La violenza contro le donne e la risposta istituzionale (di Vincenzo Giglio)

L’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ha acceso da molti anni un riflettore sul grave fenomeno della violenza contro le donne.

I risultati, costantemente aggiornati, della sua attività di ricerca e classificazione sono disponibili a questo link, dal quale si accede a una ricca sezione di dati.

Ne fa parte anche un report in forma di slide curato da Maria Giuseppina Muratore, dal titolo “Un viaggio nel sistema informativo sulla violenza contro le donne attraverso i dati”, reperibile a questo link.

Il report è stato curato nell’ambito del convegno scientifico “Conoscere per decidere: l’attuazione del piano nazionale sulla violenza contro le donne attraverso i dati”, tenuto il 23 marzo di quest’anno.

Nella quinta slide del report si legge questo:

La violenza è:

  • un fenomeno grave, diffuso e trasversale tra i diversi status sociali;
  • le donne difficilmente guardano alla violenza subita come ad un crimine, anche in presenza di ferite
    •  più frequentemente è considerata come solo qualcosa che è accaduto
    • molte giovani che subiscono lo stupro dal fidanzato non lo riconoscono come reato
  • la violenza si perpetua…. da genitori a figli: è elevata la trasmissione intergenerazionale della violenza;
  • si è socializzati alla normalità della violenza;
  • le donne spesso non parlano con nessuno della violenza subita e poche denunciano alle forze dell’ordine;
  • parlare della violenza aiuta ad uscire dalla violenza e soprattutto aiuta rivolgersi alle istituzioni”.

Tesi pienamente condivisibili, considerando peraltro i ripetuti episodi criminali che le cronache ci propongono con allarmante continuità, per ritenere la violenza contro le donne un’emergenza nazionale.

Il report ci dice che le donne fanno fatica a considerare la violenza come tale, non parlano e denunciano poco e che bisognerebbe che lo  facciano di più, rivolgendosi alle istituzioni e chiedendo aiuto.

È un auspicio condivisibile ma difficilmente realizzabile se non si capiscono le ragioni di quella fatica e di quella sfiducia.

La direzione più logica da seguire è verificare cosa succede quando una donna si fida e denuncia.

Nell’impossibilità di riassumere qui i dati statistici nazionali, invito chi è interessato a conoscerli a navigare in profondità nell’apposito spazio del sito web dell’ISTAT.

Mi limito quindi a citare alcuni casi eclatanti nei quali la fiducia nelle istituzioni delle donne vittime di violenza si è rivelata malriposta.

Uno di questi è stato trattato dal Comitato CEDAW. Si tratta di un organismo che agisce in attuazione della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW è l’acronimo della sua denominazione in lingua inglese).

Ad esso ha fatto ricorso AF, una donna che, il giorno dopo avere subito un’aggressione da parte dell’ex marito, aveva denunciato di essere stata stuprata dall’agente di polizia giudiziaria incaricato delle indagini. Il Comitato CEDAW, con la pronuncia AF c. Italia del 20 giugno 2022, ha ravvisato che lo Stato italiano abbia violato vari articoli della Convenzione.

Rinvio, per un dettagliato resoconto della vicenda e per la lettura in lingua italiana della decisione citata, a Paola Di Nicola Travaglini, I pregiudizi giudiziari contro le donne all’esame di organismi internazionali: il caso A.F. contro Italia, in Sistema Penale, 29 luglio 2022, a questo link.

Aggiungo solo che nel paragrafo 7.16 della decisione del Comitato CEDAW si legge testualmente questo passaggio:Il Comitato ritiene che la decisione della Corte di annullare la condanna di C.C. per mancanza di prove che dimostrassero gli elementi del reato imputato, nonostante le significative prove forensi, mediche e testimoniali, possa essere attribuita solo a stereotipi di genere profondamente radicati che hanno portato ad attribuire un peso probatorio maggiore al racconto dell’imputato, che è stato chiaramente preferito, senza alcun esame critico delle argomentazioni della difesa, senza alcun riesame o revisione delle prove per consentire ai testimoni di spiegare eventuali incongruenze percepite. Il Comitato ritiene che questa decisione non segua una linea logica di ragionamento se misurata rispetto a qualsiasi criterio oggettivo e non risponda agli obblighi procedurali dello Stato parte. Rileva che la Corte Suprema si è limitata a una valutazione superficiale del fatto che tutte le prove fossero citate in una sequenza logica, senza tenere conto dei difetti nell’analisi e nella ponderazione delle prove stesse, e ha scelto di respingere altri motivi in quanto non basati su estratti curati”.

Non sembrano esattamente complimenti.

Rilevo ancora, sempre attingendo alla scheda (leggibile attraverso lo stesso link dal quale si arriva all’articolo della Di Nicola Travaglini), dell’osservatorio sulla violenza contro le donne n. 3/2022 di Sistema Penale, che il nostro Stato è stato di recente censurato due volte dalla Corte europea dei diritti umani.

Mi riferisco alla causa Landi c. Italia, Corte EDU, prima sezione, 7 aprile 2022, in esito alla quale i giudici europei dei diritti umani hanno così concluso: “106. La Corte ritiene che i procuratori si siano sicuramente sottratti al loro obbligo di adottare misure preventive che avrebbero potuto avere una reale possibilità di modificare l’esito tragico, o almeno di attenuare il pregiudizio. Nonostante le diverse misure di protezione di cui disponevano direttamente, le autorità non hanno dimostrato una particolare diligenza nel prevenire le violenze commesse nei confronti della ricorrente e dei suoi figli, che hanno portato al decesso di M. (paragrafi 101 e 93 supra). Tuttavia, la Corte ritiene che, tenuto conto soprattutto dell’atteggiamento proattivo dei carabinieri, l’inazione delle autorità inquirenti nel caso di specie non possa essere considerata come una carenza sistemica.

107. La Corte è del parere che, nel caso di specie, non vi siano elementi che tendano a dimostrare che i procuratori che hanno esaminato il caso della ricorrente abbiano agito in maniera o con intenzione discriminatoria nei confronti dell’interessata stessa. Essa rammenta che può esservi violazione dell’articolo 14 solo nel caso di carenze generalizzate derivanti dal fatto che le autorità nazionali, chiaramente e sistematicamente, non valutino la gravità, la portata e l’effetto discriminatorio sulle donne del problema della violenza domestica.

108. Di conseguenza, la Corte conclude che le carenze denunciate nella presente causa, essendo derivate da una grave passività da parte delle autorità, e sebbene riprovevoli e contrarie all’articolo 2 della Convenzione (si vedano i paragrafi 101-93 supra) non possono essere considerate di per sé indicative di un atteggiamento discriminatorio da parte delle autorità (paragrafo 101 g) supra)”.

E mi riferisco alla causa De Giorgi c. Italia, Corte EDU, prima sezione, 16 giugno 2022, in cui si legge che “80. La Corte ritiene che, sulla base delle informazioni note alle autorità all’epoca dei fatti e che indicavano che esisteva un rischio reale e immediato che fossero commesse nuove violenze contro la ricorrente e i suoi figli, di fronte alle denunce di escalation delle violenze domestiche che formulava la ricorrente, le autorità non abbiano dimostrato la diligenza richiesta (si veda il paragrafo 78 supra). Esse non hanno proceduto a una valutazione del rischio di maltrattamenti che avrebbe caratterizzato in modo specifico il contesto delle violenze domestiche, e in particolare la situazione della ricorrente e dei suoi figli, e che avrebbe giustificato l’adozione di misure preventive concrete allo scopo di proteggerli da un tale rischio. Pertanto, essa ritiene che le autorità si siano sottratte al loro obbligo positivo derivante dall’articolo 3 di proteggere la ricorrente e i minori dalle violenze domestiche commesse da L.B.” e che “85. La Corte ritiene che, nel trattare in via giudiziaria il contenzioso delle violenze contro le donne, spetti ai giudici nazionali tenere conto della situazione di precarietà e di particolare vulnerabilità, morale, fisica e/o materiale, della vittima, e valutarne la situazione di conseguenza, nel più breve tempo possibile. La Corte non è convinta che le autorità abbiano cercato seriamente di avere una veduta d’insieme della successione di incidenti violenti in causa, come richiesto nelle cause in materia di violenza domestica. I procuratori incaricati delle due indagini non hanno dimostrato di avere alcuna consapevolezza delle particolari caratteristiche delle cause in materia di violenza domestica e alcuna volontà reale di fare in modo che l’autore di tali atti fosse portato a renderne conto. L’indagine sull’aggressione del 20 novembre 2015 si è conclusa nel 2021 e il procedimento è oggi tuttora pendente; l’indagine sui fatti denunciati tra il 2016 e il 2017 è ancora pendente e, invece, non  stata condotta alcuna indagine a seguito dei maltrattamenti segnalati dai servizi sociali nel 2018”.

Ecco, ora si comprende un po’ meglio la ritrosia delle donne a portare alla luce il male subito e quanta strada ci sia ancora da fare.