Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone: differenze dall’estorsione e concorso del terzo (di Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 46097/2023, udienza del 25 ottobre 2023, ricorda che, secondo il recente orientamento delle Sezioni unite, il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027 – 02).

In particolare in motivazione si precisa che: “Deve, quindi, concludersi che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alla persona e di estorsione, pur caratterizzati da una materialità non esattamente sovrapponibile, si distinguono essenzialmente in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta ed arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia”.

La suddetta pronuncia precisa quindi che per aversi esercizio arbitrario è necessario che l’agente abbia posto in essere la condotta per la realizzazione di una pretesa giuridica esattamente tutelabile senza travalicarne il contenuto; le Sezioni unite hanno quindi sottolineato come per aversi esercizio arbitrario è necessario che l’agente ponga in essere una condotta a tutela di un diritto azionabile in sede giudiziaria altrimenti vertendosi nella più grave fattispecie di cui all’art. 629 cod. pen. Principio questo affermato da quell’inciso secondo cui: “Pur non richiedendosi che si tratti di pretesa fondata, ovvero che il diritto oggetto dell’illegittima tutela privata sia realmente esistente, deve, peraltro, trattarsi di una pretesa non del tutto arbitraria, ovvero del tutto sfornita di una possibile base legale (Sez. 5, n. 23923 del 16/05/2014, Rv. 260584; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Rv. 268362), poiché il soggetto attivo deve agire nella ragionevole opinione della legittimità della sua pretesa, ovvero ad autotutela di un suo diritto in ipotesi suscettibile di costituire oggetto di una contestazione giudiziale avente, in astratto, apprezzabili possibilità di successo (Sez. 2, n. 24478 del 08/05/2017, Rv. 269967)“.

Va poi aggiunto che, quanto al concorso dei terzi nei fatti, la stessa pronuncia precisa che il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone è configurabile nei soli casi in cui questi si limiti ad offrire un contributo alla pretesa del creditore, senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027 – 03).

Chiamata a chiarire in motivazione il suddetto concetto si è affermato come: “La giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente affermato che, per configurare il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni in luogo di quello di estorsione, nel caso in cui la condotta tipica sia posta in essere da un terzo a tutela di un diritto altrui, occorre che il terzo abbia commesso il fatto al solo fine di esercitare il preteso diritto per conto del suo effettivo titolare, dal quale abbia ricevuto incarico di attivarsi, e non perché spinto anche da un fine di profitto proprio, ravvisabile ad esempio nella promessa o nel conseguimento di un compenso per sé, anche se di natura non patrimoniale (Sez. 2, n. 11282 del 2/10/1985, Rv. 171209); qualora il terzo agente – seppure inizialmente inserito in un rapporto inquadrabile ex art. 110 cod. pen. nella previsione dell’art. 393 stesso codice – inizi ad agire in piena autonomia per il perseguimento dei propri interessi, deve ritenersi che tale condotta integri gli estremi del concorso nel reato di estorsione ex artt. 110 e 629 cod. pen. (Sez. 2, n. 8836 del 05/02/1991, Rv. 188123; Sez. 2, n. 4681 del 21/03/1997, Rv. 207595; Sez. 5, n. 29015 del 12/07/2002, Rv. 222292; Sez. 5, n. 22003 del 07/03/2013, Rv. 255651). Questo orientamento va condiviso e ribadito. Due sono i punti di partenza di questa ulteriore disamina, necessariamente costituiti dai principi in precedenza affermati: – il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo; – il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con minaccia o violenza alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all’elemento psicologico. Di conseguenza, se, ai fini della distinzione tra i reati de quibus, alla partecipazione al reato di terzi concorrenti non creditori (abbiano, o meno, posto in essere la condotta tipica) non è possibile attribuire rilievo decisivo, risulta, al contrario, determinante il fatto che i terzi eventualmente concorrenti ad adiuvandum del preteso creditore abbiano, o meno, perseguito (anche o soltanto) un interesse proprio. Ove ciò sia accaduto, i terzi (ed il creditore) risponderanno di concorso in estorsione; in caso contrario, ove cioè i concorrenti nel reato abbiano perseguito proprio e soltanto l’interesse del creditore, nei limiti in cui esso sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile, tutti risponderanno di concorso in esercizio arbitrario delle proprie ragioni”. Èpertanto l’interesse proprio del terzo che vale quale elemento distintivo decisivo ai fini della qualificazione ex art. 393 o 629 cod. pen.

Così ricostruito il parametro della qualificazione della condotta del terzo che concorre nella condotta del creditore o del titolare di un diritto che si rivolga al soggetto obbligato, va precisato cosa debba essere inteso per interesse proprio del terzo idoneo a determinare la qualificazione giuridica del fatto ai sensi dell’art. 629 cod. pen. piuttosto che dell’art. 393 cod. pen., rimanendo tale nozione non esplicitata dalla pronuncia delle Sezioni unite cui si intende certamente sempre aderire ed apparendo il tema rilevante per la definizione del caso di specie.

Per la soluzione di tale questione occorre precisare che nella ricostruzione della citata pronuncia del massimo consesso di legittimità l’interesse proprio del terzo èquell’elemento che vale proprio a modificare la qualificazione giuridica da esercizio arbitrario ad estorsione e che pertanto, essendo tale, va individuato alla luce degli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 629 cod. pen.; posto infatti che detto elemento diviene essenziale per il mutamento in un titolo più grave di reato per identificarne il contenuto non può che farsi riferimento agli elementi differenziali, costitutivi il delitto più grave e cioè l’estorsione rispetto alla ipotesi di cui all’art. 393 cod. pen.

Si deve, pertanto, affermare che, necessariamente, avuto proprio riguardo agli elementi costitutivi delle diverse fattispecie di cui agli artt. 393 e 629 cod. pen., l’interesse proprio del terzo consiste sempre in un ingiusto profitto con altrui danno con la precisazione che tale danno deve essere procurato mediante l’azione alla persona offesa o ad altri soggetti alla stessa legati.

Quindi l’interesse proprio, idoneo a determinare la qualificazione giuridica più grave deve essere collegato alla realizzazione del reato in danno della vittima e deve costituire un ingiusto profitto che il terzo può avere chiesto alla stessa p.o. od anche a soggetti alla stessa legati. È chiaro cioè che, ogni qual volta che il terzo sia stato incaricato dal creditore di recuperare un credito di un determinato importo, abbia poi agito richiedendo alla p.o. un importo superiore a quanto dovuto, trattandosi di importo estraneo al diritto originariamente agito, avendo arrecato un ingiusto profitto con altrui danno, sarà chiamato a rispondere sempre di estorsione in concorso con l’esercizio arbitrario, proprio perché ha realizzato oltre il diritto originario anche un interesse proprio.

Tuttavia, nel caso in cui il terzo abbia richiesto alla persona offesa, esattamente lo stesso oggetto del diritto agito, l’eventuale motivo che possa averlo mosso ad agire, mai oggetto di diretta richiesta alla vittima, la quale – si ripete – viene costretta a versare l’importo esattamente dovuto, può non determinare la differente e più grave qualificazione giuridica.

Invero, può avvenire che il creditore abbia promesso una ricompensa al terzo o altro profitto, ovvero che il terzo abbia agito nella prospettiva della realizzazione di un proprio futuro guadagno indiretto, che, in quanto estraneo all’azione delittuosa commessa nei confronti della vittima, non vale a determinare la più grave qualificazione e ciò perché il dolo del terzo, rimane sempre quello di agire esattamente e precisamente per la realizzazione del solo diritto sotteso all’azione e non anche per arrecare danni altrui, con corrispondente ingiusto profitto; così che l’eventuale guadagno sotteso può costituire il prezzo del reato di cui all’art. 393 cod. pen. o il movente del reato, ma non costituisce un interesse proprio diretto, tale da determinare la più grave qualificazione giuridica non arrecando alcun danno altrui.

In altri termini, ove il terzo abbia avuto quale motivo dell’azione un interesse proprio mai oggetto di richiesta nei confronti della vittima, dipendente da circostanze del tutto estranee all’azione criminosa, continua a rispondere di esercizio arbitrario pure se possa avere immaginato di ricavare un qualche guadagno dall’azione criminosa.

Con plurime pronunce la Cassazione ha ripetutamente escluso la rilevanza del movente ai fini della sussistenza del reato; si è in particolare affermato come il movente è la causa psichica della condotta umana e costituisce lo stimolo che ha indotto l’individuo ad agire; esso va distinto dal dolo, che è l’elemento costitutivo del reato e riguarda la sfera della rappresentazione e volizione dell’evento (Sez. 1, n. 466 del 11/11/1993 (dep. 19/01/1994) Rv. 196106 – 01).

Il tema è stato anche affrontato con particolare riguardo al delitto di cui all’art. 610 cod. pen. che si differenzia dall’estorsione soltanto per l’elemento del danno patrimoniale e dell’ingiusto profitto; si è difatti affermato come ai fini della configurabilità del delitto di violenza privata, è sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine particolare, che costituisce l’antecedente psichico della condotta, cioè il movente del comportamento tipico descritto dalla norma penale (Sez. 5, n. 2220 del 24/10/2022 (dep. 19/01/2023) Rv. 284115 – 01).

E la irrilevanza del movente ai fini della sussistenza del reato è stata anche affermata in tema di reati contro il patrimonio essendosi stabilito che in tema di danneggiamento, il reato (art. 635 cod. pen.) sussiste – con riferimento all’elemento materiale – qualora sia stata cagionata la distruzione di un bene ovvero un deterioramento di una certa consistenza, dovendosi escludere solo nel caso di mancanza di danno strutturale o funzionale della cosa. In ordine all’esistenza del dolo non occorre il fine specifico di nuocere, essendo sufficiente la coscienza e la volontà di distruggere, deteriorare o rendere inservibile (in tutto o in parte) la cosa altrui, senza alcuna rilevanza di movente o finalità (Sez. 5, sentenza n. 5134 del 05/04/2000 Rv. 216063 – 01).

Il tema dell’oggetto del dolo nel delitto di estorsione viene affrontato analogamente anche in dottrina; secondo autorevole parere:” è controversa in dottrina la qualificazione giuridica del dolo necessario per l’integrazione del reato. L’opinione tradizionale considera l’estorsione delitto a dolo specifico sul presupposto che la fattispecie incriminatrice richiede la coscienza e la volontà di coartare un terzo a fare od omettere qualcosa (dolo generico) e lo scopo di conseguire un profitto ingiusto con danno altrui (dolo specifico). A ben vedere, si tratta di tesi infondata, perché il conseguimento dell’ingiusto profitto con altrui danno non sta fuori dal fatto di un reato, ma ne costituisce – come si è visto – addirittura l’evento, che deve essere voluto dall’agente“.

Ora indipendentemente dalla qualificazione del delitto, se a titolo di dolo generico o specifico, rimane però chiaro che la volizione dell’agente deve avere ad oggetto la coartazione del soggetto passivo per conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, senza che alcun rilievo assuma invece il motivo dell’azione criminosa e cioè la spinta a delinquere che ha mosso il reo a porre in essere la condotta delittuosa.

Tali essendo i principi in tema di movente, deve certamente essere escluso che l’interesse proprio del terzo concorrente nel fatto di cui all’art. 393 cod. pen. che vale a trasformare l’azione nella più grave condotta di estorsione possa essere individuato nel solo movente della condotta; viceversa deve affermarsi che l’interesse del terzo deve corrispondere ad un ingiusto profitto con altrui danno e cioè agli elementi costitutivi del delitto di estorsione altrimenti mancanti nella fattispecie di esercizio arbitrario.