La cassazione sezione 2 con la sentenza numero 31574/2023 ha stabilito che ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni, non è sufficiente la sussistenza di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, occorrendo la prova, sia pure con modalità sommaria, dell'”an debeatur”, atteso che è rinviata al separato giudizio civile la sola determinazione quantitativa del danno.
Fattispecie relativa alla costituzione di parte civile di associazioni rappresentative di interessi collettivi, in cui la Suprema Corte ha precisato che la prova della sussistenza del danno, che può sostanzialmente presumersi nel caso in cui la parte civile sia la persona offesa dal reato, deve essere, invece, specificamente fornita allorquando il rapporto tra azione e danno è indiretto, com’è, di regola, nel caso in cui la pretesa civilistica sia avanzata dal danneggiato.
La cassazione ha inteso dare continuità alla giurisprudenza secondo cui ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni, non è sufficiente la sussistenza di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, occorrendo la prova, sia pure con modalità sommaria, dell’an debeatur, essendo rinviata al separato giudizio civile soltanto la determinazione quantitativa del danno (Sez. 6, n. 16765 del 18/11/2019, dep. 2020, Rv. 279418 – 14).
Si tratta di un orientamento che si pone in consapevole contrasto con quello secondo cui ai fini della pronuncia di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della parte civile non è necessario che il danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l’azione dell’autore dell’illecito, essendo sufficiente l’accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose: la suddetta pronuncia infatti costituisce una mera declaratoria juris da cui esula ogni accertamento relativo sia alla “misura”, sia alla stessa “esistenza” del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione (tra le altre: Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Rv. 270386 – 01; Sez. 6, n. 9266 del 26/04/1994, Rv. 199071).
L’adesione al primo degli orientamenti indicati si fonda sulla rilevazione della differenza tra i presupposti della “legittimazione alla costituzione di parte civile” rispetto ai presupposti per la “liquidazione del danno” che la parte civile allega di avere patito.
Deve essere chiarito, infatti, che “altro” è la legittimazione alla costituzione di parte civile della persona offesa o del danneggiato.
Ed “altro” è la prova del danno patito, che la parte legittimata a far valere il suo interesse nel processo penale deve dimostrare avvalendosi degli ordinari strumenti di prova.
Il concreto danno generato dalla condotta illecita non è infatti presunto, né può intendersi dimostrato con il semplice riconoscimento della ipotetica, astratta, lesione prospettata all’atto della costituzione, ma deve essere provato secondo le consuete regole civilistiche regolanti la materia e dettate, più in particolare, dagli artt. 2043 e 1223 cod. civ., così come richiamate dall’art. 185 cod. pen.
La “sussistenza” del danno che è prossima all’immanenza quando la parte civile è la persona offesa, ovvero la persona fisica direttamente lesa dall’azione criminosa tipica, deve essere invece specificamente provata quando il rapporto tra azione e danno è indiretto, come avviene, di regola, nei casi in cui la pretesa civilistica sia avanzata dal danneggiato, che può essere anche una associazione rappresentativa di interessi collettivi.
Ciò fermo restando che l’ammontare del risarcimento e, dunque, la gravità della lesione deve essere sempre oggetto di specifica prova. In materia la seconda sezione penale ha già affermato che «è ammissibile la costituzione di parte civile di un’associazione, anche non riconosciuta, che avanzi, iure proprio, la pretesa risarcitoria, assumendo di aver subito per effetto del reato un danno, patrimoniale o non patrimoniale, consistente nell’offesa all’interesse perseguito dal sodalizio e posto nello Statuto quale ragione istituzionale della propria esistenza ed azione», con la conseguenza che ogni attentato a tale interesse si configura, in astratto, come lesione di un diritto soggettivo inerente la personalità o identità dell’ente (Sez.2, n. 1215 , 10 dicembre 2018, dep. 2019, non mass., che richiama Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261110).
Infatti la legittimazione all’azione civile nel processo penale, al pari della legittimazione ad agire nel processo civile, va verificata «in relazione al rapporto sostanziale dedotto in giudizio», dunque indipendentemente dall’effettiva titolarità del vantato diritto al risarcimento dei danni; questione, quest’ultima, attinente al giudizio di merito sulla fondatezza della domanda risarcitoria o restitutoria avanzata ai sensi dell’art. 185 cod. pen.
Invero la giurisprudenza di legittimità civile, in materia, è ferma nel ritenere che la “legittimazione ad agire” è concetto diverso dalla titolarità del diritto al risarcimento, oggetto del processo: la prima si valuta sulla base della “prospettazione della parte” e mancherà tutte le volte in cui dalla stessa prospettazione della domanda emerga che il diritto vantato non appartiene all’attore; la titolarità del diritto sostanziale attiene invece al “merito della causa”, ovvero alla fondatezza della domanda, sicché i due regimi giuridici sono diversi (v. Sez. U. civ, 2951 del 16/2/2016, Bellini v. Anas s.p.a., Rv. 638371)» (Sez. 2, n. 1215\2018, cit).
Tale distinzione tra i requisiti della legittimazione ad agire – che nel processo penale sono gli stessi richiesti per l’ammissione della costituzione di parte civile – ed il riconoscimento del diritto al risarcimento sono alla base anche dell’orientamento della Cassazione civile secondo cui «in materia di responsabilità civile, anche nei confronti delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificare con qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione – compatibile con l’assenza di fisicità del titolare – di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine. Tale pregiudizio, però, in quanto costituente “danno conseguenza”, non può ritenersi sussistente in re ipsa, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento» (Sez. 6, n. 7594 del 28/03/2018, Rv. 648443).
Nel perimetro tracciato da tali coordinate ermeneutiche si è chiarito che a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite dell’ 11 novembre 2008 n. 26972 debba essere esclusa la sussistenza di un danno non patrimoniale in re ipsa, sia che esso derivi da reato, sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy o di equa riparazione per durata irragionevole del processo), sia infine che derivi dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, tra cui, ad es., il diritto all’immagine di una persona giuridica.
Ciò in quanto con il superamento della teoria del c.d. danno evento, il danno risarcibile “nella sua attuale ontologia giuridica segnata dalla norma dell’art. 2043 c.c. non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione” (in questi termini Cass. civ. n. 16133 del 15.7.2014)» (Sez. 2, n. 1215\2018, cit.).
Pertanto, mentre il diritto alla costituzione va verificato ex ante sulla base delle allegazioni della parte, la sussistenza del danno del quale si invoca il risarcimento deve essere oggetto di allegazione e prova nel corso del processo in cui la parte civile è stata ammessa e la sua sussistenza sarà valutata ex post.
Come si è anticipato la prova del danno è tanto più onerosa per la parte costituita quanto più il danno si configura come “indiretto”: la prova del danno patito da una persona immediatamente e direttamente offesa dall’azione delittuosa è sicuramente meno complessa della prova del pregiudizio patito da un terzo danneggiato, e diventa ancora più gravosa quando la parte civile costituita è un ente rappresentativo di interessi collettivi caso in cui – come si è chiarito – non deve essere provare solo l’offesa “astratta”, che legittima la costituzione, ma anche il danno “concreto” patito dall’Ente.
In conclusione si afferma che ai fini della condanna generica dell’imputato al risarcimento dei danni in favore degli enti rappresentativi di interessi collettivi costituiti parte civile, occorre che questi ultimi (sui quali – in quanto ai fini de quibus attori – grava ordinariamente l’onere della prova), forniscano la prova del danno lamentato.
Soltanto nel caso in cui sia costituita parte civile la persona offesa dal reato, detto onere può ritenersi soddisfatto attraverso la mera prova della sussistenza del fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose in ordine al quale l’imputato abbia riportato condanna agli effetti penali
Nel caso in esame, gli oneri di specifica deduzione e di prova non sono stati soddisfatti dalle associazioni ricorrenti costituite in quanto ipoteticamente terze danneggiate.
