo a condurre al suo coinvolgimento.

Ne consegue che il teste non può invocare la causa di non punibilità nella misura in cui il rischio dell’emersione di una sua eventuale responsabilità penale era stato già escluso.

Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso, con il quale si assume che il ricorrente non poteva essere escusso quale teste, bensì doveva essere sentito con le garanzie previste dall’art. 197 cod. proc. pen., né poteva essere obbligato a deporre, dovendo applicarsi il disposto dell’art. 198, comma 2, cod. proc. pen.

La giurisprudenza ha avuto modo di affermare il principio secondo cui, allorché venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali, e prescindendo da indici formali, come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato, l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità (Sez. 6, n. 20098 del 19/4/2016, Rv. 267129; Sez. 4, n. 46203 del 19/9/2019, Rv. 277947; Sez. 6, n. 25425 del 4/3/2020, Rv. 279606; Sez. 5, n. 39498 del 25/6/2021, Rv. 282030).

Tuttavia, per le ragioni sopra richiamate, è agevole affermare che, al momento dell’escussione, non era emerso alcun elemento, anche meramente indiziario, sulla cui base poter ipotizzare l’assunzione della qualifica di imputato di reato connesso, né vi erano ragioni per ritenere che il teste potesse essere

obbligato a deporre su fatti dai quali poteva emergere la sua responsabilità penale.

Il teste, invero, non era affatto chiamato a deporre su fatti dai quali poteva emergere una sua responsabilità penale, atteso che la deposizione verteva esclusivamente sulla provenienza del quadro e sulle modalità mediante le quali l’imputata ne era venuta in possesso, fatti che esulavano completamente dalla successiva ricezione da parte del teste medesimo.

Il commento

La decisione oggetto di questo post risulta ben poco convincente.

Nel primo motivo di ricorso il ricorrente ha richiamato una precisa circostanza fattuale: prima che iniziasse la sua deposizione, il PM aveva fatto riferimento a potenziali procedimenti a suo carico.

Si dovrebbe convenire che si è trattato di una comunicazione idonea a rendere concreto il rischio di un’incriminazione e come tale avvertita dal teste.

Il collegio di legittimità non l’ha neanche menzionata nella motivazione ed ha continuato a considerare la preoccupazione del teste come frutto di una mera e ingiustificata supposizione.

Come non bastasse, il collegio ha compiuto un’ulteriore e rilevante omissione, non avendo tratto le corrette conseguenze dall’oggetto della deposizione richiesta al teste.

Costui era stato infatti esaminato non solo sulla provenienza del quadro da lui acquistato ma anche sulle modalità mediante le quali l’imputata ne era venuta in possesso.

Non vi è chi non veda l’elevato rischio di autoincriminazione legato a questa seconda circostanza, in quanto direttamente attinente al furto contestato all’imputata e, in potenza, all’eventuale ricettazione contestabile al teste.

Affermare, come ha fatto la Cassazione, che il modo in cui l’imputata aveva acquisito il quadro non avesse nulla che fare col suo successivo acquisto da parte del teste appare dunque una grossolanità logica prima ancora che giuridica.