Desistenza incompatibile con il tentativo compiuto (di Riccardo Radi)

La cassazione sezione 1 con la sentenza numero 41335/2023 ha ribadito che nei reati a forma libera, non è configurabile la desistenza quando gli atti posti in essere integrano già gli estremi del tentativo, potendo trovare spazio solo nella fase del tentativo incompiuto, ossia fino a quando non siano stati posti in essere gli atti da cui origina il processo causale idoneo a produrre l’evento, rispetto ai quali può invece operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo.

L’art. 53, comma 3, cod. pen. testualmente recita: “Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé reato diverso”.

La Suprema Corte evidenzia che la norma è collocata – ed è questo il dato giuridico da tenere presente per interpretarla correttamente – nell’ambito della disciplina del tentativo, istituto che pone la questione giuridica fondamentale, posta dal principio di legalità, di delimitare con certezza l’ambito della condotta tipizzata alla quale riconoscere rilevanza penale.

Ebbene, ai sensi dell’art. 56 c.p., co. 2, tale ambito di rilevanza, allorché l’agente desista dall’azione delittuosa, deve essere riconosciuto soltanto se gli atti comunque consumati fino alla desistenza non integrino un tentativo compiuto.

Nel caso in esame, al contrario, al momento dell’allontanamento dalla scena del delitto, l’imputato aveva ormai posto in essere una condotta la quale, per sé considerata, conteneva ogni elemento di fatto idoneo a configurare il tentato omicidio della p.o. e, precisamente, il colpo violento, portato verso zone vitali del corpo dell’avversario, inferto con forza e impugnando l’arma con due mani, utilizzando uno strumento certamente idoneo, per le premesse date, a cagionare la morte.

La difesa, a conforto della propria diversa tesi che sostiene la compatibilità della desistenza con il tentativo compiuto, menziona un precedente arresto della cassazione secondo cui la desistenza volontaria, prevista dal comma 3 dell’art. 56 c.p., è configurata dal legislatore come un’esimente che esclude ab estrinseco ed ex post l’antigiuridicità del fatto, sicché la sua applicazione presuppone che l’azione sia penalmente rilevante perché pervenuta nella fase del tentativo punibile. (Sez. 6 n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242417).

Si tratta tuttavia, di affermazione di diritto datata e non condivisibile, superata dalla più recente e dominante lezione ermeneutica della Suprema Corte, secondo la quale, nei reati a forma libera (quale è l’omicidio volontario) in tanto può sussistere la desistenza, in quanto l’agente abbandoni l’azione criminosa prima che questa sia completamente realizzata (Sez. 1 n. 43036 del 23/10/2012, Rv. 253616) e che, pertanto, nei reati a forma libera, non è configurabile la desistenza quando gli atti posti in essere integrano già gli estremi del tentativo, potendo trovare spazio solo nella fase del tentativo incompiuto, ossia fino a quando non siano stati posti in essere gli atti da cui origina il processo causale idoneo a produrre l’evento, rispetto ai quali può invece operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo (Sez. 5, n. 17241 del 20/01/2020, Rv. 279170; Sez. 2, n. 16054 del 20/03/2018, Rv. 272677; Sez. 5, n. 50079 del 15/05/2017, Rv. 271435; Sez. 1, n. 11746 del 28/02/2012, Rv. 252259).