Medico intramoenia che non comunica all’Asl le prestazioni private: il silenzio può essere considerato come un raggiro nel delitto di truffa? (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 46209/2023, udienza del 3 ottobre 2023, si è chiesta se e in che termini il silenzio possa costituire raggiro ai sensi dell’art. 640 cod. pen.

La risposta era necessaria poiché il ricorrente, nella sua qualità di medico ospedaliero e serbando un rigido silenzio, non ha comunicato all’ente pubblico di svolgere attività professionale presso il suo studio privato, in tal modo inducendo l’ente stesso a corrispondergli lo stipendio maggiorato dell’indennità di esclusiva.

L’idoneità ingannatoria del silenzio

In ordine al problema del silenzio avente valenza ingannatoria, è consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, in tema di truffa contrattuale, anche il silenzio, maliziosamente serbato su circostanze rilevanti ai fini della valutazione delle reciproche prestazioni da parte di colui che abbia il dovere di farle conoscere, integra l’elemento oggettivo ai fini della configurabilità del reato di truffa, trattandosi di raggiro idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe dato, in tal modo influendo sulla volontà negoziale del soggetto passivo (Sezione 2, n. 23079 del 9/5/2018, Rv, 272981 – 01; Sezione 2, n. 28791 del 18/6/2015, Rv. 264400 – 01; Sezione 2, n. 28703 del 19/3/2013, Rv. 256348 – 01; Sezione 2, n. 32859 del 19/6/2012, Rv. 253660 – 01; Sezione 2, n. 41717 del 14/10/2009, Rv. 244952 – 01; Sezione 2, n. 39905 del 11/10/2005, Rv. 232666 – 01; Sezione 2, n. 5579 del 3/4/1998, Rv. 210613 – 01).

Origine civilistica dell’obbligo giuridico di informare la controparte in ordine a circostanze essenziali del contratto

Questo orientamento individua in norme extrapenali, segnatamente nelle norme del codice civile in tema di buona fede contrattuale (nella stipula, nella interpretazione e nella esecuzione del contratto), la fonte dell’obbligo giuridico di informare la controparte in ordine alle circostanze fondamentali del contratto (in termini, Sezione 2, n. 23079/2018 cit.; Sezione 5, n. 22643 del 21/4/2023; Sezione 2, n. 45144 del 14/10/2022; Sezione 2, n. 43112 del 6/10/2021; Sezione 2, n. 39178 del 17/9/2021).

Le tesi dottrinali

La dottrina prevalente, invece, esclude che il silenzio possa costituire raggiro ai sensi dell’art. 640 cod. pen. sostanzialmente sulla base di due ordini di ragioni: i) la clausola di equivalenza di cui al capoverso dell’art. 40 cod. pen. opera con riferimento alle fattispecie causalmente orientate e non rispetto ai reati a forma vincolata, come la truffa, la cui condotta viene descritta dalla legge con modalità particolari tipiche della fattispecie, dovendo estrinsecarsi in artifici o raggiri; ii) in ogni caso, non esiste un obbligo giuridico di informare la controparte, in assenza di una posizione di garanzia di tutela del patrimonio altrui.

Dunque, la fonte dell’obbligo giuridico non può essere rinvenuta nelle norme del codice civile in tema di buona fede contrattuale, in quanto trattandosi di un obbligo generico, non potrebbe fondare una precisa posizione di garanzia “costante” – come richiesto nel caso del reato omissivo improprio – ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., in ossequio ai principi di tassatività e determinatezza. Invero, l’obbligo di intervento deve avere un contenuto specifico e non indeterminato (come accade nel caso del principio di buona fede contrattuale), in quanto contribuisce a tipizzare il reato omissivo improprio.

Del resto, secondo la dottrina civilistica, le regole, non scritte, della correttezza e della lealtà sono regole di costume: corrispondono a ciò che un contraente di media correttezza o lealtà si sente in dovere di fare o di non fare e si dovrà tenere conto del livello medio di correttezza di quel dato settore economico o sociale cui il contratto si riferisce (ad esempio, il settore del credito, quello delle assicurazioni, quello della compravendita delle automobili usate e così via).

Questo comporta che spetta al giudice stabilire, in concreto, ciò che è contrario alla buona fede; questi, tuttavia, non si avvale di un proprio concetto di correttezza o di lealtà, dovendo invece tenere conto delle regole del costume, che possono essere molto più elastiche e spregiudicate dal suo personale concetto di correttezza. L’applicazione della clausola generale di buona fede non è, dunque, se non in senso quanto mai lato, applicazione della legge: è, propriamente, applicazione di regulae iuris create dal giudice, a ciò abilitato dalla legge.

…Necessità di una posizione di garanzia

Sotto altro profilo, è stato altresì evidenziato in dottrina che il soggetto destinatario dell’obbligo deve trovarsi in un particolare rapporto giuridico con il bene patrimoniale da proteggere, vale a dire nella posizione giuridica di garanzia, in quanto munito dei poteri giuridici impeditivi necessari a scongiurare il verificarsi dell’evento offensivo. Sono proprio tali poteri a qualificare il contenuto del medesimo obbligo di garanzia, distinguendolo da altri obblighi affini, che non possono però considerarsi obblighi di garanzia.

Orbene, per individuare la posizione di garanzia – rilevante ai sensi dell’art. 40, secondo comma, cod. pen. – in capo ad un soggetto, va in ogni caso posta particolare attenzione al tipo di affidamento che intercorre tra il garante ed il bene: deve, invero, trattarsi di un affidamento del bene giuridico al garante pressoché completo, per cui il bene può considerarsi “nelle mani” del titolare dell’obbligo. Ciò soltanto giustifica che l’omesso impedimento da parte del garante dell’offesa al bene possa essere parificato all’offesa del medesimo bene giuridico mediante comportamento attivo, anche sul piano sanzionatorio.

Sotto questo aspetto, la specifica norma che prevede l’obbligo giuridico di attivarsi deve essere correttamente interpretata per stabilire se, proprio in rapporto al contenuto dell’attività prescritta, contempli un obbligo di garanzia o invece un semplice obbligo di sorveglianza, nel senso di dover l’obbligato soltanto agevolare l’impedimento dell’evento del reato e non, egli stesso, direttamente impedirlo, per l’assenza dei necessari poteri giuridici impeditivi.

Come è noto, il contenuto dell’obbligo di garanzia può essere perciò declinato nell’obbligo di protezione del garante di determinati beni giuridici a lui affidati contro tutte le fonti di pericolo che possano minacciarli, stante l’incapacità del titolare degli stessi di proteggerli autonomamente, che è quello che maggiormente interessa ai fini della presente indagine; ovvero nell’obbligo di controllo di determinate fonti di pericolo a tutela dei diversi beni giuridici ad esse esposti, per il quale il garante è titolare di poteri giuridici di controllo della fonte di pericolo, in quanto i titolari dei beni minacciati non possono proteggersi da soli senza ingerirsi nella sfera giuridica altrui.

…Definizione di garante

Quindi, in definitiva, può qualificarsi garante unicamente il soggetto titolare di uno specifico obbligo di azione, l’obbligo giuridico di impedire l’evento, quale obbligo gravante su determinate categorie di soggetti che siano anche dotati di adeguati poteri giuridici di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla loro tutela per l’incapacità dei titolari di detti beni di proteggerli adeguatamente.

Occorre ora chiedersi se possa individuarsi un siffatto obbligo giuridico di garanzia in capo al soggetto che resti inerte, in silenzio, di fronte alla controparte, posto che, per potersi ammettere la responsabilità penale per omissione impropria, ai sensi dell’art. 40, secondo comma, cod. pen., dovrebbe individuarsi, come detto, la titolarità in capo al medesimo di un obbligo giuridico, rilevante dal punto di vista penale, che lo renda garante dell’altrui patrimonio, tenendo presente la necessità che detto obbligo risulti conforme ai requisiti sin qui enucleati come essenziali ai fini dell’equiparazione dell’omissione all’azione.

In proposito, ritiene autorevole dottrina che gli obblighi di matrice civilistica – siano essi individuabili in obblighi giuridici di informazione, ovvero nel generico obbligo di comportarsi secondo buona fede nei rapporti con la controparte, tanto nella fase di trattativa, o stipula, quanto nell’esecuzione contrattuale – non abbiano un pregnante contenuto di protezione dell’altrui patrimonio e che, quindi, non costituiscano obblighi di garanzia, rappresentando, invece, dei meri obblighi di comportarsi nel rispetto del canone della “buona fede”, trattandosi di semplici obblighi di attivarsi per informare la controparte e non anche per tutelarne il patrimonio. Essi costituiscono, in definitiva, meri obblighi di attivazione che impongono un comportamento orientato ai principi di correttezza e buona fede nei rapporti contrattuali, senza tuttavia costituire un obbligo di impedimento dell’evento di danno all’altrui patrimonio che sia idoneo ad attivare la clausola di equivalenza azione-omissione stabilita dall’art. 40, secondo comma, cod. pen., posto che dall’obbligo di buona fede non si può inferire, di per sé, un obbligo di impedimento penalmente rilevante.

D’altronde, si evidenzia che vi è anche da considerare che, nel sistema generale, il rilievo di obblighi civilistici di corretto comportamento deve tener conto del principio di autoresponsabilità del soggetto che sia pienamente capace di intendere e volere, in forza del quale non è certamente possibile addossare pregnanti obblighi di intervento, quali obblighi di garanzia, in capo ad un soggetto solo perché più attento o più scaltro di un altro, ad esempio, nel condurre una trattativa contrattuale.

…Gli obblighi extra-penalistici non sono idonei a costituire in capo al soggetto che ne è gravato una posizione di garanzia del patrimonio altrui

In conclusione, si afferma in dottrina che detti obblighi extra-penalistici non costituiscono obblighi di intervento posti a carico di un soggetto quale garante del bene giuridico patrimoniale altrui, il cui attivarsi dovrebbe invece essere considerato dalla legge come essenziale ai fini della protezione del bene giuridico per l’incapacità del titolare del patrimonio di proteggerlo adeguatamente; non costituiscono, cioè, obblighi di garanzia idonei ad incardinare una posizione di garanzia, perché il patrimonio della controparte non è stato affidato dal legislatore ad un soggetto-garante, cioè non è stato consegnato “nelle mani” del soggetto che resti inerte, in silenzio, il quale non è, quindi, titolare di alcun obbligo di protezione che possa concretare un vincolo di garanzia a tutela dell’altrui patrimonio.

Peraltro, sarebbe erroneo identificare, in modo pressoché automatico, una posizione di garanzia in capo ad un soggetto per il solo fatto che eserciti un’attività contrattuale, sia essa nella fase di trattativa, o stipula, ovvero di esecuzione di un negozio giuridico, a tutela di un soggetto che non sia, di per sé, incapace di tutelare adeguatamente i propri interessi patrimoniali, per il rischio di produrre un indominabile effetto moltiplicatore delle sfere della garanzia penale, tale da radicare presunte posizioni di garanzia in capo a chiunque e, dunque, di ampliare enormemente la sfera del rilevante penalistico, in violazione del principio che riserva l’intervento penale all’extrema ratio nel rapporto

interferenziale che corre con gli altri rami dell’ordinamento giuridico. Del resto, ogni volta in cui un soggetto, in una fase negoziale, anche di tipo pre o post-contrattuale, violi un obbligo di buona fede o un obbligo informativo che sia posto dalla normativa civilistica, potrà essere chiamato a rispondere per il corrispondente illecito civilistico, ma non anche per un illecito penale, secondo meccanismi pressoché automatici di attribuzione della responsabilità penale, al di là e dimentichi di ogni basilare garanzia.

…Il silenzio e l’omissione di obblighi informativi sono comportamenti neutri ai quali non si può attribuire la maliziosità richiesta per gli artifici e i raggiri

Dunque, secondo la dottrina prevalente, il silenzio maliziosamente serbato e l’omissione di obblighi informativi appaiono comportamenti neutri e, soprattutto, inespressivi di quel pregnante atteggiamento doloso che dovrebbe invece accompagnare la maliziosità degli artifici e raggiri. La inosservanza del detto dovere potrà dar luogo a sanzioni civili, ma non alla truffa, in coerenza con la concezione del diritto penale come extrema ratio. In altri termini, rinvenire gli artifici e raggiri nel dovere dei contraenti di comportarsi secondo buona fede rischia di far coincidere ogni illecito contrattuale civile con l’illecito penale della truffa contrattuale.

Distinzione tra illecito penale e inadempimento civile e tutela penale del contratto

La questione in esame involge, allora, da un lato, la distinzione tra illecito penale e inadempimento civile – per cui è fondamentale provare a tracciare una linea di confine tra le due fattispecie, tra truffa contrattuale e inadempimento civilistico – e, dall’altro, la tutela penale del contratto.

È utile premettere che il tema va affrontato seguendo una metodologia improntata ad una interpretazione giuridico-sistematica, che prenda atto della interazione tra diritto penale e diritto civile, tenuto conto che negli ultimi decenni il rapporto tra queste due macrocategorie giuridiche è mutato, come dimostrano le sempre più frequenti occasioni di contatto tra le due sfere di azione; altrettanto utile è evidenziare che il contratto è strumento di autonomia in grado di comportare conseguenze patologiche non solo sotto il profilo civilistico – in quanto esso è geneticamente “figlio” del diritto privato – ma, se perfezionato in discordanza con precetti penali o stipulato mediante subdole modalità, può anche comportare l’irrogazione di sanzioni penali.

Ciò posto e rilevato che la truffa contrattuale appartiene ai reati in contratto – cioè quei reati nei quali la condotta avente rilevanza penale è quella tenuta dal soggetto attivo durante il processo di formazione della volontà contrattuale e/o nella fase esecutiva del contratto, per cui la controparte è indotta con mezzi illeciti (frode, violenza, approfittamento dello stato di bisogno o di inferiorità psichica) ad una disposizione patrimoniale (si pensi alla truffa o all’insolvenza fraudolenta, o ancora all’estorsione, all’usura, alla circonvenzione di incapaci) – occorre chiedersi in quali ipotesi il comportamento dell’agente sia qualificabile alla stregua di un semplice inadempimento contrattuale e quando, al contrario, esso abbia rilevanza penale.

…Principio generale del ricorso al diritto penale come extrema ratio

Innanzitutto, viene in rilievo il principio generale del ricorso al diritto penale quale extrema ratio.

Ciòsignifica che, perché si possa configurare la fattispecie di truffa, è necessario che il comportamento inadempiente dell’agente sia connotato da un quid pluris che, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, sia in grado di colorare di offensività la condotta civilisticamente illecita, sì da attribuirle un disvalore tale da imporre il ricorso alla sanzione penale.

Ed invero, la mancata esecuzione del contratto in sé non rappresenta mai un comportamento penalmente rilevante, atteso che l’interesse del creditore all’adempimento non assurge a bene giuridico meritevole di tutela penale, essendo affidata la relativa sanzione per la sua frustrazione al sistema civile (risoluzione del contratto e risarcimento del danno).

…Condizioni alle quali l’inadempimento acquisisce rilievo penale

L’inadempimento, invece, tracima nell’illiceità penale qualora si arricchisca di componenti negative che offendano interessi ulteriori e superindividuali e che, quindi, giustificano l’intervento repressivo dell’ordinamento penale. In tal caso, il disvalore aggiunto è rappresentato dal comportamento truffaldino serbato dal soggetto attivo del reato, il quale, assumendo un comportamento idoneo ad impedire la corretta formazione dell’altrui volontà, non solo lede l’interesse privatistico patrimoniale del creditore, ma colpisce soprattutto la libertà contrattuale della controparte, legittimando in tal modo l’intervento del diritto penale.

…Artifici e raggiri

È proprio negli artifizi e raggiri, presi in considerazione dalla fattispecie di cui all’art. 640 cod. pen. – ossia quell’ulteriore comportamento volto a far concludere il contratto che, altrimenti, non si sarebbe mai stipulato – che va rinvenuta la ratio giustificatrice della necessità di irrogare la pena al trasgressore: gli artifizi ed i raggiri, dunque, costituiscono il quid pluris che impongono l’irrogazione della pena.

Illuminante sul punto è la consolidata giurisprudenza di legittimità, su cui ci si soffermerà più specificamente oltre, che ritiene che il semplice pagamento di merce effettuato mediante assegni di conto corrente privi di copertura non è sufficiente a costituire, di regola, raggiro idoneo a trarre in inganno l’altro contraente, ma concorre a realizzare la materialità del delitto di truffa solo quando sia accompagnato da un quid pluris, da un malizioso comportamento dell’agente, cioè da fatti e circostanze idonei a determinare nella persona offesa un ragionevole affidamento sull’apparente onestà delle intenzioni della controparte e sul pagamento degli assegni.

In altri termini, è proprio la realizzazione di questi sotterfugi a far cadere in errore l’altro contraente e a configurare la truffa, traducendo il semplice illecito civile in violazione di ben più elevata offensività (così, ad esempio, nel caso del venditore che mediante artifizi spacci per esistente un bene che in realtà non è mai esistito e successivamente si renda irrintracciabile per sfuggire alle pretese dell’acquirente).

Le modalità dell’azione rendono, dunque, evidente la presenza del dolo iniziale del reato, che va ravvisato nella volontà di non adempiere all’esecuzione del contratto già dal momento dell’offerta in vendita del bene.

Considerazioni analoghe possono essere svolte con riferimento alla fattispecie contigua di cui all’art. 641 cod. pen., che incrimina quelle condotte del debitore che, dissimulando il proprio stato d’insolvenza, contrae un’obbligazione con il proposito di non adempierla e che si collocano nella zona grigia tra l’illecito civile e la truffa, non assumendo i connotati tipici del raggiro o dell’artifizio.

Ancora una volta, la rilevanza penale della fattispecie non orbita attorno all’inadempimento in sé, ma all’elemento soggettivo dell’agente, ovvero alla dolosa preordinazione; la sanzione non scatta per la mancata esecuzione della prestazione, che resta fonte di responsabilità solo sul piano civile, ma per l’atteggiamento psicologico con cui il debitore entra nel rapporto obbligatorio, piegandolo verso l’inadempimento, che non rappresenta un accadimento imprevisto ed eventuale, bensì l’esatta attuazione del suo programma illecito.

…Reati-contratto e reati in contratto

L’analisi svolta consente di affermare che il contratto a determinate condizioni può minacciare interessi protetti dal diritto penale: così, nei reati-contratto, rientranti nella categoria dei reati plurisoggettivi propri, il contratto diviene la sede di incontro delle volontà illecite, realizzando l’offesa stigmatizzata dalla norma incriminatrice (in questi casi l’ordinamento sanziona la stipula del contratto, nel senso che viene specificatamente vietato di perfezionare la vendita, l’acquisto od il commercio di determinati beni: si pensi, ad esempio, alle ipotesi disciplinate dagli artt. 250, 352, 470, 474, 648, 686, 705 e 710 cod. pen., 2624 cod. civ.); nei reati in contratto, rientranti nelle fattispecie impropriamente plurisoggettive, invece, il contratto è lo strumento di  prevaricazione impiegato dal reo per il raggiungimento del fine illecito (in questi casi la condotta avente rilevanza penale è quella tenuta dall’agente durante il processo di formazione della volontà contrattuale o nella fase esecutiva del contratto, di guisa che l’altro contraente è indotto con mezzi illeciti – violenza, frode, approfittamento dello stato di bisogno o di inferiorità psichica – a compiere una disposizione patrimoniale: si pensi, ad esempio, alle ipotesi di cui agli artt. 629, 640, 641, 643, 644 cod. pen.).

Può, dunque, affermarsi che il diritto penale non guarda più al contratto solo come atto, ma anche come fattispecie, potenzialmente produttiva di effetti rilevanti prima e dopo la sua stipulazione.

Tuttavia, il diritto penale moderno, oltre a sanzionare le condotte criminose poste in essere con il mezzo del contratto, tende per altro verso a tutelare l’autonomia negoziale e i valori che essa esprime, che richiedono una tutela più forte di quella civilistica: in tale ottica, trova spiegazione la dilatazione dell’ambito applicativo di fattispecie penali che sanzionano la lesione della libertà contrattuale (si pensi appunto alla truffa e all’insolvenza fraudolenta di cui si è detto, oltre alle figure della circonvenzione d’incapace e all’usura).

Questa tendenza si fonda sull’idea che il principio di buona fede, cardine dei rapporti inter-privatistici, non sia un valore appartenente solo al sistema civile, ma possa assumere rilievo anche nell’ambito penalistico. La conferma si rinviene nella giurisprudenza sul silenzio nelle ipotesi di truffa contrattuale.

Ciò che deve rimanere chiaro è che la sanzione penale non può essere conseguenza della lesione dell’interesse singolo del creditore, dovendo invece costituire la risposta ad una minaccia per i valori sociali condensati nel rapporto obbligatorio, come espressione di una tutela penale della circolazione della ricchezza, attuata mediante l’utilizzo del contratto: proprio in virtù di tale funzione, dunque, il contratto deve essere penalmente tutelato, sanzionando tutte quelle condotte che possono turbarne la formazione e l’esecuzione.

Il mero silenzio non può essere considerato una condotta fraudolenta

All’esito dell’indagine fin qui svolta, si può giungere ad una prima conclusione: il solo silenzio non può essere considerato alla stregua di una condotta fraudolenta, in quanto l’agente non è tenuto ad alcun obbligo di garanzia nei confronti dell’altro contraente, né la mera violazione del principio di buona fede è di per sé idonea ad essere sussunta nelle pur ampie nozioni di artifizi o raggiri costituenti il nucleo portante del reato di truffa.

Il problema, quindi, si riduce nello stabilire se e in che termini il silenzio – al netto dei due elementi appena illustrati – possa qualificarsi come artificio o raggiro.

…Nozione di artificio

L’artificio può essere definito come quell’espediente a mezzo del quale l’agente alterando la realtà esterna, crea nella vittima una falsa rappresentazione della medesima traendolo in inganno: quindi, il classico comportamento attivo (la cd. mise en scène), nel quale, sicuramente, per quanto finora illustrato, non può essere sussunto il silenzio.

…Nozione di raggiro

Il raggiro è l’ulteriore ipotesi che l’art. 640 cod. pen. prevede come condotta decettiva alternativa agli artifizi (“artifizi o raggiri”).

La nozione di raggiro sul piano semantico non coincide con quello di artifizio in quanto esso indica – secondo il più autorevole dizionario della lingua italiana – quel «comportamento, per lo più di natura verbale, tenuto nei confronti di un determinato soggetto e ispirato ad astuzia o ingegnosità e allo sfruttamento dell’altrui ingenuità o buona fede, che determina nel destinatario un’erronea rappresentazione della realtà, lo scopo di tale comportamento essendo normalmente quello di indurre il destinatario a fare, con proprio danno e con indebito vantaggio della controparte o di un terzo, qualcosa che egli altrimenti non farebbe nello stesso modo».

Se così è, il raggiro – a differenzia dall’artifizio che comprende sempre una condotta attiva (la cd. mise en scene) – può indicare un comportamento non necessariamente verbale («per lo più di natura verbale», si è detto), quindi, anche silenzioso, sebbene ispirato ad astuzia tale da sorprendere la buona fede altrui ed indurre, con il concorso di altre condotte attive, l’altro contraente a fare qualcosa che egli altrimenti non farebbe nello stesso modo.

Silenzio come raggiro

È in tale ristretto ambito, quindi, che occorre indagare se e quando il silenzio possa essere considerato un raggiro.

In proposito, in dottrina è stato condivisibilmente sostenuto che, prescindendo dalla applicazione della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma secondo, cod. pen., può riconoscersi rilievo al silenzio sulla base della teoria del “comportamento concludente”: il silenzio – a determinate condizioni – andrebbe distinto dall’omissione pura e ricondotto ai comportamenti concludenti.

In altri termini, in talune ipotesi, è possibile distinguere il mero silenzio che, come detto, è di per sé solo inidoneo a costituire un artificio o raggiro penalmente rilevante, dal silenzio che invece assuma una veste diversa, di carattere concludente, per il contesto concreto nel quale venga ad operare.

Ciò che si vuol dire è che possono darsi casi nei quali, in concreto, il silenzio non assume rilievo autonomo in sé, ma acquisisce una veste diversa, con una propria carica di disvalore, nel rapporto interferenziale con altri fattori, che ne alterino il significato puramente omissivo. In tali ipotesi il silenzio è da considerarsi come meramente apparente, in quanto il tacere su determinate circostanze non costituisce una semplice inerzia ma acquisisce un significato differente, assai più pregnante. In rapporto al contesto e alle concrete circostanze del caso, il silenzio può quindi trasformarsi in un comportamento concludente, che – quale forma di comunicazione implicita – corrisponde ad una comunicazione diretta, acquisendo un proprio rilievo penalistico come costituente un comportamento positivo, quindi di valore commissivo.

Detto altrimenti, il silenzio può in concreto diventare una forma di raggiro là dove sia corredato da altri elementi che lo trasformino in un fatto concludente, tale cioè da circonvenire la vittima, con il risultato di acquisire un significato più pregnante anche dal punto di vista del disvalore di condotta.

Dal punto di vista formale, quindi, tale silenzio qualificato può acquisire la veste di un raggiro penalmente rilevante nel rispetto del vincolo di tipicità posto dalla norma penale, cui si correda, dal punto di vista sostanziale, un autonomo contenuto di disvalore di condotta che contribuisce al perfezionarsi del disvalore complessivo della fattispecie del reato di truffa.

Pertanto, una attenta valutazione del silenzio impone di distinguere tra il semplice silenzio inerzia, di per sé incolore in quanto puramente negativo e il silenzio eloquente, di carattere comunicativo o comunque espressivo, che è invece munito di specifica significatività, quale contegno positivo con significato e valore di dichiarazione, per l’emersione di circostanze ed elementi di varia natura che arricchiscono la situazione nella quale s’innesta il contegno dell’agente e, quindi, anche il suo significato penalistico quale condotta da considerarsi commissiva.

Ciò che va valutato, caso per caso, è il rilievo del silenzio nel contesto specifico: se rileva solo di per sé, quale semplice inazione, non può costituire raggiro tipico, richiesto dall’art. 640 cod. pen. e, quindi, non può ritenersi sufficiente ai fini dell’integrazione della condotta truffaldina; se, invece, il silenzio è soltanto apparente, nel senso che, in rapporto alle concrete circostanze del caso, cela un determinato atteggiamento fraudolentemente preordinato ad ingannare l’altro contraente, lo stesso non costituisce una mera inazione, una stasi, ma acquisisce un più pregnante significato comunicativo quale silenzio qualificato, proprio in quanto corredato da un quid pluris e, dunque, rileva come comportamento concludente, idoneo ad ingannare la persona offesa.

Per queste ragioni, va quindi considerato come un contegno psichico attivo, in quanto tale tipico e per questo penalmente rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie di truffa.

Occorre, in conclusione, chiedersi quale valore abbia avuto il silenzio nello specifico contesto di riferimento per verificare se sia in concreto accompagnato da circostanze che lo trasformino in fatto concludente, tale da costituire un comportamento attivo raggirante, cioè un raggiro tipico vero e proprio.

Detto altrimenti, deve considerarsi come il silenzio sia in concreto calato nello specifico ambito comunicativo-relazionale, proprio perché determinati silenzi espressivi possono costituire non una semplice inazione, ma un vero e proprio comportamento concludente, munito di idoneità ingannatoria nell’influire sulla psiche della controparte e, quindi, idoneo ad indurla in errore determinandola al compimento del dannoso atto di disposizione patrimoniale.

La trasformazione del silenzio in comportamento concludente può aver luogo là dove il medesimo contegno silenzioso risulti in concreto corredato da altre circostanze, ulteriori elementi o fattori di contesto, che ne trasformino il significato penalistico in un contegno psichico positivo, dal valore commissivo, rendendone univoca l’oggettiva direzione lesiva atta ad ingannare la controparte per indurla al compimento dell’atto patrimoniale dannoso.

Una siffatta impostazione, peraltro, è in linea con la giurisprudenza consolidata in tema di pagamento della merce con assegno scoperto, cui si è sopra accennato ed a quella che fissa i criteri distintivi tra i reati di truffa aggravata e di indebita percezione di erogazioni pubbliche.

Sotto il primo profilo è consolidato l’orientamento giurisprudenziale (da ultimo, Sezione 2, n. 26190 del 26/5/2023, Rv. 284659 – 01; Sezione 2, n. 23229 del 12/4/2022, Rv. 283410 – 01) che ritiene che l’utilizzo nell’ambito di una transazione commerciale di un assegno privo di copertura non costituisca raggiro idoneo a trarre in inganno la controparte, richiedendosi che alla dazione si accompagni un quid pluris costituito dalle rassicurazioni fornite dall’agente sulla esistenza della relativa provvista o, comunque, circa la propria solvibilità ovvero da una maliziosa condotta finalizzata a vincere la resistenza del prenditore o – ancora – da qualsivoglia comportamento dell’agente idoneo a far sorgere un ragionevole affidamento sul pagamento dell’assegno.

Ebbene, se si accede alla tesi per cui il mero silenzio costituisce raggiro, non si comprende perché in questo caso non sia richiesto quel quid pluris, tale da conferire una maggiore offensività alla condotta, necessario invece nella ipotesi del pagamento con assegno scoperto – che, peraltro, è costituita da una condotta attiva – in mancanza del quale si ritiene che sussista solo un inadempimento contrattuale.

Sotto il secondo profilo, occorre evidenziare che, quando si distingue tra la truffa aggravata (ex art. 640, comma secondo, n. 1, cod. pen. e art. 640-bis cod. pen.) ed il reato di cui all’art. 316-ter cod. pen., si afferma che non è sufficiente il mero «silenzio omissivo antidoveroso» ad integrare gli artifici o raggiri tipici della truffa, essendo invece necessario un «comportamento fraudolento in aggiunta al mero silenzio» e che là dove la condotta dell’agente sia puramente omissiva, consista cioè in un mero «silenzio antidoveroso», può configurarsi la fattispecie meno grave di cui all’art. 316-ter cod. pen., la quale prevede, tra le condotte tipiche alternative, anche «l’omissione di informazioni

dovute» (Sezioni Unite, n. 7537 del 16/12/2010, Pizzuto, in motivazione; Sezioni Unite, n. 16568 del 19/4/2007, Carchivi, in motivazione; ex plurimis, in tema di truffa sul cd bonus cultura: Sezione 2, n. 38716 del 22/6/2023; Sezione 2, n. 38717 del 22/6/2023; Sezione 2, n. 30268 del 8/6/2023; Sezione 2 n. 29563 del 8/6/2023; Sezione 2, n. 30865 del 6/6/2023; in tema di truffa all’Inps attuata con comportamenti omissivi: Sezione 2, n. 16817 del 26/2/2019, Rv. 275815 – 01; Sezione 2, n. 47064 del 21/9/2017, Rv. 271242 – 01; Sezione 2, n. 21000 del 8/2/2011, Rv. 250262 – 01).

Diversamente ragionando, non troverebbe alcuna razionale spiegazione differenziare le ipotesi aggravate rispetto alla truffa base. In altri termini, davanti ad una identità del nucleo comune del fatto tipico tra la fattispecie base della truffa e le due fattispecie aggravate di truffa, come si può affermare che, per l’integrazione degli artifici o raggiri nella fattispecie base di truffa, sia pur nella declinazione della truffa contrattuale, sia sufficiente un semplice silenzio omissivo antidoveroso da parte di chi sia titolare di un generico obbligo di comunicazione di determinate circostanze, mentre il medesimo silenzio omissivo antidoveroso non sia, di per sé, sufficiente ai fini dell’integrazione dell’eguale elemento tipico di fattispecie, consistente nella condotta artificiosa o raggirante, nelle ipotesi aggravate di truffa, per le quali si richiede invece, più correttamente, un ulteriore “comportamento fraudolento” oltre al mero silenzio.

Principi di diritto

All’esito delle considerazioni svolte, dunque, possono affermarsi i seguenti principi di diritto:

– «In tema di truffa, la nozione di raggiro non coincide con quella di artifizio (che comprende sempre una condotta attiva), in quanto essa indica quel comportamento, non necessariamente di natura verbale, tenuto nei confronti di un determinato soggetto ed ispirato ad astuzia o ingegnosità e allo sfruttamento dell’altrui ingenuità o buona fede, che determina nel destinatario un’erronea rappresentazione della realtà, essendo normalmente lo scopo di tale comportamento quello di indurre il destinatario a fare – con proprio danno e con indebito vantaggio della controparte o di un terzo – qualcosa che egli altrimenti non farebbe nello stesso modo».

– «Il silenzio può essere sussunto nella nozione di raggiro non quando si risolve in un semplice silenzio inerzia, ma quando si configura come silenzio eloquente e cioè quando, in rapporto alle concrete circostanze del caso, cela un determinato comportamento concludente idoneo ad ingannare la persona offesa (fattispecie in cui un medico ospedaliero in regime intra moenia è stato riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 640/2 cod. pen. per non aver comunicato all’ente pubblico di svolgere attività professionale presso il suo studio privato, in tal modo inducendo l’ente stesso a corrispondergli Io stipendio maggiorato dell’indennità di esclusiva, sul presupposto che il rapporto si svolgesse regolarmente, nel rispetto delle norme contrattuali)».

Valutazione del caso in esame

Tanto premesso in punto di diritto, non resta ora che verificare, alla stregua di quanto illustrato se la condotta tenuta dal ricorrente possa essere considerata truffaldina e cioè in grado di trarre in inganno, durante l’esecuzione del contratto, l’ASL.

Sul punto, si osserva come nel caso di specie la condotta del ricorrente debba essere considerata complessivamente, tenendo conto anche dei comportamenti attivi posti in essere per creare un’apparenza non corrispondente al vero, che precedono la mancata comunicazione all’ente.

Se così è, la questione relativa alla applicabilità alla truffa della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma secondo, cod. pen. resta relegata sullo sfondo, priva di pratica incidenza nella fattispecie concreta che si sta scrutinando.

In particolare, deve evidenziarsi che il silenzio serbato dall’imputato non rileva come una vera e propria condotta inerte, ma piuttosto assume una valenza ulteriore in ragione del contesto, nel quale rappresenta solo una parte della condotta rilevante penalmente. In altri termini, ciò che viene in rilievo è il comportamento complessivo dell’agente che, interamente considerato, può essere inteso in forma commissiva, seppur consti di atteggiamenti impliciti, favorendo una particolare interpretazione concludente ad opera della controparte del contratto.

Del resto, già in altre occasioni la Cassazione – in fattispecie similari – ha avuto modo di affermare che la «malizia artificiosa sotto forma di nascondimento di uno stato di fatto», determinato evidentemente dalle condotte attive del medico preesistenti alla omessa comunicazione, costituisce raggiro: il mero silenzio «non può qualificarsi come meramente passivo in quanto l’omessa rivelazione di circostanze che il ricorrente aveva l’obbligo di riferire configura uno stato di fatto apparente, conseguenza diretta del preordinato inganno dell’agente nella prospettiva dell’induzione in errore della controparte» (Sezione 2, n. 4973 del 22/12/2022); analogamente, Sezione 2, n. 42496 del 9/7/2021, ha evidenziato, accanto al silenzio serbato dal sanitario, ulteriori condotte attive (la prenotazione diretta e non tramite C.U.P., il compenso per l’attività privata direttamente versato dalla paziente al medico), in tal modo compiendo una valutazione globale del comportamento dell’imputato, costituita sia da condotte attive che omissive.

Si è, cioè, ritenuto che la significatività del silenzio può, ad esempio, derivare dalla sua reiterazione nel tempo o dal costituire una inattività che, anche in risposta ad una pretesa-attesa della controparte (come nel caso che si sta scrutinando), si presenti come circostanziata, fraudolenta, comunque non meramente passiva nella concreta situazione in cui venga ad operare: il medico che opera in regime di intra moenia è tenuto a comunicare se ha effettuato prestazioni di natura privata, tenuto conto che influiscono sul rapporto di esclusività e, dunque, sul diritto a percepire l’indennità di esclusiva.

Invero, l’azienda sanitaria corrisponde detta indennità sul presupposto che il rapporto si svolga regolarmente, nel rispetto delle norme contrattuali, con la conseguenza che il silenzio maliziosamente serbato sull’attività privata svolta crea una apparenza fraudolenta, inducendo in errore l’ente.

Il silenzio del sanitario, calato in un determinato contesto comunicativo connotato da specifiche circostanze, realizza, quindi, un silenzio qualificato, il cui valore comunicativo è assimilabile al parlare, trattandosi di un silenzio che, risultando idoneo a cagionare un affidamento definitivo nella azienda sanitaria del comportamento concludente, acquisisce un carattere positivo, se considerato congiuntamente agli altri fattori (le condotte attive che lo hanno preceduto) che siano intervenuti nel processo causale di condizionamento della volontà dell’ente.

Le condotte attive relative alle prenotazioni dirette delle visite ed al versamento nelle mani del sanitario della parcella, se rilevano ai fini della prova dell’elemento soggettivo, possono essere prese in considerazione anche ai fini dell’elemento oggettivo del reato, rappresentando quel quid pluris che si aggiunge al silenzio malizioso.

In conclusione, l’omessa comunicazione non è solo silenzio, ma menzogna, non è contegno meramente passivo, ma contegno artificioso, che si appoggia a uno stato di fatto apparente, dissimulato dalle condotte attive (costituite nel caso di specie, dalla prenotazione diretta e dal pagamento della parcella direttamente nelle mani del ricorrente) e tendente a persuadere che è vero ciò che vero non è.

In tal modo, il profilo dell’obbligo di comunicazione, in adempimento del generale dovere di buona fede contrattuale, che, come si è visto, agita il dibattito tra giurisprudenza e dottrina, perde di rilevanza, potendosene addirittura prescindere.

Alle considerazioni ora svolte, deve aggiungersi l’apprezzabile grado di pericolosità del silenzio serbato dall’imputato, che possiede l’attitudine – accertata con un criterio ex ante – a sorprendere la buona fede dell’ente, che, pur usando l’accortezza dovuta, non ha potuto difendersene da solo.

Da questo punto di vista, rapportando il giudizio sulla insidiosità del raggiro anche alla possibilità di reazione del soggetto passivo, si tratta di verificare se l’affidamento dell’ente nella credibilità dell’agente sia giustificato e, perciò, l’errore in cui esso è caduto sia da considerare inevitabile. Ebbene, la fiducia riposta dall’ente sulla correttezza dell’operato nel caso di specie appare ragionevolmente fondata, non emergendo agli atti elementi che potessero far sorgere motivi di diffidenza.

Del resto, deve osservarsi, da un lato, che il ricorso a controlli era oggettivamente impossibile, in ragione delle condotte prodromiche poste in essere dall’imputato, che bypassava il sistema di prenotazioni tramite il C.U.P. e riceveva direttamente dalle pazienti la parcella per la prestazione svolta; dall’altro, che l’obbligo di comunicare “variazioni” rilevanti ai fini del sinallagma contrattuale deriva dall’art. 1375 c.c. (comportamento in buona fede durante l’esecuzione del contratto), essendo ovvio che se una parte si è obbligata a tenere un certo comportamento (ad esempio, il medico ospedaliero che si vincola al regime intra moenia), ove non voglia o non sia più in grado di rispettare quegli obblighi, egli è obbligato a comunicarli alla controparte, perché possa valutare se e in che termini le condizioni del contatto possano rimanere identiche.

In altri termini, il silenzio diviene una reticenza dal valore concludente, poiché la mancata comunicazione da parte di colui che ha il dovere di informare viene interpretata dalla collettività come inesistenza di circostanze che dovrebbero esser rese note ove presenti.