Nuove contestazioni: sono una prerogativa esclusiva del PM che non ammette interferenze o veti del giudice (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 47769/2023, udienza del 22 novembre 2023, ribadisce che, in tema di nuove contestazioni in dibattimento, il giudice non può esercitare alcun sindacato preventivo sull’ammissibilità della contestazione del fatto diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio o del reato concorrente o della circostanza aggravante non menzionati in tale decreto, proposta dal PM ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., dovendo invece provvedere sul capo d’imputazione come modificato, stabilendo se sussiste o meno la responsabilità penale dell’imputato (cfr. Sez. 2 n. 9039 del 17/01/2023).

Tale affermazione si inserisce in un costante orientamento già ribadito da precedenti pronunce (Sez. 6, n. 37577 del 15/10/2010, Rv. 248539 – 01 in motivazione) secondo cui: l’art. 516 cod. proc. pen., e segg., inseriti sotto la rubrica “Nuove contestazioni”, disciplinano l’esercizio dell’azione penale nel corso del dibattimento, mirando a salvaguardare il principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza. Il PM interviene sull’imputazione enunciata nell’atto che instaura il giudizio, per adeguarla a quanto emerge dalle prove raccolte, in modo che il dibattimento possa proseguire e la decisione conformarsi alla fattispecie concreta corretta e/o ampliata.

Effettuare una nuova contestazione è un potere esclusivo del PM, inerente all’esercizio dell’azione penale, la cui obbligatorietà è prescritta dall’art. 112 Cost. Inoltre, nell’ipotesi ricorrente (art. 517 cod. proc. pen.), non è richiesto né il consenso dell’imputato né l’autorizzazione del giudice.  

Pertanto, la decisione del giudice del dibattimento che, arrogandosi un potere che nessuna norma gli riconosce, nega al PM il compimento di un atto imperativo, insindacabile e obbligatorio qual è la contestazione della circostanza aggravante rilevando la tardività è illegittimo.

Nello stesso senso si era già affermato che: “avvenuta, infatti, la contestazione del reato connesso da parte del pubblico ministero, il giudice che procede ha l’obbligo di provvedere in ordine al nuovo capo di imputazione, stabilendo se sussiste o meno la responsabilità penale dell’imputato, ovvero dichiarando la propria incompetenza perché il fatto appartiene a quella di un giudice superiore. E ove il giudicante ometta di decidere nel senso su riferito, la sentenza da lui resa potrà essere utilmente impugnata in quanto non si è pronunciata su di un capo di imputazione. Anzi, è proprio questo l’unico rimedio a disposizione del rappresentante della pubblica accusa avverso il rifiuto del giudicante a provvedere sulla contestazione effettuata ai sensi dell’articolo 517 cod. proc. pen., dal momento che la possibilità di procedere autonomamente – da taluni prospettata – è data per il reato connesso, ma non per la circostanza aggravante” (Sez. 2, n. 5180 del 5.11.1999 in motivazione).

A conferma di tale principio è sufficiente osservare che l’art. 517 stabilisce esclusivamente che il PM “contesta all’imputato” il reato connesso o la circostanza aggravante emersa dagli atti del dibattimento, senza prevedere alcun potere di intervento per l’organo giudicante, come fa invece l’art. 518 cod. proc. pen. con riferimento alla contestazione di un fatto nuovo, stabilendo che il presidente del collegio “può autorizzarla”.

Emerge pertanto evidente come dalla ricognizione delle norme di riferimento in presenza di una circostanza aggravante al giudice che procede è preclusa qualsiasi attività discrezionale posto che l’unico titolare dell’azione penale, il PM, può procedere alla modifica dell’imputazione.

Ulteriore argomento si trae dalla lettura della motivazione della sentenza della Corte costituzionale del 9 luglio 2015 n. 139 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del cod. proc. pen., nella parte in cui nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione e che ha precisato che: “la contestazione “tardiva” di circostanze aggravanti, è idonea a determinare «un significativo mutamento del quadro processuale”, potendo incidere in modo rilevante sull’entità della sanzione – tanto più quando si tratti di circostanze ad effetto speciale – e talvolta sullo stesso regime di procedibilità del reato. La Corte ha osservato, inoltre, che l’imputato che si veda contestare in dibattimento una circostanza aggravante già risultante dagli atti di indagine si trova in situazione non dissimile da quella del destinatario della contestazione “tardiva” di un fatto diverso: sicché, una volta divenuta ammissibile la richiesta di “patteggiamento” nel caso di modificazione dell’imputazione a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., la preclusione di essa nel caso di contestazione di una nuova circostanza aggravante, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., risulta foriera di ingiustificate disparità di trattamento al pari della richiesta di giudizio abbreviato.

Il caso concreto

Nel caso in esame il PM in dibattimento aveva richiesto la modifica dell’imputazione e la contestazione dell’aggravante del 625 n. 7 cod. pen. da cui derivava in astratto la procedibilità di ufficio del reato contestato ed il Tribunale ha illegittimamente negato l’esercizio di tale potere-dovere e ha rilevato la tardività sul presupposto errato che erano decorsi i termini per proporre la querela da parte della persona offesa e ha deciso sulla base della originaria imputazione rilevando la improcedibilità ex art. 129 cod. proc. pen.

Vanno qui ribaditi, quanto alla rilevata tardività della contestazione suppletiva, i principi affermati da Sez. Unite n. 4 del 28/10/1998 Ud. (dep. 11/03/1999) Rv. 212757, secondo cui “la direttiva n. 78, di cui all’art. 2 della legge delega per il vigente codice di rito (L. 16 febbraio 1987 n. 81), prevedendo appunto il potere del pubblico ministero di procedere nel dibattimento alla modifica dell’imputazione non pone specifici limiti temporali all’esercizio di detto potere nell’ambito di tale fase processuale, ne’ consente di fare distinzioni quanto alla fonte degli elementi dai quali la contestazione “suppletiva” trae causa. E ciò è stato previsto dalla direttiva in esame, e poi introdotto nel codice di rito, perché la modifica dell’imputazione o la contestazione di una circostanza aggravante, come pure di un reato concorrente, non possono che considerarsi come eventualità fisiologiche in un sistema processuale che si ispira al rito accusatorio incentrato nel dibattimento, ma che non consente, come più volte ricordato dalla Corte costituzionale, dispersione degli elementi utili per un “giusto processo“.

Ora, è vero che la tendenziale parità delle parti, cui si ispira la logica del sistema accusatorio – nell’esaltare il principio del contraddittorio – richiede che il PM formuli l’imputazione in base agli elementi d’accusa già acquisiti nelle indagini preliminari (artt. 405-407 cod. proc. pen.) e che, a sua volta, l’imputato, posto a conoscenza degli elementi di accusa, possa sin dall’inizio del dibattimento contrastarli efficacemente. Ma ciò non può comportare, come ineluttabile conseguenza, che, se il PM, per inerzia o errore, abbia omesso in parte la contestazione di elementi di accusa già acquisiti, non possa provvedervi poi nel dibattimento, e sin dal suo inizio, apportando le necessarie modifiche all’imputazione.

Senza contare, infine, che mediante la contestazione suppletiva all’inizio del dibattimento e sulla base di elementi non considerati nella formulazione dell’originaria imputazione, in caso di circostanza aggravante o di modifica dell’imputazione evita di precludere al PM la possibilità di richiedere un accertamento completo del fatto-reato, in sede di giudizio. E ciò perché gli elementi modificativi od integrativi del fatto (quali le circostanze aggravanti) non potrebbero mai formare oggetto di autonomo giudizio penale, diversamente da quanto sostenuto erratamente nella sentenza impugnata. Si darebbe luogo altrimenti ad una contrazione dell’ambito di esercizio dell’azione penale, con ciò contravvenendosi al disposto dell’art. 112 Cost.

Degli elementi a base di detta contestazione è comunque garantita la tempestiva conoscenza alla difesa, ai sensi degli artt. 430 comma 2, 431, 433 comma 2, 466 cod. proc. pen.

Ed ancora, proprio a garanzia del diritto di difesa, l’art. 519 cod. proc. pen. dà facoltà all’imputato, nei cui confronti il PM abbia proceduto a contestazione suppletiva (“salvo che la contestazione abbia per oggetto la recidiva”), di chiedere al giudice un termine per poter contrastare l’accusa perché in parte integrata o modificata. La norma in esame, peraltro, aggiunge che il tempo concesso dal giudice non può essere “inferiore al termine per comparire previsto dall’art. 429 (alt. 519, comma 2), cioè non inferiore a venti giorni”.

In riferimento al momento processuale in cui il potere di precisazione della contestazione, immediatamente derivante dal principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., deve essere esercitato, le direttrici ermeneutiche declinate dalla giurisprudenza di legittimità, nella sua più autorevole composizione (Sez. U, n. 4 del 28/10/1998 – dep. 1999, Barbagallo, Rv. 212757), non assegnano alcuna preclusione correlata alla preesistenza, rispetto all’apertura del dibattimento, degli elementi di fatto che portano alla modifica dell’imputazione di cui all’art. 516 cod. proc. pen. e alla contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all’art. 517 cod. proc. pen., poiché le nuove contestazioni possono essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale, e dunque anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.

Di guisa che il potere di procedere nel dibattimento alla modifica dell’imputazione o alla formulazione di nuove contestazioni va riconosciuto al PM senza specifici limiti temporali o di fonte, in quanto l’imputato ha facoltà di chiedere al giudice un termine per contrastare l’accusa, esercitando ogni prerogativa difensiva come la richiesta di nuove prove o il diritto ad essere rimesso in termini per chiedere riti alternativi o l’oblazione (ex multis Sez. 6, n. 18749 del 11/04/2014, Rv. 262614, Sez.6 n. 44980 del 22.09.2009 Rv. 245284).

Sullo specifico tema il collegio condivide la pronuncia della Sez. feriale n. 43255 del 22.09.2023 con cui si è affermato il seguente principio: «in caso di giudizio per il reato di furto aggravato ex art. 625, comma 1, n. 2, cod. pen., pur essendo decorso il termine previsto dall’art. 85, comma 1, d. lgs. n. 150 del 2022 senza che la persona offesa abbia presentato querela, in difetto di sopravvenienze dibattimentali all’uopo rilevanti, il PM di udienza, prima della declaratoria di improcedibilità per difetto di querela, può modificare l’imputazione, procedendo alla contestazione suppletiva di una circostanza aggravante ulteriore che renda in astratto il reato procedibile di ufficio – nella specie, quella di cui all’art. 625, comma 1, n. 7 cod. pen., per essere stato il fatto commesso su cose destinate a pubblico servizio – sul presupposto che il PM non ha la mera facoltà, bensì il potere-dovere di esercitare e proseguire l’azione penale per il fatto-reato correttamente circostanziato, e non ostando, in ipotesi, alla contestazione suppletiva di una circostanza aggravante e l’assenza di sopravvenienze dibattimentali all’uopo rilevanti».

Va in conclusione affermato che il PM, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., era pienamente legittimato ad effettuare la contestazione suppletiva della circostanza aggravante in questione relativa all’art. 625 n.7 cod. pen., a seguito della quale il reato oggetto di contestazione non era più in astratto procedibile a querela di parte ma d’ufficio e il Tribunale doveva decidere sulla regiudicanda come risultante dal legittimo esercizio da parte del PM del potere dovere di formulare la imputazione.

Ne consegue che, “qualificata l’impugnazione del pubblico ministero quale ricorso per saltum e ritenuta sussistente la nullità denunciata con il ricorso del Procuratore della Repubblica ricorrente, poiché in violazione delle norme di legge sopra richiamate il giudice del dibattimento ha precluso al Pubblico ministero il potere-dovere di esercitare e proseguire l’azione penale per il fatto-reato correttamente circostanziato e qualificato, il Tribunale è incorso in una nullità assoluta di ordine generale prevista dagli artt. 178 e 179 cod. proc. pen., che attiene alla formulazione della imputazione e all’esercizio dell’azione penale; nel caso di specie ricorre il caso di cui all’art. 569 comma 4 prima parte in relazione al 604 comma 4 cod. proc. pen e l’annullamento va disposto senza rinvio al Tribunale, in diversa composizione, per l’ulteriore corso.